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giovedì 3 settembre 2020

Battete un colpo. - Marco Travaglio

Civico20News - «La Giostra dei Buffoni»
Preso con le solite pinze, l’ultimo sondaggio di Demoskopea dà la maggioranza giallorosa che sostiene il governo Conte al 46,9% (Pd 20,5, M5S 19,9, Iv 3,3, Sinistra italiana 3,2): cioè per la prima volta davanti al centrodestra, che la insegue al 45,3% (Lega 23,5, FdI 15,5, FI 6,3), al netto dei partitini di centrosinistra non rappresentati in Parlamento (Azione 3,3, +Europa 2,3, Verdi 2,1). Numeri ragionevoli, viste la buona prova offerta dal governo nell’incubo del Covid e la parallela cialtroneria delle opposizioni. Ma numeri da fantascienza se si guardano i talk e i giornali con i loro quotidiani De Profundis per il governo che, a loro dire, sta in piedi solo per evitare la sicura vittoria delle destre e comunque cadrà certamente domani, anzi la sera del 21 settembre, anzi oggi pomeriggio. Ma anche se si assiste allo spettacolo dei partiti della maggioranza, impegnatissimi h 24 a segare il fragile ramo su cui siedono. Ora la demenziale rivolta nei 5Stelle contro il premier che osa decidere sui servizi segreti, cioè fa il premier. Ora le cacofonie nel Pd sul taglio dei parlamentari, invocato e promesso per 40 anni, votato ancora l’anno scorso e oggi ripudiato con tanti No, Ni e distinguo su pressione di chi vuole abbattere il governo e la segreteria Zingaretti (i giornaloni e i loro mandanti), ma anche di chi li sostiene come la corda regge l’impiccato (i puristi da sesso degli angeli della vecchia sinistra e le povere Sardine, che dopo la visita chez Benetton non ne azzeccano più una, ridotte a una pattuglia di Tafazzi). E poi i soliti italomorenti dell’Innominabile che, non contenti dei propri fiaschi, vorrebbero esportarli in casa altrui.
Come se tutto ciò non bastasse, incombono le elezioni regionali in Veneto, Liguria, Toscana, Marche, Campania e Puglia. E anche lì, mentre le destre marciano compatte come falange macedone anche se non vanno d’accordo su nulla, i giallorosa procedono in ordine sparso come l’Armata Brancaleone. Salvo in Liguria, dove però si guardano bene dal fare campagna per il candidato unitario Sansa. Siccome poi in Veneto e in Campania hanno già vinto Zaia e De Luca, tutto si gioca nelle altre tre regioni “contendibili” che vedono M5S, Pd e Iv l’un contro l’altro armati. Anziché piagnucolare sul latte versato degli accordi mancati, o chiedere patti di desistenza e voti disgiunti, i candidati-presidenti Pd dovrebbero avere rispetto per gli elettori e rivolgersi soltanto a loro. I numeri parlano chiaro: gli unici in grado di strappare Toscana, Marche e Puglia alle destre sono Giani, Mangialardi ed Emiliano. I 5Stelle non andranno malissimo: la debolezza degli altri candidati esalta chi cerca vie di fuga “terzaforziste”.
In Puglia la Laricchia è data addirittura al 15% (mentre il prode Scalfarotto veleggia verso un sontuoso 1,6). Ma di quei voti il M5S non se ne farà nulla, se non per strillare altri cinque anni dai banchi dell’opposizione, senz’alcuna speranza che i nuovi “governatori” salvinian-meloniani gli diano retta. Infatti Conte e Di Maio han tentato fino all’ultimo di convincere i grillini di Marche e Puglia a far pesare i loro voti appoggiando i candidati Pd in cambio di cambiamenti su liste e programmi: invano. Ora, visto che nelle due Regioni e in Toscana tutto si gioca sul filo di un paio di punti, sta all’eventuale bravura di Mangialardi, Emiliano e Giani convincere almeno una parte degli elettori 5Stelle a disgiungere il voto: lista M5S e presidente Pd. Come? Non certo lanciando appelli a Crimi o Di Maio perché diano un’indicazione di voto che mai potrebbero dare, e comunque non verrebbe ascoltata; né tentando patti sotterranei per fare di nascosto ciò che non si può fare alla luce del sole; né comprando grillini sfusi in cambio di assessorati. Ma parlando direttamente agli elettori 5Stelle che, se insistono malgrado il rischio di mettere in pericolo il governo, è perché non sono soddisfatti da Mangialardi, Emiliano e Giani.
Cosa potrebbe convincerli o almeno allettarli? Qualcosa di radicalmente nuovo, netto e discontinuo. Basta fare l’opposto del nostro amico Sansa, che ieri s’è giocato qualche altro voto pentastellato schierandosi per il No. I tre aspiranti presidenti facciano campagna per il Sì con esponenti del M5S, del Pd e della Sinistra. Si impegnino a proseguire la battaglia anti-casta in casa propria, tagliando enti inutili, gettoni delle partecipate, emolumenti e vitalizi dei consiglieri regionali. E poi a bloccare i nuovi inceneritori, a fermare il consumo del suolo, a invertire la rotta dei finanziamenti alla sanità privata, a potenziare le misure sociali e le politiche ambientali. E infine annunciando nomi nuovi, prestigiosi, competenti, presi dalla società civile per i futuri assessorati. Solo così, convincendo gli elettori sui territori e non le segreterie a Roma, possono sperare nel voto disgiunto. Perché gli unici padroni dei voti sono gli elettori e non sarà certo un appello di Crimi o Di Maio a spostarli. Anzi, tentare di scavalcarli con accordi nazionali e appelli dall’alto è anche peggio dell’inerzia, perché li farebbe incazzare vieppiù. E l’unica “disgiunzione” che si otterrebbe è quella fra politici e cittadini. Che si chiama astensionismo. E non è un virus simmetrico: colpisce soprattutto chi già governa. Giani, Mangialardi ed Emiliano hanno 18 giorni per battere un colpo. In caso contrario perderanno e, anziché incolpare gli altri, dovranno prendersela solo con se stessi.

giovedì 10 ottobre 2019

La verdinità perduta - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 10 Ottobre.

L'immagine può contenere: 2 persone, persone che sorridono

Siccome sono masochista, mi leggo avidamente tutti i commenti sul taglio dei parlamentari da 945 a 600 (400 deputati e 200 senatori). E ne ricavo un’impressione: ammazza quanto rosicano i giornaloni! Ma anche tre domande. 
1) Perché mai il taglio sarebbe una brutta notizia? 
2) Perché mai lo sarebbe solo oggi, mentre era sempre stato cosa buona e giusta quando ci provavano – senza riuscirci – la Bicamerale Bozzi del 1983 (514 deputati e 282 senatori), la Bicamerale De Mita-Iotti del 1994 (400 e 200), la Bicamerale D’Alema (500 e 200), la schiforma di centrodestra nel 2006 (518 e 252), la bozza Violante del 2007 (512 e 186), la schiforma Boschi-Verdini del 2016 (630 deputati e 100 senatori non più eletti)? 
3) Perché mai 945 parlamentari, non uno di meno né di più, garantirebbero i sacri valori della democrazia, della rappresentanza, della Costituzione e della Resistenza, mentre 600 sarebbero uno stupro antiparlamentarista, qualunquista e populista? Bisognerebbe spiegarlo alla Germania (709 deputati e 69 senatori), alla Spagna (350 e 265), agli Usa (435 e 100): tutti stuprati a loro insaputa. Se tutti ci provavano invano dal 1983 -prima che si chiamasse “populismo” tutto ciò che vuole la gente- forse è perchè lo sapevano tutti che il nostro Parlamento è sovradimensionato: abbiamo 96 mila abitanti per deputato, contro i 133 mila della Spagna, i 116 mila di Francia e Germania, i 114 dell’Olanda. Ora avremo un deputato ogni 151mila e risparmieremo pure: un bel sacrificio da una classe politica che tanti ne chiede ai cittadini e così riabilita parzialmente le istituzioni dal discredito in cui le ha cacciate.

Poi, certo, ci vorrà una legge elettorale conseguente: la crisi di rappresentanza viene di lì, dai parlamentari nominati anziché eletti e dunque tendenti al trasformismo perché svincolati da ogni impegno con gli elettori (la Boschi paracadutata da Arezzo a Bolzano, Fassino da Torino a Ferrara e a suo tempo Mattarella da Palermo a Trento: do you remember?). Gira e rigira, il problema di lorsignori è soltanto uno: la riforma è popolarissima e, quel che è peggio, è dei 5Stelle. I quali, ora che son riusciti dove quelli bravi e competenti avevano fallito, rischiano di guadagnare consensi. Di dimostrare che riescono a migliorare persino i vecchi partiti. E di smentire chi li dipinge come degli incoerenti che rinfonderano le proprie bandiere per le poltrone (invece ne tagliano un terzo, anzitutto a se stessi). Infatti i giornaloni hanno scatenato contro il taglio dei parlamentari un fuoco di sbarramento che difficilmente avremmo visto se si fossero ripristinate la garrota, la pena di morte e le leggi razziali.


E mai avevamo visto per le 60 leggi vergogna di B.. La Stampa, in overdose da rosicamento, per non dare la notizia s’è inventata il consueto scisma quotidiano: “Taglio dei parlamentari, fronda nel M5S: prende forma la scissione. Oggi il voto decisivo: 30 grillini si sfilano, riforma a rischio” (risultato: 553 Sì, 14 No, 2 astenuti; chissà dove s’erano nascosti i 30 volponi). Carlo Nordio, sul Messaggero, ha spiegato affranto che l’“umiliante pedaggio ridurrà la rappresentatività e persino le entrate (è noto che i parlamentari contribuiscono al finanziamento del loro partito)”. Testuale. Ma niente, non se l’è filato nessuno. Ezio Mauro, su Repubblica, è riuscito a scrivere che la sforbiciata è “un rito pagano” (tre pateravegloria) che “altera il sistema senza preoccuparsi di ricomporlo”, “produce un disequilibrio al di là delle cifre”, roba tipica del “perno qualunquista e anti-istituzionale dei 5Stelle, che continuano a produrre antipolitica anche dalle stanze del governo, non essendo in grado di pensare altrimenti”, poveri baluba. E poi: “definitiva semplificazione del concetto di rappresentanza, appiattimento del parlamento su una formula demagogica da gettare in pasto agli istinti dell’elettorato”, il famoso popolo bue, “come già con la ‘rottamazione’ proclamata (non si precisa da chi, ndr)”, “tentativo di introdurre il vincolo di mandato, manomettendo la libertà costituzionale dei parlamentari” (di vendersi un tanto al chilo al miglior offerente, come han fatto in 950 negli ultimi 11 anni), “adulazione del popolo mentre lo si inganna”. Perbacco.


Mauro ha pure scoperto che Di Maio era “in evidente difficoltà dopo lo scontro con Salvini e un’alleanza col Pd che non è stato capace di motivare” e “aveva bisogno di uno scalpo da gettare nell’arena”. Tipo previdente, questo Di Maio: il primo dei quattro voti sulla riforma è del 7 febbraio e lui già sapeva delle rottura con Salvini e dell’alleanza col Pd in agosto, ergo già preparava lo scalpo per l’arena. Mauro non dorme la notte perché il contagio grillino ha infettato “Pd e renzisti, sempre contrari a questa riforma mutilata e mutilante”: strano, noi li ricordavamo nel 2016 sulle barricate del referendum a spacciare il taglio dei parlamentari per nascondere lo scempio di un terzo della Costituzione; e, quel che è più comico, su quelle barricate c’era pure Repubblica al gran completo. Anche Massimo Giannini è in ambasce perchè il Pd, contaminato dal M5S, perde la verginità, anzi la verdinità (le ultime volte governava con B., Verdini e Alfano). E, quel che è peggio, fa qualcosa di buono e popolare insieme: non sia mai. Dunque giù botte contro il “grottesco Truman Show in piazza”,“la scenetta da b-movie”, “lo spot circense”, ma soprattuto contro i pidini grillizzati che “si calano le braghe” (parola del “vecchio saggio Macaluso”, e ho detto tutto), “la televendita populista”, “la purga contro la Casta” in vista del “mitico regno di Gaia” casaleggiano, “finalmente dominato dalla dittatura della Rete e liberato dai vecchi legacci del parlamentarismo”. Pare infatti che i 600 parlamentari superstiti non saranno più eletti: li sceglierà direttamente Casaleggio su Rousseau.


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sabato 7 settembre 2019

Ministra con Trasporto. - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 7 Settembre.



Uno non fa in tempo a rallegrarsi perché la neoministra dell’Interno Luciana Lamorgese non sta su Facebook, Twitter e Instagram, e già gli tocca leggere le prime sparate di alcuni suoi colleghi. Ancora non sanno dov’è il loro ufficio, ma già annunciano o minacciano leggi, decreti, grandi opere e financo dimissioni. Nel primo Consiglio dei ministri, il premier Giuseppe li aveva pregati di “evitare sgrammaticature istituzionali”, che è il suo modo per dire “niente cazzate”. Poi quelli, appena usciti, han subito dato aria alla bocca. Si temeva che l’incontinenza verbale giocasse brutti scherzi a Di Maio&C., quelli della ola sul balcone e dell’abolizione della povertà. Invece la prima a sbracare è stata Paola De Micheli, reduce da un’imbarazzante esperienza di commissario alla ricostruzione del Centro-Italia, come se a quella povera gente non fosse bastato il terremoto. La neoministra dei Trasporti, che pare sempre in procinto di impugnare il mattarello e tirare la pasta dei tortellini, appena assisa sulla poltrona di Toninelli ne è stata subito contagiata e ha espettorato un’intervista a La Stampa tutta asfalto e cemento. Al confronto Lunardi, “ministro con Trasporto”, era un dilettante. In barba al programma appena sottoscritto, che subordina ogni opera a una seria analisi degli “impatti sociali e ambientali”, Lady Turtlèn ha annunciato che “ostacoli politici ai cantieri non ce ne saranno più” (come se prima ce ne fossero: Toninelli non ha bloccato nulla, purtroppo). Tav di qua, maxi-Gronda di là, forza Atlantia e, già che c’era, pure una parolina inutile su Alitalia (che tocca al Mise), Libia (affari Esteri), migranti e dl Sicurezza (roba del Viminale). Quanto alle analisi costi-benefici, fa trapelare la Paola sul Messaggero di Caltagirone, “verranno aggiornate e lette non in chiave ideologica, ma di sistema ”: vedi mai che 2 più 2 faccia 3. Il risultato, ovviamente, è un ribollio di rabbia tra i 5Stelle, costretti a mordersi la lingua per non mandarla al solito posto. E una garbata irritazione – per usare un contismo – di Conte, che s’era appena liberato dell’onniministro Cazzaro e se ne ritrova un altro in gonnella. Anzi due, perché pure Lorenzo Fioramonti è debole di prostata: mentre si recava nel nuovo ufficio, Mister Istruzione già minacciava di dimettersi se non avrà subito 3 miliardi sul suo tavolo (ancora mai visto). Per carità: come dice Vittorio Feltri su Salvini, “l’ora del coglione arriva per tutti”. Ma di questo passo saremmo meno ottimisti della De Micheli: “Se andiamo avanti così, faremo assieme molte cose buone per il Paese”. No, cara: se vai avanti così, non arrivate a fine mese.