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sabato 6 marzo 2021

Tumori, anticorpi intelligenti li colpiscono al cuore.

Una cellule tumorale del pancreas (fonte: Min Yu,USC Norris Comprehensive Cancer Center)


Incoraggianti i test sui topi, verso terapia più facile e sicura.

Si può mandare il tumore al tappeto, anche sferrando colpi considerati finora proibiti, grazie ai nuovi anticorpi a doppia azione che gli esperti chiamano 'bispecifici'. La loro peculiarità è quella di poter legare la cellula tumorale e allo stesso tempo anche i linfociti T del sistema immunitario, diventando una sorta di ponte che facilita il riconoscimento e l'eliminazione delle cellule malate risparmiando quelle sane. La validità di questo approccio, che potrebbe aprire la strada a una nuova immunoterapia più facile e sicura, è dimostrata su cellule umane e modelli animali in tre diversi studi, guidati dalla Johns Hopkins University e pubblicati sulle riviste Science, Science Immunology e Science Translational Medicine.

Nel primo lavoro, i ricercatori hanno messo nel mirino un bersaglio tumorale molto sfuggente, localizzato per lo più nel nucleo delle cellule e per questo irraggiungibile per molte terapie: si tratta della proteina p53, un oncosoppressore che in molti tumori risulta mutato e spento. Nei topi malati di mieloma multiplo, gli anticorpi bispecifici sono riusciti a riconoscere e legare la proteina mutata anche quando era presente in minime quantità sulla superficie delle cellule tumorali, inducendo i linfociti T a eliminarle in modo selettivo.

Nel secondo studio, condotto su cellule umane prelevate da tumori di polmone e pancreas, gli anticorpi hanno dimostrato di poterle distruggere in maniera mirata colpendo un altro target molto elusivo, la proteina mutata RAS.

Infine l'ultimo studio, realizzato su cellule umane e topi con diversi tipi di leucemia e linfoma, ha dimostrato l'efficacia di anticorpi bispecifici diretti contro due bersagli molecolari presenti sui linfociti T malati, che in questo modo vengono colpiti risparmiando quelli sani.

Questi risultati indicano che la ricerca sugli anticorpi bispecifici ha imboccato una strada promettente, che potrebbe portare a una nuova immunoterapia più facile da usare perché non richiede di essere personalizzata, a differenza per esempio delle terapie Car-T basate sui linfociti T del paziente stesso modificati in laboratorio e poi reinfusi. Per realizzare appieno il potenziale di questi nuovi anticorpi, però, ci sono ancora diversi problemi da risolvere, come sottolinea Jon Weidanz, immunologo dell'Università del Texas e imprenditore biotech. Nel suo editoriale su Science osserva ad esempio che gli anticorpi sono piccole molecole che finiscono per essere eliminate in fretta dal sangue: per questo motivo bisognerà immaginare una formulazione o un metodo di somministrazione (ad esempio attraverso una piccola pompa impiantata) che permetta di mantenere nel tempo una concentrazione adeguata del farmaco in circolazione.

https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/biotech/2021/03/05/tumori-anticorpi-intelligenti-li-colpiscono-al-cuore_73a38ef6-e042-45d0-92e2-83372502b29b.html

sabato 19 dicembre 2020

Il caso degli anticorpi monoclonali, la lettera del professor Ippolito e la risposta del FattoQuotidiano.it.

 

Il FattoQuotidiano.it ha pubblicato un'inchiesta sulla mancata possibilità di utilizzare - gratuitamente - in ottobre in Italia 10mila dosi del farmaco che riduce i rischi di ospedalizzazione. Il direttore scientifico della Spallanzani ci ha scritto per spiegare le critiche sollevate sulla sperimentazione e il Fatto chiede perché non è stato fatto il possibile per utilizzare un composto autorizzato da oltre un mese negli Usa. Intanto l'Aifa tace.

Il 17 dicembre il FattoQuotidiano e ilfattoquotidiano.it hanno pubblicato un’inchiesta (qui il link) in cui si dava conto del fatto che a inizio ottobre l’Italia aveva avuto la possibilità di sperimentare con almeno 10mila dosi gratis gli anticorpi monoclonali dell’azienda Usa Eli Lilly che riduce i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. Possibilità evaporata dopo una riunione all’Aifa. Al Fatto risultava presente, tra gli altri, anche il professor Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani, che avrebbe sollevato una serie di critiche. Interpellato prima telefonicamente e poi tramite email lo scienziato ha risposto alle domande con una lettera al direttore. Qui di seguito le domande rivolte, la lettera del professor Ippolito, la nostra risposta.

LE DOMANDE

Il 7 ottobre 2020 l’Aifa ha ricevuto la richiesta di valutazione di un “trial clinico pragmatico” proposto da una multinazionale che lo aveva somministrato in via sperimentale negli Usa. Vorremmo sapere quali valutazioni sono state fatte e perché, come ci risulta, si è deciso di non dar corso alla proposta che si basava anche sulla fornitura a titolo gratuito di 10mila dosi.

Al FattoQuotidiano risulta che nelle riunioni citate il suo parere è stato fortemente negativo? Perché? Quali riserve sul farmaco stesso, quali sugli studi disponibili, quali di rango regolatorio

C’è chi pensa che lei abbia voluto frenare questa possibilità perché lo Spallanzani è impegnato con la Fondazione Toscana Life Sciences proprio nei test di anticorpi monoclonali. Che risponde?

A che punto è quella sperimentazione? Fino a poco tempo fa se ne parlava molto e si dava come orizzonte la prossima primavera…

Ci risulta che dopo Usa – dove dal 10 novembre è autorizzato pare con successo l’uso degli anticorpi – e Canada alcuni Paesi della Ue stiano per ufficializzare un’autorizzazione d’emergenza rispetto alle procedure dell’Ema che non consentono autorizzazioni senza la chiusura degli studi. È una strada impraticabile per l’Italia? Perché lo sarebbe per la Germania?

LA LETTERA.

Egregio direttore,

contrariamente alle mie abitudini, sono costretto a intervenire in merito all’articolo “Il salvavita italiano che noi non usiamo”, pubblicato sul Fatto Quotidiano del 17 dicembre, per fornire ai suoi lettori alcune precisazioni. L’articolo, riassumo liberamente per chi non avesse avuto la fortuna di leggerlo, ipotizza che io avrei dato, nel corso di una riunione svoltasi in sede Aifa il 29 ottobre scorso, parere negativo all’avvio in Italia del trial clinico di un farmaco prodotto dalla multinazionale Eli Lilly che qualche giorno dopo avrebbe ottenuto l’autorizzazione all’uso emergenziale negli Stati Uniti, privando così il nostro Paese di uno strumento in grado di salvare migliaia di persone dalla malattia COVID-19.

Chi mi conosce sa che ho troppo rispetto per le istituzioni alla quali sono chiamato a collaborare per venire meno al dovere della riservatezza e prestarmi invece al giochino tutto italiano dell’indiscrezione, della soffiata, della confidenza. Di fronte ad una richiesta di questo tipo, sono stato forse un po’ brusco ma certamente corretto nell’indicare al giornalista il luogo istituzionale – l’Aifa appunto – al quale avrebbe potuto chiedere informazioni.

Quanto all’accusa di conflitto di interessi, ovvero che sarei stato contrario al trial del farmaco Eli Lilly perché lo Spallanzani partecipa ad un altro progetto di ricerca finalizzato allo sviluppo di un medicinale analogo, non riesco neanche ad offendermi tanto è evidente la sua inconsistenza: in base alla stessa logica, dovrei essere contrario alla somministrazione del nuovo vaccino Pfizer dal momento che il mio istituto – istituto pubblico, è il caso di ricordare – è impegnato a condurre uno studio di fase 1 di un altro vaccino sviluppato in Italia, e uno di fase 3 del vaccino AstraZeneca, e sono personalmente impegnato nel comitato di sicurezza e monitoraggio di un ulteriore vaccino. Chiunque voglia fare ricerca nel nome della scienza sa che allo Spallanzani troverà sempre le porte aperte: a breve, solo per fare un esempio, avvieremo la sperimentazione per un nuovo anticorpo monoclonale.

Vorrei approfittare di questa occasione, visto che si parla di argomenti sui quali ho qualche competenza, per rassicurare i lettori che probabilmente si chiedono come mai non si sia accolta la possibilità di avere questo farmaco, “una mano dal cielo misteriosamente respinta”, una occasione “da cogliere al volo”, che “avrebbe permesso di salvare migliaia di persone” come scrive l’autore dell’articolo con una enfasi un po’ sospetta. Il trial BLAZE-1 cui si riferisce lo studio del New England Journal of Medicine citato nell’articolo in realtà attesta una modesta efficacia del farmaco nei pazienti con sintomi lievi o medi: solo per uno dei tre dosaggi utilizzati è stata riscontrata, a 11 giorni dal tampone positivo, una riduzione della carica virale maggiore rispetto a quella osservata nei pazienti trattati con placebo, mentre vi è stata sì una migliore performance per quanto riguarda la percentuale dei ricoverati (1,6% nel gruppo del farmaco, 6,3% in quello del placebo), ma con numeri assoluti troppo bassi (cinque ricoverati nel gruppo dei farmaci, nove in quello del placebo) per poter avere una robusta rilevanza statistica. Né tra i pazienti trattati col farmaco né tra quelli ai quali è stato somministrato il placebo, infine, vi è stato alcun decesso.

Ciò che però nell’articolo non viene detto, e che secondo me sarebbe stato invece opportuno riportare per completezza di informazione, è che un altro trial (ACTIV-3), che si proponeva di valutare l’efficacia dello stesso farmaco nei pazienti ricoverati in ospedale, è stato interrotto dal board indipendente di valutazione a causa di “assenza di benefici clinici” per i pazienti ospedalizzati. In parole semplici: sui pazienti più gravi questo farmaco non ha dimostrato alcun effetto.

La chiusura negativa del trial americano avveniva il 26 ottobre: tre giorni dopo, in una conversazione informale e non – come viene sostenuto nell’articolo – in una riunione ufficiale in sede Aifa per esprimere un parere, la società farmaceutica proponeva di testare il farmaco in Italia. Quando si dice la coincidenza…

Concludo: di fronte ad una pandemia che ha sconvolto le nostre vite, causato tante morti e travolto la nostra economia, il nostro dovere di uomini di scienza, ma anche di operatori dell’informazione, dovrebbe essere quello di comportarci in maniera corretta ed etica, rispettando il ruolo e le funzioni delle agenzie regolatorie alle quali spetta l’ultima parola, senza alimentare false speranze in rimedi miracolosi, che purtroppo non esistono, e senza seminare dubbi non suffragati da prove sulle scelte degli organismi preposti a decidere in materia di salute pubblica.

LA RISPOSTA.

Il FattoQuotidiano non ha chiesto al professor Ippolito di venir meno al dovere di riservatezza, ma di avere un riscontro per verificare quella che senza dubbio era una notizia riportando la sua pur breve dichiarazione: “Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”. Rassicuriamo i nostri lettori che l’Aifa è stata più volte contattata per chiedere delucidazioni. Invano. Il FattoQuotidiano non ha accusato nessuno di conflitto di interessi, ma avanzato una ipotesi in assenza di una risposta completa ed esauriente a domande legittime.

Per quanto riguarda il trial ci siamo impegnati per comprendere – in un settore piuttosto tecnico – che l’effetto sulla riduzione della carica virale è di importanza secondaria rispetto al rischio di ricoveri ospedalieri che cala, stando allo studio pubblicato su The New England Journal of Medicine (qui il link), da 5.8% a 1.6%. In considerazione, quindi, delle 10mila dosi di anticorpi a 10mila pazienti con Covid iniziale (ma ad alto rischio) si sarebbe potuti passare da 1.350 a 400 ospedalizzazioni: quindi 950 ricoveri in meno.

Riguardo al trial interrotto (Activ-3) questo non concerneva il potenziale protocollo di uso del farmaco Ly-CoV555 in Italia per il quale si parlava di un progetto per pazienti con sintomi iniziali e non ospedalizzati. Il punto fondamentale era quindi un altro: la tempistica. Sulla “coincidenza” della chiusura negativa del trial possiamo tranquillamente dire è non solo irrilevante perché non riguarda l’Italia, ma anche infondata perché i contatti con l’azienda sono partiti il 7 ottobre e il professor Ippolito ne è stato informato proprio in quei giorni.

Condividiamo con il professore Ippolito l’idea che il dovere di tutti sia quello di comportarsi in maniera corretta ed etica ed è per questo che pensiamo che sarebbe stato opportuno ed importante fare il possibile per usare in piena fase pandemica un farmaco che – approvato dalla Food and drug administration ormai da oltre un mese – causa una riduzione di oltre il 70% del rischio di ricovero ospedaliero in apparente, fino a questo momento, assenza di effetti collaterali. In settimane in cui, ricordiamolo, l’alternativa era nulla e a costo zero per le finanze pubbliche. Da oltre un mese invece negli Usa viene utilizzata, in via emergenziale, quella che viene considerata dalla comunità scientifica e non dal Fatto la prima terapia mirata per Covid 19.

Ci chiediamo e continueremo a farlo perché l’Agenzia italiana del farmaco, che ha tra le sue mission il contributo alla tutela del diritto della salute oltre che la regolamentazione dell’immissione in commercio, dell’uso e della vigilanza dei prodotti farmaceutici ad uso umano, che era ed è l’unico organo competente a valutare e autorizzare la procedura, non si sia ancora espressa, né abbia risposto alle legittime domande che allo stato restano inevase.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/18/il-caso-degli-anticorpi-monoclonali-la-lettera-del-professor-ippolito-e-la-risposta-del-fattoquotidiano/6041878/

mercoledì 13 maggio 2020

Coronavirus, gli anticorpi monoclonali la nuova arma.

Preparazione di anticorpi monoclonali presso il National Cancer Institute degli Stati Uniti (foto di Linda Bartlett/ Wikipedia) © Ansa
Preparazione di anticorpi monoclonali presso il National Cancer Institute degli Stati Uniti (foto di Linda Bartlett/ Wikipedia)

Il primo era stato scoperto a metà marzo e in nemmeno due mesi gli anticorpi monoclonali, ossia molecole mirate contro il nuovo coronavirus, sono molto più di una promessa: sono armi intelligenti e specifiche per bloccare il virus SarsCoV2, che l'Italia si sta preparando a sperimentare.

"Siamo tra i primi al mondo a fare un farmaco monoclonale derivato dal sangue dei pazienti convalescenti, che ci viene fornito dallo Spallanzani", ha detto Rino Rappuoli, chief scientist e head of external R&D della Gsk vaccine, che lo sta sviluppando presso la fondazione Toscana Life Sciences con l'Istituto Spallanzani di Roma. Nel dibattito online organizzato da Humanitas University, Istituto Nazionale Tumori di Milano e Università Bocconi Rappuoli ha detto inoltre che dal sangue dei pazienti si stanno prelevando gli anticorpi. "Ne abbiamo già isolati tanti e - ha aggiunto - speriamo di cominciare la fase industriale, per poterli poi usare in ambito clinico, tra fine anno e i primi mesi del 2021". Potrebbe essere il primo farmaco ad arrivare per la Covid-19 e verrebbe dato subito sia ai malati, sia agli operatori sanitari.

Sempre in Italia il gruppo del genetista Giuseppe Novelli, dell'Università di Roma Tor Vergata, sta collaborando con Pier Paolo Pandolfi, del Beth Israel Deaconess Medical Center dell'Università di Harvard, per chiedere l'autorizzazione alla sperimentazione clinica di tre anticorpi monoclonali sintetici capaci di bloccare la proteina Spike, principale arma cui il nuovo coronavirus invade le cellule.

Gli anticorpi monoclonali "potrebbero essere i primi farmaci intelligenti contro il virus", ha osservato Novelli, e "non sono in competizione con il vaccino". Gli anticorpi sono infatti farmaci destinati a chi ha la malattia, mentre il vaccino preventivo è destinato agli individui sani. Per Novelli sarebbe importante avere i farmaci in vista di ottobre, quando l'arrivo del freddo potrebbe far risalire il numero dei casi di Covid-19.

Le tre molecole, che sembrano avere un "altissimo potenziale applicativo e un alto potere neutralizzante", sono state selezionate grazie alla grande banca canadese di anticorpi ricombinanti, laTrac (Toronto Recombinanti Antibody Center). "Mostrano di avere i requisiti migliori, sono candidati fortissimi per diventare farmaci". L'idea è di organizzare uno studio clinico multicentrico fra Canada, india e Italia ed è in preparazione il dossier da presentare all'Agenzia italiana del farmaco (Aifa).

La strada degli anticopri monoclonali specifici contro il sarsCoV2 è stata aperta a metà marzo con la scoperta del primo anticorpo monoclonale anti Covid-19 ottenuto dall'Università olandese di Utrecht. La molecola si chiama 47D11 e nei test in laboratorio si è dimostrata capace di neutralizzare il virus nelle cellule, attaccando la proteina Spike.

venerdì 17 aprile 2020

Roche, messo a punto un test sierologico anti Covid-19.


Operatori sanitari al lavoro contro il Covid-19 (Foto d'archivio) ANSA/EPA

Il test, assicura l'azienda, sarà pronto per l'Unione europea già ai primi di maggio.

Roche ha messo a punto un test sierologico per individuare la presenza di anticorpi contro il coronavirus nei pazienti esposti al contagio da Covid-19. La casa farmaceutica svizzera, si legge in una nota, "punta" a rendere il test disponibile agli "inizi di maggio" nella Ue e "sta attivamente lavorando" con la Fsa americana "per un'autorizzazione d'emergenza". "L'individuazione di questi anticorpi - spiega Roche - potrebbe aiutare a indicare se una persona ha sviluppato un'immunità al virus".
L'individuazione di anticorpi "è centrale per aiutare a identificare persone che sono state colpite dal virus, specialmente quelle che posso essere state infettate ma non manifestano sintomi", spiega Roche annunciando il prossimo lancio del test, chiamato Elecsys. "Inoltre, il test può aiutare screening prioritari fra gruppi ad alto rischio, come i lavoratori sanitari, i fornitori di prodotti alimentari che possono aver già sviluppato un certo livello di immunità e che possono continuare a servire o ritornare al lavoro. Aver compreso di più circa l'immunità da Covid-19, può anche aiutare la società a tornare più velocemente alla normalità". "Ogni test affidabile sul mercato aiuta i sistemi sanitari ad aiutarci a superare questa pandemia. Roche sta collaborando a stretto contatto con le autorità sanitarie e sta accelerando la produzione per assicurare una veloce disponibilità del test a livello globale", ha spiegato il ceo di Roche, Severin Schwan". "Una pronta disponibilità e un veloce accesso ad affidabili test di alta qualità sono essenziali per i sistemi sanitari. Il test sugli anticorpi è un importante passo avanti nella lotta al Covid-19. Il test di Roche può essere prodotto rapidamente in grande quantità e reso ampiamente disponibile nel mondo", ha commentato Thomas Schinecker, ceo di Roche Diagnostics.

sabato 7 marzo 2020

Come il corpo blocca i virus.



I vaccini «addestrano» le cellule a reagire. Quando un agente patogeno - virus o batterio - viene introdotto nel corpo, si moltiplica e attacca le cellule: si parla di infezione. Riconoscendo il microbo come corpo estraneo, il sistema immunitario implementa due strategie di difesa. Prima di tutto c'e' la risposta immunitaria innata I macrofagi sono cellule assassine che inghiottono gli intrusi per distruggerli, i fagociti catturano ed eliminano le tossine. Questa reazione rapida e localizzata puo' arrestare o rallentare l'infezione, ma non sempre basta. Qui entrano in gioco i linfociti, cellule difensive che identificano l'invasore grazie alla sua molecola caratteristica, l'antigene. Ogni linfocita e' programmato per attaccare un particolare virus o batterio. Appena identifica l'antigene, si moltiplica I linfociti B hanno la capacita' di produrre un gran numero di anticorpi. Circolando nel corpo, gli anticorpi si attaccano agli antigeni e li neutralizzano, permettendo ai macrofagi di eliminarli. I linfociti T identificano e distruggono le cellule infette. Il problema e' la reazione immunitaria e' lenta, impiega diversi giorni, dando ai germi il tempo di scatenare una malattia. Fortunatamente, il corpo ricorda i nemici. Dopo un'infezione, gli anticorpi e i linfociti ne custodiscono la memoria e reagiscono se ricompare lo stesso patogeno In questo caso la reazione immunitaria e' molto piu' rapida ed evita che si sviluppi la malattia. I vaccini funzionano sfruttando la memoria del sistema immunitario. La vaccinazione simula un'infezione, allenando il sistema immunitario e facendogli sviluppare le armi di difesa. In pratica si introduce nel corpo un germe morto o inattivo o solo un suo frammento. Il vaccino innesca quindi una reazione immunitaria senza causare la malattia. L'organismo produce linfociti che memorizzano l'invasore e gli anticorpi, in preparazione per qualsiasi attacco futuro. Il potere di anticorpi e linfociti tende a diminuire nel tempo, il che significa che a volte e' necessario ripetere le vaccinazioni. ( Ansa - CorriereTv ).

https://www.youtube.com/watch?v=DcdNBuKTtQc