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domenica 6 agosto 2023

IL MISTERO DEL FARAONE AKHENATON.

 

Il ritratto scultoreo che vedete in questo post si trova al Walters Art Museum, il principale museo di arti visive di Baltimora, negli Stati Uniti. Si suppone che rappresenti la figlia di Akhenaton, o forse sua moglie. La scultura raffigura una donna di una bellezza quasi "sovrumana", di una perfezione estetica forse unica nella storia antica, al punto da essere considerata una delle donne più belle della storia. Eppure questa donna ha un cranio incredibilmente più grande del normale...

Lo stesso si può dire del padre o del marito, a seconda del rapporto effettivo tra loro, ovvero il misterioso Akhenaton. Il faraone che, per la prima volta nella storia dell'umanità, voltò le spalle alla religione egizia, rinnegando la pletora di dei e sacerdoti, il primo "monoteista" della storia, aveva anche un cranio allungato, dita lunghe quasi il doppio del normale e caratteristiche fisiche androgine. Il professor Bob Brier, egittologo di fama mondiale e docente di egiziano alla New School University di New York, ha raccontato così in uno dei suoi documentari: "È come se una creatura proveniente da un altro pianeta fosse stata catapultata nel deserto egiziano.
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Sono state avanzate numerose ipotesi per spiegare perché Akhenaton, sua moglie e forse sua figlia avessero caratteristiche chiaramente "inumane". Alcuni hanno suggerito malattie genetiche. Ma non esiste una malattia genetica che colpisca 1 o 2 individui di una stirpe e non si ripresenti mai più, né prima né dopo. Inoltre, Akhenaton e sua moglie non erano consanguinei. Com'è possibile che lei abbia le stesse caratteristiche "disumane" del marito? Altri hanno parlato di "espressioni artistiche". Ma com'è possibile che questa "arte" si applicasse solo a 2 o 3 individui di un'intera corte, e che non venisse mai più applicata, quando la linea di faraoni della "famiglia" di Akhenaton comprendeva almeno altri 2 o 3 faraoni (e forse un faraone donna)?
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Quando il sacerdozio riprese il potere dopo la sua morte, la figura di Akhenaton divenne tabù in Egitto. I "restauratori" arrivarono a spaccare le tombe, a distruggere le statue e a cancellare le scritte sui muri. Akhenaton deve essere dimenticato e mai più nominato.
L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

lunedì 27 luglio 2020

Neanderthal sentivano dolore più facilmente a causa di variazione genetica.


Credito: sgrunden, Pixabay, 4731920

Secondo un nuovo studio condotto da ricercatori della società Max Planck, i Neanderthal erano caratterizzati da una soglia più bassa del controllo della percezione del dolore.
I ricercatori sono giunti a questa conclusione esaminando un gene portatore di questa caratteristica e hanno dimostrato che essa è presente anche in alcuni esseri umani provenienti soprattutto da aree quali quelle dell’America centrale e meridionale così come in alcune aree dell’Europa.
Questi esseri umani hanno ereditato questa variante genetica che codifica un particolare canale ionico il quale è responsabile della sensazione del dolore.
Per scoprire queste particolari caratteristiche del gene in questione i ricercatori hanno utilizzato i dati di un grande studio contenente le caratteristiche genetiche di molte persone provenienti dal Regno Unito scoprendo che quelle persone che possedevano questa particolare variante erano più soggette a sentire il dolore e la sensazione del dolore partiva più presto rispetto a chi non possedeva questa variante.
Come spiega Hugo Zeberg, scienziato dell’istituto Max Planck per l’antropologia evoluzionistica e del Karolinska Institutet, autore principale dello studio, questo particolare variante del canale ionico semplicemente ” ti fa provare più dolore”, come se tu fossi un bambino di otto anni.
Questo non vuol dire che i Neanderthal automaticamente sentivano più dolore rispetto all’Homo sapiens, come chiarisce Svante Pääbo, un altro degli autori dello studio. L’impulso del dolore, infatti, viene modulato anche dal midollo spinale e dal cervello, tuttavia che la soglia oltre la quale inizia la sensazione del dolore fosse nei neanderthaliani più bassa sembra ora un dato di fatto.
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lunedì 27 novembre 2017

Perché il cervello umano è diverso da quello degli scimpanzé.

Un'interpretazione artistica del cervello umano (fonte: Allan Ajifo) © Ansa
Un'interpretazione artistica del cervello umano (fonte: Allan Ajifo)

Sarebbe la maggiore espressione di alcuni geni in specifiche aree cerebrali - come la neocorteccia, responsabile delle funzioni cognitive superiori - a fare la differenza tra il nostro cervello e quello degli scimpanzé. Lo dimostra una nuova ricerca che ha confrontato i tessuti cerebrali di diverse specie di primati.(red)

Il cervello umano non è semplicemente una versione ingrandita del cervello dei nostri antichi antenati. Secondo un nuovo studio pubblicato su "Science" da un gruppo di ricercatori della Yale University, l'approfondita analisi dei tessuti cerebrali di diverse specie di primati mostra differenze sostanziali, oltre che sorprendenti, nell’espressione di alcuni geni.

"Il nostro cervello è tre volte più grande di quello degli scimpanzé o delle scimmie, ha molte più cellule, e quindi ha una potenza di calcolo molto superiore", ha spiegato Andre M.M. Sousa, coautore dello studio. "Tuttavia, si possono osservare alcune peculiarità nel modo in cui le singole cellule funzionano e si connettono tra loro".

Sousa e colleghi hanno studiato campioni di tessuto cerebrale di sei esseri umani, cinque scimpanzé e cinque macachi, ricavando il profilo di trascrizione dei geni in 247 campioni complessivi, rappresentativi di diverse regioni cerebrali tra cui l'ippocampo, l'amigdala, lo striato, il nucleo medio-dorsale nel talamo, la corteccia cerebellare e la neocorteccia.

Complessivamente, l'espressione dei geni negli esseri umani è molto simile a quella delle scimmie in tutte le regioni cerebrali, anche nella corteccia prefrontale, o neocorteccia, sede delle funzioni cognitive che più ci distinguono dagli altri primati.

Perché il cervello umano è diverso da quello degli scimpanzé
Science Photo Library/AGF


A un'analisi più sottile e approfondita, tuttavia, si evidenziano alcune differenze. Due geni in particolare sono fortemente espressi nella neocorteccia e nello striato umani molto di più che nella neocorteccia degli scimpanzé.

Si tratta dei geni TH e DDC, che codificano per due enzimi coinvolti nella produzione di dopamina, un neurotrasmettitore cruciale per le funzioni di ordine superiore, 

come la memoria di lavoro, il ragionamento, il comportamento esplorativo e l'intelligenza complessiva, la cui produzione, tra l'altro, è alterata nei soggetti affetti dalla malattia di Parkinson.
Queste specifiche differenze nelle espressioni geniche secondo i ricercatori hanno una notevole influenza sul funzionamento delle cellule cerebrali e sui loro meccanismi di differenziazione e di migrazione.

Dato però che nei primati non umani questi geni non sono assenti ma solo meno espressi, secondo Sousa “è molto probabile che l'espressione di questi geni nella neocorteccia andò perduta in un nostro antenato comune ed è poi riapparsa nel ramo filogenetico degli esseri umani”.

Altre differenze distintive sono state riscontrate all'interno del cervelletto, il che è sorprendente, dato che si tratta di una delle regioni cerebrali evolutivamente più antiche. In particolare esiste un gene, chiamato ZP2, che è attivo solo negli esseri umani. Anche questo dato è sorprendente dato che si tratta di un gene correlato alla selezione degli spermatozoi da parte degli ovociti umani.

Infine, gli autori hanno riscontrato una notevole differenza nell'espressione del gene MET, correlato allo sviluppo di disturbi dello spettro autistico, nella corteccia prefrontale degli esseri umani rispetto ad altri primati considerati.



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mercoledì 15 febbraio 2017

5 errori che facciamo sull’evoluzione.


Risultati immagini per evoluzione umana

Davvero gli uomini hanno smesso di evolversi? L’evoluzione spiega l’origine della vita? Possiamo parlare di perfetti adattamenti all’ambiente? In occasione del Darwin Day ecco altri 5 errori comuni sull’evoluzione

Il 12 febbraio è l’anniversario della nascita di Charles Darwin e, come ogni anno, la ricorrenza è l’occasione per riaffermare pubblicamente l’attualità degli studi e dell’insegnamento dell’evoluzione attraverso gli eventi Darwin Day. I Darwin Day italiani sono segnalati dal portale dell’evoluzione Pikaia, mentre il sito dell’International Darwin Day Foundation mostra gli eventi in tutto il mondo.

Per gli obiettivi che si pone la celebrazione, questo Darwin Day è forse il più significativo degli ultimi anni: dopo l’elezione di Trump negli Usa si sono intensificati i tentativi di indebolire l’insegnamento dell’evoluzione, mentre anche in Europa, a lungo considerata relativamente immune a questo tipo di antiscienza, il creazionismo continua ad avanzare.

Eppure, se molto spesso fraintendiamo alcuni aspetti dell’evoluzione non è necessariamente colpa della propaganda creazionista (che di questi tempi qualcuno forse chiamare post-verità). Buona parte degli errori che facciamo sono molto probabilmente dovuti a come ragiona e comunica la nostra specie. Per esempio l’idea (errata) dell’evoluzione come progresso, che a volte ci fa paragonare gli organismi a tecnologie, è molto diffusa anche perché siamo naturalmente portati ad attribuire un fine a quello che ci circonda. In occasione del Darwin Day proviamo allora a raccontare altri 5 errori comuni che facciamo sull’evoluzione.

1. L’evoluzione NON spiega l’origine della vita.
Charles Darwin
 e Alfred Russel Wallace erano dei geni e la loro teoria, opportunamente aggiornata, è in grado di spiegare la diversità della vita sul nostro pianeta. Quello che non spiega, invece, è come sia nata la vita. Gli scienziati non hanno dubbi che i primissimi organismi terrestri siano stati immediatamente sottoposti ai meccanismi evolutivi, e che quello che vediamo intorno a noi sia il risultato di quella che Darwin chiamava “discendenza con modificazioni”. Ma senza la materia prima, l’evoluzione biologica non può avere luogo. Com’è nata allora la vita? La realtà è che ancora non lo sappiamo. In generale, gli scienziati parlano di abiogenesi: sulla Terra primordiale processi naturali hanno probabilmente portato ai composti chimici alla base della vita, e in centinaia di milioni di anni questi si sarebbero auto-organizzati in sistemi molecolari in grado di replicarsi e mantenere un metabolismo, cioè le prime forme di vita. Viene usato a questo proposito anche il termine evoluzione chimica, perché si può comunque immaginare un processo graduale, dove magari alcuni sistemi sono diventati predominanti, ma si tratta di qualcosa di ben distinto dall’evoluzione biologica di Darwin e Wallace: come detto l’origine della vita è un problema scientifico aperto.


2. NON ci siamo evoluti per caso.
Diversi creazionisti credono che secondo i biologi il cambiamento degli esseri viventi sia dovuto al puro caso, e spesso a loro supporto citano un esempio del celebre astronomo Fred Hoyle: se un tornado passasse sopra un deposito di rottami, quali sono le probabilità che il risultato sia un Boeing 747 perfettamente funzionante? In realtà l’esempio (ampiamente demolito) di Hoyle riguardava l’abiogenesi, ma argomenti di questo tipo risalgono addirittura ai tempi di Darwin. Il caso ha una grande importanza nell’evoluzione, ma dire che l’evoluzione è un processo casuale è errato; allo stesso tempo è errato affermare che è un processo dove il caso non conta nulla. Sì, le mutazioni del dna sono in genere definite casuali, nel senso che l’emergere di una certa mutazione non dipende dai bisogni dell’individuo o della specie. Ma la selezione naturale (come quella sessuale) è l’opposto del caso: l’adattamento è reso possibile da questo onnipresente filtro che nel tempo modificano il patrimonio genetico delle popolazioni. Non è affatto un caso se alcune delle (rare) mutazioni che permettono agli individui di lasciare più discendenti si diffondono.

3. L’evoluzione È osservabile. 
Si dice che l’evoluzione sia lenta e graduale, e che per questo non è possibile osservarla direttamente. In realtà è vero che l’evoluzione è graduale e molti cambiamenti avvengono nella scala dei tempi geologici, ma esistono molti casi nei quali è possibile osservare l’evoluzione in diretta, o quasi. Usando organismi che si riproducono molto velocemente, come i batteri, gli scienziati possono osservare in laboratorio la selezione naturale e le altre forze dell’evoluzione, come nel caso del E. coli Long-Term Evolution Experiment (Ltee) cominciato dal microbiologo Richard Lensky (Michigan State University) nel 1988. Rapidi adattamenti sono osservabili anche fuori dai laboratori: la resistenza dei batteri agli antibiotici è forse l’esempio più immediato, ma tutti i patogeni, dagli insetti ai funghi, sviluppano rapidamente ceppi resistenti a tutte le nostre contromisure. Anche i vertebrati possono cambiare nel giro di pochi decenni, e in tutto il mondo stiamo già assistendo agli adattamenti dovuti al cambio climatico.

4. Gli esseri umani NON hanno smesso di evolversi. 
Nel 2013 il divulgatore britannico David Attenborough ha affermato che, almeno nei paesi più sviluppati, l’evoluzione umana si sarebbe fermata: medicina ed elevati livelli di benessere avrebbero eliminato la lotta per la sopravvivenza, e di conseguenza l’evoluzione. Non è chiaro come un divulgatore tanto preparato abbia potuto fare un tale scivolone, ma i biologi non hanno tardato a replicare. Sì, indiscutibilmente la specie umana sta continuando a evolversi, anche nelle società dove quasi tutti raggiungono tranquillamente fino all’età riproduttiva. Non è infatti necessario che molti individui non sopravvivano perché l’evoluzione avvenga: finché alcuni faranno più figli di altri, finché continueremo a scegliere (quindi in maniera non casuale) se e con chi riprodurci, e finché l’ambiente intorno a noi continuerà a mutare, il dna delle popolazioni continuerà a cambiare e l’evoluzione continuerà la sua strada.

5. L’adattamento perfetto NON esiste.
Quante volte guardando un documentario abbiamo sentito il narratore affermare che un certo organismo era “perfettamente adattato”? Sicuramente i risultati della selezione naturale possono farci rimanere a bocca aperta, ma i biologi sanno che la perfezione non è un concetto applicabile agli esseri viventi. Come spiega Marco Ferrari nel libro l’Evoluzione è ovunque (Codice, 2015) anche i più stupefacenti adattamenti sono frutto di compromessi, non c’è spazio per assoluti: “Per diventare una macchina da predazione, l’evoluzione del ghepardo ha dovuto obbedire a numerosi compromessi che derivano da spinte evolutive differenti. Quelle che portano alla velocità evolverebbero strutture per farlo correre il più rapidamente possibile, ma “coabitano” con altre, come robustezza o capacità riproduttiva. Il risultato sono caratteristiche a metà strada tra le une e le altre. […] Non può esistere, quindi, un ghepardo velocissimo e fortissimo”. Le stesse considerazioni sono valide per qualunque specie, anche la nostra. Basta pensare alla nostra postura eretta con andatura bipede, celebrata come un traguardo nella celebre (e antiscientifica) icona La marcia del progresso: rispetto alle altre scimmie gli umani hanno pelvi più strette, una caratteristica che rende il parto più rischioso, anche a causa della grandezza del nostro cervello. Un bacino ancora più stretto, spiega Ferrari, potrebbe faciliterebbe la corsa, ma renderebbe impossibile la riproduzione, quindi quello che osserviamo è il risultato di un compromesso tra diverse spinte evolutive.

http://pikaia.eu/5-errori-che-facciamo-sullevoluzione/

martedì 4 novembre 2014

MiR-941: il mistero del gene comparso dal nulla. - Roberto Crudelini

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Ora conosciamo il gene che ha permesso all'uomo di diventare improvvisamente Sapiens. Un gene che non sembra essere il risultato di un procedimento evolutivo ma di un innesto improvviso.

Due anni fa è passata abbastanza sotto silenzio la notizia che un team di ricercatori dell'Istituto di Genetica e Medicina Molecolare dell'Università di Edimburgo, guidati dal dr. Martin Taylor, ha scoperto nel Dna umano un gene importantissimo che sarebbe legato allo sviluppo cerebrale e che avrebbe la peculiarità di appartenere solo ed esclusivamente al genere umano. L'altra particolarità di quello che potrebbe essere definito il "Santo Graal" per decifrare finalmente il mistero dell'evoluzione umana, è che questo gene, quando emerse all'improvviso più di un milione di anni fa, e per giunta in un arco di tempo incredibilmente breve, era già perfettamente operativo e discendeva da Dna non codificante. In pratica lo abbiamo semplicemente trovato inserito all'interno di quel materiale che la scienza definisce in modo un po' grezzo ma efficace "spazzatura" genetica, le cui funzioni, assolutamente ridondanti, sono a tutt'oggi avvolte dal mistero.

Ricordiamo che i filamenti del Dna, quando subiscono il procedimento di cosiddetta "trascrizione", vengono ricopiati nei corrispondenti filamenti di Rna, ovvero l'Acido Ribonucleico, un polimero organico chimicamente molto simile al Dna, che di questo, potremmo dire, ne è il fedele messaggero in quanto ha proprio la precisa funzione di trascriverne l'informazione genetica. Si dice quindi Dna non codificante ogni sequenza di Dna in un genoma non soggetta alla suddetta trascrizione in Rna e quindi apparentemente senza alcuna immediata utilità pratica.

Secondo gli studiosi scozzesi il gene miR-941 sarebbe comparso dopo la presunta divisione tra scimpanzè e uomo in un macro periodo che ipoteticamente va dai 6 milioni ad un milione di anni fa. Questo gene, dalle origini assolutamente sconosciute, avrebbe in pratica dato un'accelerazione fantastica al processo cognitivo del nostro cervello permettendogli di migliorare in modo clamoroso le sue capacità linguistiche e i propri procedimenti decisionali. In parole povere, senza questo gene noi ora saremmo ancora fermi allo stato evolutivo di ominidi o giù di lì.

Questa scoperta dalle conseguenze inimmaginabili andrebbe comunque inserita in modo corretto e congruo nel complesso percorso-labirinto della ricerca sul mistero dell'origine dell'umanità. Ora noi sappiamo che ad un certo punto, qualcuno dice 200.000 anni fa, ma le ultime ricerche tendono a far risalire l'origine a 800.000 anni più indietro, ha incominciato a vivere sulla terra l'Homo Sapiens, che ha rappresentato, rispetto ai suoi predecessori, un salto quantico quasi inconcepibile. Dalle ultime recenti ricerche sembrerebbe poi che lo stesso Homo Sapiens e il suo cugino prossimo l'Uomo di Neanderthal, non siano stati il risultato dell'evoluzione diretta dall'Homo Erectus, dall'Homo Abilise dall'Homo Rudolfensis, loro predecessori, ma un qualcosa di totalmente differente e autonomo. Va detto poi come lo stesso Homo Sapiens si sia definitivamente evoluto, in pratica abbia fatto il salto definitivo che lo avrebbe portato alla civiltà, soltanto 50.000 anni fa, nel periodo  che corrisponde grosso modo al Paleolitico Superiore, dopo che lo stesso Uomo di Neanderthal era improvvisamente scomparso dalla faccia della terra.

Oltre al gene Mir-941 un altro aspetto che ha reso possibile nell'uomo lo sviluppo quasi improvviso del linguaggio e quindi il conseguente pensiero simbolico e religioso insieme alla coscienza di sé stesso, è stato, a livello anatomico, l'abbassamento della laringe che, grazie al conseguente allungamento del tratto faringeo, ha permesso la propagazione del suono tramite le corde vocali, cosa impossibile al resto degli esseri viventi che popolano la terra. Una modificazione strutturale quasi improvvisa, forse in qualche modo derivante dallo stesso innesto del gene miR-941, che ha comportato in sé anche un grandissimo rischio: quello di farci morire soffocati, perché l'uomo adulto, proprio a causa dell'abbassamento laringeo, non può degluttire e respirare nello stesso momento così come invece riesce a fare un neonato nel quale appunto la laringe non si è ancora abbassata.

Di sicuro, comunque, ora sappiamo che qualcosa di incredibile e di clamoroso ha avuto luogo ad un certo punto della nostra storia, una modificazione genetica, un'aggiunta pescata dal "kit" che il nostro Dna aveva a disposizione nel suo "zaino" e che sembrerebbe essere il frutto di un preciso progetto piuttosto che di un casuale e prolungato processo evolutivo. Un "inserimento" non arrivato verticalmente in seguito ad un lento lavorio di trasformazione ma bensì orizzontalmente, non si sa bene ad opera di chi, che ha modificato il Dna umano a tal punto da proiettare il cervello umano verso l'autocoscienza di sé ma soprattutto verso la conoscenza di un Qualcuno a cui dobbiamo la nostra identità e forse la nostra stessa esistenza. In questo possiamo dire effettivamente che, se esiste un regno dei cieli, questo effettivamente si trova dentro noi stessi ed è quello che  forse ci fa essere a...immagine e somiglianza del nostro stesso "ideatore".