Morire di quarantena: 87 anni, negativo, se ne va senza la moglie
Cara Selvaggia, sono assistente sociale in un piccolo comune, vicino Verona. Seguo gli anziani e vorrei mostrarle un’altra faccia dell’emergenza Covid, raccontando una vicenda davvero triste, che mi ha toccato molto dal punto di vista professionale e soprattutto umano. Una coppia di anziani, lui 80 anni, lei 87. Insieme da una vita, niente figli, niente nipoti, niente parenti prossimi. Si sono arrangiati finché hanno potuto, poi li ho affiancati per consentire loro una vita dignitosa nella propria casa. Fino a quando bussa la bestia nera, il Covid. Loro due terrorizzati, barricati in casa. Certo non lasciati soli, ma comunque soli. Con l’isolamento arriva anche la demenza senile di lui, prepotente, velocissima. Spaventosa per lei, che non sa più a un certo punto come gestire il marito, che ogni tre per due si mette in testa di fare cose assurde e lei non riesce a dissuaderlo; lui si mette in pericolo e cade spesso. Di notte non si dorme. Arriva settembre e lei è esausta, nonostante gli aiuti domiciliari. Serve un periodo di sollievo in una struttura protetta (in questo caso è una casa di riposo), per consentire a lei di recuperare le forze e a lui di essere curato. Arriva il giorno del ricovero (dopo il tampone negativo): li accompagna la nostra ragazza di Servizio civile. L’accoglienza è traumatica, prendono lui e lo portano subito nella sua stanza. Non li fanno nemmeno salutare. Lei torna a casa, spaesata, inizia subito a telefonare in struttura per sapere come sta il marito, se ha mangiato, se ha dormito. Non hanno cellulari e gli operatori non glielo passano al telefono. A lui fanno un altro tampone appena arrivato, anche questo negativo: ma deve stare in isolamento, ancora, per 15 giorni. A tratti è lucido, ma in generale non sa bene dove si trova. Non può vedere nessuno. Lei insiste (e anche io) perché glielo facciano vedere anche per 5 minuti, da dietro un vetro, per mostrargli che sua moglie c’è ancora, non l’ha abbandonato. Impossibile, prima visita consentita dopo 3 settimane (15 giorni più il tempo dell’esito del 3º tampone). Ecco, lui non ci è mai arrivato a rivederla: dopo 13 giorni di “prigionia” si è semplicemente lasciato andare. Senza avere nessuna patologia tale da causare un decesso. Lo comunicano a lei quella notte alle 2, era sola. E disperata. È stato protetto eccellentemente dal Covid, ma è stato ucciso dalla mancanza di umanità. Forse stiamo perdendo di vista qualcosa. Grazie per l’attenzione.
Silvia
“No-mask irresponsabili, e io che speravo dopo il lockdown…”
Ciao Selvaggia, sono un’infermiera e durante la prima ondata di pandemia ho lavorato nel reparto Covid della mia clinica (un istituto del gruppo ospedaliero San Donato). Io, infermiera di cardiochirurgia da anni, di colpo sono stata catapultata in una realtà nuova! Ho pianto tanto: vedevo ammalarsi colleghi medici, infermieri e operatori socio sanitari, senza sapere se ce l’avrebbero fatta. Ho pianto con gli anestesisti quando abbiamo dovuto scegliere chi attaccare al respiratore (che erano sempre molto pochi) e chi accompagnare verso la fine. Ho pianto con i pazienti, che mi guardavano negli occhi chiedendomi se ce l’avrebbero fatta! Ho pianto da sola perché avevo sempre paura di infettare mio marito, ho pianto per i mesi trascorsi lontana da genitori e affetti. Quando la situazione è migliorata ho davvero sperato che fossimo tutti consapevoli della gravità della pandemia, e che si riuscisse (per una volta) a seguire le regole! Ma ora per colpa dei negazionisti, dei “no mask” e di tutti quelli che se ne fregano, non posso più fare il mio lavoro, il lavoro che amo. Nella mia clinica (100 posti letto circa) ci sono 6 pazienti positivi, ed io sono obbligata in casa per via di un branco di irresponsabili! E per fortuna sono una di quelle che non ha mai pensato che “andrà tutto bene”. Almeno, sono rimasta sorpresa a metà.
L.
“Io, malato di cancro, un numero nella fredda macchina sanitaria”
Cara Selvaggia, col Covid l’Italia si è dimenticata di chi i problemi di salute li affronta ogni giorno. Io, tumore a 22 anni, infarto e problemi cardiorespiratori (provocati dalle radioterapie), ora ho 35 anni. Mi sono costruito una famiglia, un lavoro impegnativo, affetti, desideri, gioie, dolori, piccoli successi e molti insuccessi. Nonostante tutto. Ho vissuto. In questo periodo, accedere in ospedale per le mie piccole emergenze o per i controlli di routine è divenuto un’impresa. La macchina sanitaria avanza in modo sbrigativo perché c’è il Covid: da paziente cronico mi sento sempre più un numero, un codice di un esame, un “ci rivediamo al prossimo controllo” e via. Non va. Persone senza mascherina ti tossiscono accanto, ti arrivano addosso; ragazzini ti guardano con atteggiamento di sfida senza indossare la mascherina. Questo, è tanto altro. Ho sempre desiderato vivere, oltre i miei problemi. Oggi voglio solo sopravvivere per i miei figli.
M.
Queste tre lettere indicano con chiarezza che al di là dei numeri, delle statistiche, della situazione ad oggi (poco) più rassicurante che in altri Paesi europei, nulla è finito. E che forse non si può parlare di seconda ondata. La verità è che sia da un punto di vista psicologico che sanitario, non siamo mai usciti dalla prima.
Selvaggia Lucarelli