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giovedì 23 settembre 2021

Trattativa Stato-mafia, l’Appello atteso nel pomeriggio. Bis delle condanne, assoluzioni, una sentenza “mista”: le opzioni dei giudici. - Giuseppe Pipitone

 

Dopo tre giorni di camera di consiglio, la corte d'Assise d'Appello di Palermo emetterà la sentenza di secondo grado per Mori, De Donno, Subranni, Dell'Utri, Cinà e Bagarella. Essenzialmente le ipotesi sono tre. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, cioè la conferma delle condanne di primo grado. Poi c'è l'opzione delle assoluzioni, chiesta dalle difese. Infine decisioni diverse per i due segmenti della vicenda ricostruita in quasi 10 anni di processi.

Il quesito fondamentale non è se una trattativa ci fu. A questa domanda hanno già risposto, peraltro affermativamente, magistrati di altri processi. Il reato di trattativa, però, non esiste. Neanche quando a negoziare con Cosa nostra sono uomini dello Stato. Per questo motivo la domanda fondamentale alla quale dovranno rispondere i giudici della corte d’Assise d’Appello di Palermo è un’altra: tre alti ufficiali dei carabinieri e lo storico braccio destro di Silvio Berlusconi agirono in combutta con i mafiosi, diventando di fatto i portatori delle minacce dei bossMario MoriAntonio Subranni e Giuseppe De Donno prima, Marcello Dell’Utri poi, furono la “cinghia di trasmissione” del ricatto di Cosa nostra fino al cuore dello Stato, negli anni delle bombe e delle stragi?

La sentenza attesa a partire dalle 15 – Il presidente Angelo Pellino, il giudice a latere Vittorio Anania e i sei giudici popolari ci stanno riflettendo da tre giorni. Nella tarda mattinata del 20 settembre sono entrati in camera di consiglio e ne usciranno nel pomeriggio di oggi, quando compariranno all’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo per emettere la sentenza del processo d’Appello sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e le istituzioni. Dall’inizio delle indagini sono trascorsi dodici anni, nove dalla prima udienza preliminare, mentre il 20 aprile del 2018, la corte d’Assise aveva condannato quasi tutti gli imputati per violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mori e Subranni, stessa pena per Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina che fece da “postino” al papello, le richieste del capo dei capi per fare cessare le stragiOtto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.

Una sentenza, tre ipotesi – Ora, a quasi due anni e mezzo dall’inizio del processo d’Appello, tocca ai giudici di secondo grado esprimersi. Davanti hanno essenzialmente tre strade, tutte molto complicate. La prima è quella chiesta dalla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera: confermare in blocco tutte le condanne del primo grado. In questo caso i giudici dovrebbero basarsi sulle 5252 pagine delle motivazioni della sentenza della corte d’Assise. Che, però, vanno giudicate alla luce delle varie altre prove prodotte, sia dall’accusa che dalla difesa, durante l’Appello. Il processo di secondo grado, infatti, ha visto riaprire l’istruttoria dibattimentale su richiesta della stessa pubblica accusa. Sono stati approfonditi alcuni temi, rimasti sullo sfondo della sentenza di primo grado, come il ruolo della Falange Armata, l’oscura sigla che rivendicava stragi e attentati in tutta Italia nei primi anni ’90. Nel frattempo è diventata definitiva l’assoluzione di Calogero Mannino. Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, poi sposata dalla procura generale e pure dai giudici del primo grado, l’ex ministro della Dc è l’uomo che nella primavera del 1992 ha dato l’input ai carabinieri del Ros di aprire la trattativa con Cosa nostra. Timoroso di finire vittima della furia vendicatrice di Riina, imbufalito coi “vecchi” referenti politici incapaci di cancellare le condanne del Maxi processo, Mannino avrebbe chiesto a Subranni di aprire un canale con la piovra. A quel punto i carabinieri “agganciano” Vito Ciancimino: sarebbe praticamente il prequel della Trattativa.

Il bis delle condanne e l’assoluzione di Mannino – I condizionali, a questo punto, sono obbligatori. Dopo aver scelto di farsi processare col rito abbreviato, infatti, l’ex esponente della Dc è stato assolto in primo e secondo grado, con conferma della Cassazione. Nell’aprile del 2018, quando erano arrivate le condanne nel processo celebrato col rito ordinario, l’assoluzione di Mannino era solo di primo grado. La corte d’Assise di Palermo cercò di dribblare quella sentenza con queste parole: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora che si attende la sentenza di Appello, però, l’assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: per i giudici non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò addirittura a combatterla. Quando invece all’operato dei carabinieri con Ciancimino, si trattava solo di una “operazione info-investigativa di polizia giudiziaria”. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”.

Il ruolo dei carabinieri – Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria. La sentenza passata in giudicato su Mannino, però, potrebbe chiaramente avere un’influenza nelle scelte della corte d’Assise. È proprio appellandosi a quella sentenza che le difese di Mori, Subranni e De Donno hanno chiesto l’assoluzione dei loro imputati: se non c’è nessuno che ha chiesto di trattare con Cosa nostra, è il ragionamento, perché alcuni alti ufficiali dei carabinieri avrebbero dovuto farsi portatori dei desiderata dei mafiosi? A che pro? Ecco perché i giudici potrebbero riformare parzialmente la sentenza di primo grado, assolvendo gli imputati per la prima parte della trattativa, cioè i tre carabinieri, che in questa situazione vedono saldati i loro destini processuali. È molto difficile, insomma, che Mori, De Donno e Subranni possano essere destinatari di sentenze diverse. Basilio Milio, legale di Mori, ha persino invocato il ne bis in idem, visto che il suo cliente è stato già assolto in via definitiva per il mancato arresto di Provenzano nel 1995: in quel caso, però, il reato era favoreggiamento aggravato. E infatti i giudici del processo di primo grado avevano poi condannato il generale del Ros, nonostante l’avvocato si fosse già allora appellato al divieto di processare due volte una persona per lo stesso reato.

Assolti e condannati: due segmenti di Trattativa – Un’eventuale assoluzione di Mori, De Donno e Mannino, però, non avrebbe per forza effetti sul protagonista di quello che è praticamente il secondo segmendo della trattativa, cioè Marcello Dell’Utri. I giudici potrebbero decidere di assolvere i carabinieri e condannare il fondatore di Forza Italia, o viceversa. Per la pubblica accusa è l’ex senatore l’uomo che tra il 1993 e il 1994 diventa il nuovo interlocutore di Cosa nostra, veicolando la pressione dei boss nei confronti del primo governo di Silvio Berlusconi. Dell’Utri è già stato condannato in via definitiva per concorso esterno, reato commesso fino al 1992: per il periodo successivo è stato assolto. Nel 2018, però, la corte d’Assise lo ha condannato per un reato diverso e cioè la violenza o minaccia ad un Corpo politico dello Stato. In pratica, secondo i giudici del primo grado, con la nascita di Forza Italia il ruolo di intermediario tra Arcore e Cosa nostra svolto da Dell’Utri “rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″. Nelle motivazioni del primo grado si considera provato che l’ex senatore ha riferito a Vittorio Mangano, l’ex stalliere di villa San Martino, “una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione era una modifica minima e molto tecnica – inserita nel decreto Biondi, meglio noto come “salvaladri” – di cui all’epoca non si accorsero né i giornali e neanche i ministri competenti, che aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Di queste modifiche, sempre secondo la sentenza di primo grado, Dell’Utri informò in “anteprima” Mangano, che la riferì a sua volta ad altri mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per la corte d’Assise che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.

Dell’Utri “cinghia di trasmissione” e il ruolo di B. – Una ricostruzione che, ovviamente, la difesa di Dell’Utri contesta duramente. “Dell’Utri ha trasmesso la minaccia a Silvio Berlusconi, ponendosi dalla parte della mafia e tentando di estorcere qualcosa allo stesso Presidente del Consiglio?”, è la domanda retorica che si è posto l’avvocato Francesco Centonze. Rispondendosi: “Perché la percezione della minaccia deve per forza di cose essersi tradotta in una coartazione. La minaccia era stragista e come tale doveva essere trasmessa e recepita dalla controparte, ma per la difesa non ci sono prove della sua trasmissione da Dell’Utri a Berlusconi”. Proprio per sgomberare il campo da ogni equivoco, l’avvocato di Dell’Utri aveva citato come teste l’ex presidente del consiglio. Avrebbe dovuto testimoniare a favore del suo storico braccio destro, negando di aver ricevuto alcun tipo di pressione proveniente da Cosa nostra. Una testimonianza importantissima, che pure la Corte d’Assise d’Appello definì come “decisiva” per le sorti processuali di Dell’Utri. E invece Berlusconi ha preferito rendere noto di essere ancora sotto inchiesta a Firenze per le stragi del 1993 in modo da appellarsi alla facoltà di non rispondere prevista per gli indagati di reato connesso. Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri, non la prese bene: “E’ meglio che non dico quello che penso”.

ILFQ

mercoledì 22 settembre 2021

Milano, l’Anpi si appella agli elettori: “Non date il voto a liste e candidati fascisti”. Bernardo un mese fa costretto alla giravolta. - Thomas Mackinson

 

Dopo la bega dei soldi per i comizi e l'alterco con Sala sui milanesi "pistola" un'altra grana per il pediatra sostenuto dal centrodestra. Ignorati gli appelli per rimuovere i simpatizzanti di estrema destra dalle liste, l'associazione partigiani e le altre che si rifanno alla Resistenza si rivolgono direttamente ai cittadini.

Il tempo di tirare un sospiro di sollievo che Luca Bernardo, candidato sindaco di Milano per il centrodestra, si ritrova di nuovo accerchiato tra un botta-risposta con Sala e l’accusa di contiguità con l’estrema destra. Il presidente dell’Anpi di Milano anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla resistenza faranno un appello pubblico non più a liste e candidati, ma direttamente ai cittadini perché “non votino liste con candidati non dichiaratamente antifascisti”. Una posizione che, nella città medaglia d’Oro della Resistenza, può far presa nella corsa elettorale che si gioca tra il centro e la periferia. Può diventare anche un grimaldello ulteriore perché la Lega è ormai dilaniata tra la linea moderata di Giorgetti e quella di Salvini. La seconda per altro è diventata plasticamente minoritaria sulla questione green pass e no-vax , con tanto di scavalco sia dei governatori del Carroccio che degli esponenti con impegni di governo.

La polemica, va detto, in città c’è sempre stata, dai tempi della Moratti, De Corato e del centrodestra a Palazzo Marino che ha sempre strizzato l’occhio alla galassia dei movimenti della destra radicale. E’ successo anche stavolta, alla vigilia della tornata elettorale alle porte. Il 27 agosto scorso il consigliere regionale Max Bastoni, candidato con la lista di Bernardo per Palazzo Marino, aveva inaugurato il comitato elettorale in via Pareto 14, nei locali milanesi del movimento di estrema destra Lealtà Azione. Allora fu la segreteria metropolitana del Pd a sollevare la questione della scelta di condividere gli spazi con “un movimento che ogni anno organizza le celebrazioni al Campo X del Cimitero Maggiore, tra saluti romani e inni ai caduti di Salò”. Bernardo all’epoca dichiarò che “non c’è differenza tra fascisti e antifascisti”, scatenando polemiche che lo costrinsero poi alla giravolta repentina: “Sono antifascista come tutti gli italiani, si condannino tutte le ideologie folli”.

Stavolta però l’Anpi si rivolge direttamente agli elettori. Il presidente della sede provinciale di Milano Roberto Cenati anticipa al fattoquotidiano.it che a breve tutte le associazioni che si rifanno alla Resistenza (Anpi ma anche Aned, Fiap e Partigiani Cristiani) faranno ai cittadini un appello perché non diano il voto alle liste e ai candidati che non si dissociano dal fascismo. “A 76 anni dalla liberazione di Milano lo avrei considerato scontato”, dice Cenati. “In questi mesi però il nostro accorato appello ai candidati e ai partiti non ha sortito, evidentemente, gli effetti sperati”. Nel frattempo infatti il quartier generale del consigliere regionale Bastoni è rimasto negli stessi locali. Ha anche ribadito di “impegnarsi per far confluire i voti dell’estrema destra su Luca Bernardo”. Ma l’Anpi alza il livello della richiesta spostando la responsabilità della scelta sugli elettori: “A questo punto confidiamo siano loro a dare un segnale, noi non arretriamo sul fatto che chi si candida a governare Milano debba necessariamente ispirarsi ai valori della Costituzione e della Resistenza”.

ILFQ

martedì 21 settembre 2021

Le bombe, i ricatti e le leggi a favore di Cosa nostra: storia e segreti della Trattativa Stato-mafia. Dopo le condanne, è attesa per l’Appello. - Giuseppe Pipitone

 

In attesa della sentenza del processo di secondo grado ecco tutto quello che c'è da sapere sul processo di Palermo: dalle condanne di primo grado e la ricostruzione dell'accusa alle richieste delle difese, passando per quelli che possono essere i punti deboli del procedimento, come l'assoluzione in via definitiva di Mannino. E poi il silenzio di Berlusconi, citato come teste da Dell'Utri, il ruolo degli altri ufficiali dei carabinieri e le parole di Riina sussurrate a un agente di Polizia penitenziaria durante una pausa del procedimento di primo grado: "Erano loro che cercavano me”.

Lo Stato può processare se stesso? È la domanda che da oltre un decennio accompagna le indagini sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Dopo tre anni di indagini e cinque di processo, i giudici di primo grado avevano risposto affermativamente: non solo lo Stato può processare se stesso, o meglio alcuni suoi esponenti, ma li può pure condannare. E infatti il 20 aprile del 2018 la corte d’Assise presieduta da Alfredo Montalto aveva considerato colpevoli quasi tutti gli imputati del processo sul Patto segreto che durante la stagione delle bombe aveva portato lo Stato a cedere alla minaccia dei boss. Ora, però, tocca ai giudici del processo di secondo grado esprimersi. Nella tarda mattinata del 20 settembre la corte d’Assise d’Appello, presieduta da Angelo Pellino e con a latere Vittorio Anania, si è ritirata in camera di consiglio all’interno dell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Dovrà decidere se dare ragione alla pubblica accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che ha chiesto di confermare tutte le condanne del primo grado. Oppure se ascoltare i difensori degli imputati, sconfessando dunque le oltre cinquemila pagine con le quali la corte d’Assise aveva motivato la sentenza del 2018.

Le condanne di primo grado – Quel giorno i giudici avevano condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri e per Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione erano stati inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Erano state prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci, mentre era stato assolto Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza: per l’ex ministro della Dc la procura non aveva fatto ricorso, quindi la sentenza è poi diventata definitiva. Sono state invece dichiarate prescritte nel luglio del 2020, dunque durante il processo d’Appello, le accuse a Massimo Ciancimino, uno dei testimoni fondamentali del processo, che in primo grado era stato condannato a 8 anni per calunnia a Gianni De Gennaro. Non sono arrivati alla sentenza di primo grado, invece, i due imputati principali: Totò Riina e Bernardo Provenzano, i vertici di Cosa nostra deceduti in carcere tra il 2016 e il 2017.

Il reato contestato – Gli imputati condannati in primo grado sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. In pratica sono stati condannati per aver veicolato al governo l’intimidazione della mafia: altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. La minaccia dei boss, secondo la sentenza di primo grado, è stata “trasmessa” in un primo momento dagli alti ufficiali dei carabinieri che presero contatti con Vito Ciancimino, e in un secondo momento da Dell’Utri, fondatore di Forza Italia e storico braccio destro di Berlusconi. E dunque mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi.

Il Maxi Processo e l’inizio della stagione delle bombe – È Riina l’uomo che decide di dichiarare guerra allo Stato quando diventano definitivi gli ergastoli del Maxi Processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia del capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca capace di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare nelle campagne di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero uno della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto a Giulio Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scriveva Falcone su La Stampa, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. “Fare la guerra per fare la pace“, è quello che andava dicendo in quel periodo Riina ai suoi soldati più fidati. Come Brusca, che in aula ha ricordato: “A fine giugno Riina disse: si sono fatti sotto, ci vuole un altro colpetto”. Era il 2013, invece, quando, durante una pausa del processo di primo grado, lo stesso Riina si era rivolto con queste parole a un agente di Polizia penitenziaria: “Ma io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”.

I punti deboli: l’assoluzione definitiva di Mannino – Chi è che si era fatto sotto con Riina? Chi erano quelli che cercavano il capo dei capi? Secondo l’accusa i carabinieri di Subranni e Mori, attivati da Calogero Mannino, intimorito dalle minacce ricevute proprio da Cosa nostra. Questo passaggio, che è poi il prequel della Trattativaè il principale punto debole della ricostruzione operata a suo tempo dalla procura di Palermo e confermata dalla procura generale – fino a poco tempo fa guidata da Roberto Scarpinato – nel processo d’Appello. Mannino, infatti, ha scelto di farsi processare con l’abbreviato ed è stato assolto in via definitiva. Nell’aprile del 2018, quando il giudice Montalto ha condannato gli imputati del procedimento principale, l’ex ministro della Dc era stato assolto solo in primo grado. La corte d’Assise dribblò quella sentenza così: “Subranni ha recepito (anche) le preoccupazioni esternategli in modo sempre più pressante, già all’indomani dell’uccisione di Salvo Lima, da Calogero Mannino, il quale temeva – deve dirsi, peraltro, fondatamente – di poter essere una delle possibili successive vittime della vendetta in tale contesto, nasce l’iniziativa del Ros comandato da Subranni diretta a intraprendere i contatti con Vito Ciancimino col fine precipuo di raggiungere, attraverso l’intermediazione del predetto che si sapeva essere particolarmente vicino ai corleonesi di Cosa nostra, direttamente i vertici dell’associazione mafiosa”. Ora però la sentenza di assoluzione di Mannino è stata confermata in via definitiva: non chiese di trattare con Cosa nostra ma continuò a combatterla. Seguendo questa ricostruzione i giudici definiscono la tesi dell’accusa “non solo infondata, ma anche totalmente illogica ed incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti”. Per cercare di confutare queste critiche, i sostituti pg Fici e Barbera hanno depositato agli atti del processo d’Appello una complessa e dettagliata memoria.

I dubbi sul reato e l’accelerazione dell’uccisione di Borsellino – L’altro punto che può rappresentare una crepa nella tesi della pubblica accusa è rappresentato dal reato contestato agli imputati. Non esiste infatti il reato di Trattativa, neanche quando si tratta d’interloquire con la mafia. E infatti ai mafiosi, ai carabinieri e a Dell’Utri viene contestata la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato: il reato che hanno compiuto è quello di aver veicolato la minaccia stragista di Cosa nostra fino al governo in carica in quel momento. E in questo modo hanno incoraggiato la convinzione di Riina: piazzare bombe era una buona strategia. “Al governo gli devo vendere morti, al governo morti gli devono dare”, diceva il capo dei corleonesi in una delle tante intercettazioni in carcere dell’inverno 2013. E’ per questo motivo, sempre secondo la corte d’Assise, che meno due mesi dopo Falcone salta in aria pure Borsellino. Per quale motivo, visto che dopo pochi giorni il Parlamento avrebbe dovuto votare il decreto sul 41-bis – il cosiddetto carcere duro per i mafiosi – e in quel momento una maggioranza in grado di approvarlo non c’era? Quel decreto sarà votato subito dopo la strage di via d’Amelio: a che pro dunque alzare il tiro, provocando la reazione dello Stato? Semplice: dopo la strage di Capaci a Cosa nostra era arrivato un segnale. “Non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo”, è uno dei passaggi fondamentali delle motivazioni delle condanne di primo grado. “Le stesse menti raffinatissime che avevano sostenuto la coabitazione tra il potere criminale e le istituzioni, avviando la trattativa, consentono a Riina di dire che lo Stato si è fatto sotto e ciò induce ulteriore violenza“, ha detto il pg Fici durante la requisitoria.

Il ruolo di Dell’Utri, l’uomo cerniera – Comincia la Trattativa e tra gli oggetti dello scambio c’è pure la stessa libertà di Riina: che infatti viene arrestato nel gennaio del 1993 proprio dagli uomini di Mori. Sarà un caso, ma tra le frasi che il capo dei capi decide di farsi sfuggire chiacchierando con l’agente penitenziario, ci sono anche queste parole: “Io sono responsabile di tutte queste cose? A me mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono i carabinieri”. Di sicuro c’è solo che subito dopo l’arresto il covo di Riina a Palermo non viene perquisito proprio per decisione dei militari: due settimane dopo, quando finalmente gli investigatori entrano nella villa che aveva ospitato la latitanza del capo dei capi, non trovano nulla. Mani ignote hanno ripulito ogni stanza, svuotato la cassaforte e ritinteggiato persino le pareti. Il bastone del comando di Cosa nostra, con annessi documenti top segret e segreti inconfessabili, finisce nelle mani di Provenzano. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dopo l’arresto di Riina e dei fratelli Graviano “i pezzi deviati dello Stato che avevano sostenuto la trattativa hanno garantito una latitanza protetta per Bernardo Provenzano“.

L’assoluzione post 1992 e i soldi a Cosa nostra – E’ in quel momento, mentre il sistema politico italiano veniva travolto da Tangentopoli e le bombe mafiose insanguinavano il Paese, che succede qualcosa di nuovo. “Nasce Forza Italia“, ha fatto notare la procura generale nella requisitoria, definendo Dell’Utri come l’uomo che in quel momento ha “curato la tessitura dei rapporti tra Cosa nostra e ‘ndrangheta e il potere politico“. Problema: per i contatti con Cosa nostra successivi al 1992 Dell’Utri è stato già assolto in via definitiva, nella stessa sentenza che invece lo ha condannato per concorso esterno relativamente al periodo precedente. “I giudici mi fanno passare per mafioso fino al ’92, ma cadono in contraddizione: se fosse vero, la mafia non mi avrebbe mollato proprio nel ’92, quando poteva sperare nei veri vantaggi del potere, della politica”, aveva commentato all’epoca l’ex senatore. Analisi assolutamente condivisibile e che infatti i giudici del processo di primo grado hanno condiviso. “Con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa Cosa nostra, manifestata da Dell’Utri nella sua funziona di intermediario dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo sceso in campo in vista delle politiche del 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992″, si legge nelle 5252 pagine delle motivazioni redatte dalla corte d’Assise. Che considera provato un fatto decisivo: i pagamenti da Berlusconi a Cosa nostra non si sono interrotti nel 1992 ma sono proseguiti “almeno fino al dicembre 1994″, quando cioè Berlusconi era entrato già a Palazzo Chigi. Il tramite di questo legame è sempre Dell’Utri, che “interloquiva con Berlusconi anche riguardo al denaro da versare ai mafiosi ancora nello stesso periodo temporale (1994) nel quale incontrava Vittorio Mangano per le problematiche relative alle iniziative legislative oggetto dei suoi colloqui con il medesimo Mangano, così che non sembra possibile dubitare che Dell’Utri abbia informato Berlusconi anche di tali colloqui e, in conseguenza, della pressione o dei tentativi di pressione”.

Le leggi a favore dei boss raccontate ai boss – A leggere la sentenza di primo grado, in pratica, non solo il primo esecutivo guidato da Forza Italia portò avanti progetti di legge favorevoli a Cosa nostra, ma gli stessi mafiosi vennero a sapere di quelle norme molto prima dei ministri competenti. “Ci si intende riferire al fatto che in quella occasione del giugno – luglio 1994 Dell’Utri ebbe a riferire a Mangano ‘in anteprima’ di una imminente modifica legislativa in materia di arresti per gli indagati di mafia senza clamore, o per meglio dire nascostamente tanto che neppure successivamente fu rilevata, inserita nelle pieghe del testo di un decreto legge che rimase pressoché ignoto, nel suo testo definitivo, persino ai Ministri sino alla vigilia, se non in qualche caso allo stesso giorno, della sua approvazine da parte del Consiglio dei Ministri del Governo presieduto da Berlusconi”. La norma in questione, in pratica, aveva come obiettivo quello di modificare la custodia cautelare per i mafiosi. Che cosa voleva dire tutto ciò? Per i giudici del primo grado che le richieste di Cosa nostra arrivarono a Palazzo Chigi: “Anche il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione – scrivono – e cioè Berlusconi, nel momento in cui ricopriva la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, venne a conoscenza della minaccia in essi insita e del conseguente pericolo di reazioni stragiste che un’inattività nel senso delle richieste dei mafiosi avrebbe potuto fare insorgere”.

Il testimone B. non risponde – Una ricostruzione che naturalmente i legali di Dell’Utri contestano completamente. Per dimostrare che l’ex senatore non è un mafioso ma un manager appassionato di libri antichi – nonostante la condanna definitiva per concorso esterno – l’avvocato Francesco Centonze ha chiamato come teste proprio Berlusconi. L’ex cavaliere avrebbe dovuto difendere quello che è uno dei suoi amici più antichi. E invece ha preferito produrre una documentazione che attesta il suo status d’indagato da parte della procura di Firenze per le stragi del 1993 e avvalersi della facoltà di non rispondere. “E’ meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”, disse in quei giorni Miranda Ratti, consorte di Dell’Utri. Non sono imputati in questo procedimento ma giocano un ruolo nella ricostruzione dell’accusa anche i fratelli Graviano. Mentre a Palermo si celebrava l’appello della Trattativa, Giuseppe Graviano ha tenuto il suo show davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria: ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Berlusconi “almeno tre volte” a Milano mentre era latitante, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni ’70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con venti miliardi di lire. Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato Niccolò Ghedini erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. Anche i sostituti pg di Palermo le hanno valutate come scarsamente credibili e non le hanno prodotte agli atti del processo. Nel frattempo la tranche dell’inchiesta sulla Trattativa in cui era ancora indagato lo stesso Graviano è stata archiviata perché è scattata la prescrizione.

Chi è il presidente della Corte d’Assise – È su questo che si basa il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Un procedimento complesso, che dieci anni fa portò a uno scontro frontale tra la procura di Palermo e il Quirinale per il caso delle intercettazioni tra Mancino e Giorgio Napolitano. E che ha incrociato negli anni decine di indagini e processi celebrati da altre procure: l’ultimo è quello sulla cosiddetta ‘Ndrangheta stragista. Prima c’era stato il cosiddetto Borsellino quater, sulla strage di via d’Amelio, celebrato a Caltanissetta. Ma ci sono anche le indagini fiorentine sulle bombe del 1993 e il fallito attentato allo stadio Olimpico del 1994, che vedono indagati Berlusconi e lo stesso Dell’Utri. Senza considerare quello per il mancato arresto di Bernardo Provenzano nel 1995, dal quale il generale Mori è stato assolto in via definitiva. E’ su questo che la corte d’Assise Appello presieduta da Pellino è chiamata ad esprimersi. Il giudice è noto perché da presidente della corte d’Assise di Trapani ha celebrato il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, condannando all’ergastolo il boss Vincenzo Virga. In precedenza è stato il giudice a latere che ha redatto le motivazioni della sentenza sull’omicidio di Mauro De Mauro: nonostante l’assoluzione di Riina quelle pagine legano la scomparsa del giornalista de L’Ora all’assassinio di Enrico Mattei. Insomma, a decidere su un processo che fa luce su uno dei periodi più misteriosi della storia di questo Paese è un giudice che ha una lunga esperienza sui misteri italiani.

ILFQ