Mi affaccio al balcone per sincerarmi che il cumulo di spazzatura sia sempre là.
Cresce, con le auto che arrivano e lanciano il loro sacchetto senza nemmeno fermarsi. Scivola giù una busta azzurra, che pare viva.
Sembra voler fuggire, sembra voler non stare al gioco della schifezza; ma impietosamente muore schiacciata sotto le ruote di un camion, lasciando le sue budella melmose sull’asfalto. Prima o poi il probo cittadino scenderà di sotto, nottetempo, e incendierà tutto, cosicché l’acre odore di fumo e diossina si sparga nei nostri polmoni.
“A che punto siamo!” “A che punto siamo?” e non è importante che si affermi o si domandi.
Lo sconforto è uguale.
Siamo quel cumulo di spazzatura, e siamo in quel cumulo di spazzatura.
Distratti dalla laboriosa opera dei poteri mediatici, siano essi il governo, i politici/non politici, la televisione o i giornali.
Siamo spettatori annoiati di questo teatro mal recitato, dove i ruoli a copione paiono scontati come quelle dei polpettoni sudamericani, che si sa già come andrà a finire tra amori e tradimenti, nascite e morti, ricchezza e povertà, già prima che parta la sigla.
O l’inno nazionale.
Esattamente come in una fiction recitata all’italiana, cambiano gli attori ma resta la povertà dei testi, lo guardo vacuo nei visi di plastilina di chi al massimo ha imparato che l’attore deve avere almeno due espressioni: una triste e una allegra; ma non ha imparato bene a utilizzarle.
Un po’ come George Clooney, che non sai mai distinguere se è un film o la pubblicità di un caffè, nemmeno quando dice al taxista l’indirizzo al quale lo si deve accompagnare.
Da tempo utilizzo quel cumulo di spazzatura, che cambia come cambiano i giorni, come misura dello scempio del paese intero. A nessuno importa un accidente dell’obbrobrio, della puzza, dell’inciviltà che dilaga, della necessità del singolo di trovare un luogo dove abbandonare furtivo la sua spazzatura.
Non importa nemmeno a chi ci vive accanto, schifato sì, ma abituato, che non si impegna a far quel poco di differenziazione dei rifiuti, “perché chi mi garantisce che poi finisca davvero per essere riciclata?”
Mentalità figlia del “tanto son tutti uguali” che ha portato tanti a sfiduciarsi, altri a premiare chi diceva d’essere diverso.
E invece era più uguale degli altri, ormai spinti tutti dalla stessa bramosia di essere padroni del tempo, del piccolo mondo, e delle nostre vite.
E qualcuno lo dimostra, gettando via le risorse umane indegne del movimento.
Altri sacchetti sul cumulo.
O minacciando l’espulsione dal partito.
Un altro sacchetto.
Perché il capo non si discute.
E il cumulo di merda nella quale ci si ritrova ad annaspare, aumenta.
Ma non è importante ripulirla, l’importante è promettere di farlo, con promesse assurde, a tratti esilaranti, alle quali, per fortuna quasi nessuno crede più, fatto salvo il reddito di cittadinanza, che molti giovanissimi elettori traducono con un “pure se non lavoriamo almeno un po’ di soldi ce li danno” (virgolettato, perché tristemente testuale).
Ma che volevo dire?
Scusate, mi son persa.
Ah, sì, ora mi sovviene: “Che tristezza, tutto intorno.
E quanta miseria nella in questa umanità ormai vinta.”
C’è la Chiesa accanto alla spazzatura.
Sabato porteranno via il monticello, e noi ne faremo un altro, più alto, colorato, puzzolente e deprimente.
Perché noi, partecipiamo! Noi non molliamo mai.
Rita Pani (APOLIDE)
In ogni caso, tengo a precisare che il capo lo discutiamo eccome!
E, in piena democrazia, il capo accetta.
Cetta