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martedì 6 agosto 2024

Erosioni Sfinge, cause possibii. - Massimo Mastrorosa

 

Come vengono interpretati dall'archeologia i segni di erosione dovuti all'acqua della Sfinge?
La grande sfinge ha vistosi segni di erosione e la discussione tra archeologi è se essi siano dovuti alla sabbia oppure all'acqua, alla pioggia.
Se si tratta di tempeste di sabbia, comunissime nel deserto caldo, questo è normale e non cambia la datazione attuale della sfinge. Infatti se non fossero fatti i lavori di rimozione della sabbia in eccesso, normale manutenzione del sito archeologico più importante del mondo, la Grande Sfinge si ricoprirebbe di sabbia completamente in alcuni anni. E succedeva centinaia d'anni fa quando Giza non era esposta al pubblico nè spalata la sabbia. Questa è la versione ufficiale.
Ma l'andamento strano dei segni farebbe pensare all'erosione da acqua piovana. Ma siccome lì piove veramente poco e solo in certe stagioni significherebbe retrocedere l'esitenza della sfinge a un periodo pluviale interglaciale molto precedente all'attuale datazione della sfinx che corrisponde a una data scritta sulla stele davanti ad essa. In questo caso la targa testimonierebbe solo la data di avvenuti lavori di restauro ordinati dal faraone. Prestando fede a quest'ipotesi si parlerebbe addirittura di 8000 anni fa. Una data impressionante e misteriosa. La notte dei tempi. Ma che popolo avrebbe potuto costruirla allora? E possedere già le migliori tecniche degli Egizi oltre che avere accesso a una cava importante? Resta il fatto che buona parte del volto felino manca ed è stato distrutto quando ancora non esistevano fotografie. La Sfinge ha corpo leonino e faccia di faraone ma mancando parte dal viso. Forse rappresenta il muso felino della divinità di una religione animista precedente agli Egizi. Ma restano solo ipotesi.
Testimonianze nel ritrovamento di fossile Marino nell'area.
Inoltre in siti come la Sfinge, il tempio della Sfinge e i primi venti livelli delle Grandi Piramidi, le rocce sembrano portare i segni di un’erosione causata da una più profonda saturazione dell’acqua. Sulle pietre del tempio ci sono depositi sedimentari e alluvionali, tipici dei letti dei mari poco profondi e delle lagune. Il ritiro delle acque conferisce alle pietre un effetto spugnoso e fangoso.
Affinché l’echinoidea raggiunga gli otto centimetri (la dimensione del fossile), ci vogliono circa 15 anni. Inoltre l’accumulo di quella quantità dei depositi sedimentari e alluvionali e l’erosione mesolitorale nelle zone meno profonde richiedono secoli, suggerendo che l’area è rimasta sommersa per diverso tempo.

martedì 23 aprile 2024

Alzheimer, scoperto il gene che protegge dalla malattia: come funziona. - Federico Mereta - GIORNALISTA SCIENTIFICO

 

Il gene, una specie di “scudo” protettivo per il cervello, è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone.

A volte, ci sono notizie che offrono molte speranze. Ma che vanno prese con le pinze. Perché dalla semplice lettura di uno studio scientifico, che pure riporta un’indicazione di grande importanza, può essere difficile passare alla realtà pratica. Così occorre osservare con grande attenzione lo studio apparso su Acta Neuropathologica in cui si descrive l’identificazione di un gene in grado di ridurre il rischio di sviluppare la patologia di Alzheimer fino al 70%.

L’osservazione è di grande importanza scientifica, ma in tempi brevi difficilmente potrà diventare la base per modificare qualcosa nell’approccio alla malattia. Insomma, ci vorrà tempo per pensare ad un utilizzo pratico di questa scoperta. E soprattutto non si può immaginare che questa osservazione consenta di porre uno “scudo” per tutte le persone destinate ad ammalarsi. Per questo è importante continuare a puntare sulla classica prevenzione del decadimento cognitivo.

Cosa accade in chi soffre di Alzheimer e quanti sono i malati

Pensate ad una nebbia che lentamente avvolge, il cervello e smorza la possibilità di interagire delle cellule, portandosi via ricordi, affetti e più in generale la memoria. Ecco, attraverso la perdita progressiva dei neuroni e delle loro connessioni, la malattia di Alzheimer conduce al decadimento cognitivo, che si realizza per l’ammassarsi di proteina beta-amiloide, appunto questa nebbia, che danneggia i neuroni. Anche perché non sempre, e non solo, è la malattia di Alzheimer a determinarlo. Stando a quanto riporta l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), più di un milione di persone in Italia farebbe i conti con una forma più o meno grave di decadimento cognitivo. E sarebbero circa 600.000 i pazienti con vera a propria malattia di Alzheimer.
Attenzione: non bisogna fare l’errore di considerare che questa condizione colpisca solamente chi ne soffre. In qualche modo, infatti, sempre in base a quanto segnalato sul portale Epicentro dell’ISS, considerando tutte le demenze sarebbero circa tre milioni i soggetti che nel nostro paese vengono coinvolte nell’assistenza a chi è malato.

Cos’è e come agisce il gene protettivo.

La variante genetica ad attività protettiva è implicata nella produzione di una particolare componente che entra in gioco nella formazione della barriera emato-encefalica. Questa sorta di “posto di blocco”, come un vero e proprio passaggio di frontiera, ha il compito di evitare che sostanze potenzialmente nocive, virus o batteri passino dal sangue al cervello. In pratica, quindi, la variante genetica che codifica per la fibronectina (questo il nome della sostanza che si ritrova in questa forma di “frontiera” biologica), aiuterebbe a realizzare un’ottimale pulizia del sistema nervoso, favorendo quindi il miglioramento dell’ambiente in cui questo opera.

Il gene che si può considerare una specie di “scudo” protettivo per il cervello è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone. Ma non basta. Oltre a identificare il piccolo tratto di Dna, gli studiosi hanno anche cercato di valutare in che modo questa potrebbe diventare un obiettivo per nuove terapie, capaci di avere un’azione simile a quella del gene stesso e quindi di mantenere “pulito” il cervello dalla beta-amiloide, sostanza che si accumula, proprio come un rifiuto, andando ad avvolgere progressivamente i neuroni. La fibronectina, inoltre, in genere tende ad aumentare significativamente nei soggetti con malattia di Alzheimer. La variante genetica che fa da “scudo” potrebbe impedire questo accumulo. Al momento gli studi sono stati condotti solo su modelli di laboratorio. E la teoria sembra reggere, facendo sperare in una cura che certo non appare dietro l’angolo.

Quanto conta la genetica nella malattia di Alzheimer.

Le stime dicono che mediamente un 10% dei casi di malattia di Alzheimer sembra avere un preciso percorso genetico. Soprattutto, non bisogna considerare che le forme di demenza di questo tipo interessino esclusivamente le persone molto anziane. O meglio: il rischio appare associato all’età che avanza, ma non si può considerare la carta d’identità l’unico parametro da tenere presente.

In questo senso, Amalia Cecilia Bruni, allora Presidente della SINdem (Società Italiana di Neurologia per le Demenze), qualche tempo fa ha raccontato come esistano, pur se molto rare, forme di demenza giovanili (Young Onset Dementia o YOD). La prevalenza di queste forme prevalenza cresce con l’età: tra i 30 e i 34 anni siamo a 6 soggetti su 100.000, tra i 34 e i 64 si sale a 119 su 100.000 per arrivare a 853 su 100.000 tra i 60 e i 64 anni”. Ovviamente, queste forme possono manifestarsi diversamente rispetto alle classiche patologie della terza età.

“I quadri clinici in queste forme sono prevalentemente atipici, spesso con disturbi psichiatrici col conseguente rischio di essere spesso misdiagnosticate – è il parere dell’esperta. Una quota non irrilevante ha un’importante componente metabolica come per esempio la malattia di Niemann Pick di tipo C, una forma tipicamente infantile che però presenta anche forme Late Onset (a tarda comparsa) che ricadono nelle YOD. Diversa è la situazione nelle demenze ad esordio tardivo, dopo i 65 anni, pur se l’allungamento della vita ha permesso di comprendere che anche in questo gruppo esiste una forte eterogeneità e che esistono forme negli oldest-old (>80 anni) particolari, identificate solo da studi neuropatologici. La malattia di Alzheimer è certamente la forma di demenza più prevalente, ma individuare le cure, nonostante i progressi degli ultimi tempi, è estremamente difficile”.

Le diverse “malattie” di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer può iniziare come processo biologico nel cervello anche venti e più anni prima dell’esordio dei primi sintomi. Questo è ormai noto dagli studi condotti proprio su soggetti pre-sintomatici portatori di mutazioni genetiche. Queste è il grande problema in chiave di cura: anche instaurare una terapia all’esordio potrebbe rivelarsi una misura tardiva poiché l’esordio dei sintomi non corrisponde al vero inizio della malattia ed è da considerare piuttosto come il momento in cui il cervello non riesce più a compensare la malattia, un po’ come il vaso che trabocca quando ormai si è riempito da tempo. La stessa esperta spiega come non siamo affatto certi che il quadro che si manifesta nella Malattia di Alzheimer genetica sia lo stesso che si vede nella malattia di Alzheimer “sporadica”.  Non esisterebbe quindi una malattia di Alzheimer ma probabilmente occorre parlare di malattie di Alzheimer (diverse per localizzazioni e tipo di proteine aggregate).

Una formula matematica per la prevenzione.

Andiamo oltre la genetica. Il cervello è una struttura plastica in continua evoluzione e modulazione durante tutto l’arco della vita ed è dunque sensibile ad interventi che anche dall’esterno si possono riflettere sulla genetica, sul metabolismo e sulle connessioni neurali. In questo senso, si può riproporre una formula matematica semplice da ricordare: 12 per 40. Si tratta di un’informazione utile per prevenire le difficoltà cognitive in età avanzata, prima tra tutte la Malattia di Alzheimer. Se si riesce a controllare con le giuste abitudini gli elementi che potenzialmente possono favorire l’insorgenza di questi quadri, infatti, si può arrivare a ridurre anche del 40 per cento il pericolo di sviluppare quadri di questo tipo.

I 12 fattori di rischio

La segnalazione viene da un documento della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention and Care. A parte la complessità scientifica delle informazioni, vale la pena di ricordare i dodici fattori di rischio su cui possiamo agire in chiave preventiva: si parte con la pressione alta, l’obesità, il fumo, il diabete, lo scarso movimento, l’abuso di alcol. Si passa attraverso veri e propri elementi medici, come la perdita dell’udito, che viene considerata particolarmente significativa tanto da diventare in quanto a “peso” statistico l’elemento in testa alla classifica, per arrivare alla depressione, ai traumi cranici, e all’abuso di alcolici. Infine, occorre prestare attenzione all’ambito sociale in cui vivono le persone: isolamento, istruzione carente e inquinamento ambientale.
Secondo gli esperti, non “sentire” come si dovrebbe, significa aumentare significativamente i rischi. Attenzione va prestata anche all’inquinamento, pur se le ricerche per valutare la correlazione tra i due elementi sono state condotte soprattutto sugli animali. Stando agli studi, infatti, l’esposizione ad inquinanti particolati nell’atmosfera accelererebbe i processi neurodegenerativi. E, come se non bastasse, il biossido d’azoto figlio dei tubi di scappamento quando in alte concentrazioni potrebbe essere, secondo la scienza, associato ad un maggior pericolo di sviluppare demenza.
Sia chiaro: si parla solamente di rischi più elevati che sarebbe meglio contrastare.

https://quifinanza.it/salute/alzheimer-gene-protettivo-scoperta/811500/

venerdì 29 luglio 2022

Sla. Nuova luce su uno dei meccanismi alla base della malattia. Lo Studio dell'Università di Firenze.

 

Pubblicata su Science Advances la ricerca internazionale guidata dall’Università di Firenze in collaborazione l’Università di Genova e confinaziata da AriSLA e CR Firenze. Classificati e quantificati i depositi della proteina (TDP-43) che, in modo anomalo, si sposta fuori del nucleo dei motoneuroni, le cellule nervose che dal cervello trasmettono lo stimolo ai muscoli per la loro attivazione. La ricerca apre prospettive su possibili bersagli farmacologici per combattere la Sla.

28 LUG - 

Nuovi risultati dagli studi in laboratorio su uno dei meccanismi alla base della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). Si è giunti alla classificazione e quantificazione esatta dei depositi di una precisa proteina (TDP-43) che, in modo anomalo, si sposta fuori del nucleo dei motoneuroni, le cellule nervose che dal cervello trasmettono lo stimolo ai muscoli per la loro attivazione.

È il risultato della ricerca pubblicata su Science Advances e guidata da un team di biochimici dell’Università di Firenze, in collaborazione con un gruppo dell’Università di Genova [“A quantitative biology approach correlates neuronal toxicity with the largest inclusions of TDP-43”]. La ricerca è stata cofinanziata da Fondazione AriSLA, ente non profit che finanzia gli studi su questa patologia, e con fondi del Bando Fondazione CR Firenze – Università di Firenze sulle malattie neurodegenerative.

“Abbiamo riprodotto in laboratorio il meccanismo patogenetico che riguarda i motoneuroni: le ricerche sulla SLA – spiega il coordinatore dello studio Fabrizio Chiti, ordinario di Biochimica presso il Dipartimento di Scienze Biomediche, Sperimentali e Cliniche dell’Ateneo fiorentino –  ci dicono che nella grande maggioranza dei casi la proteina TDP-43, che svolge la propria funzione nei nuclei delle cellule, si deposita in forma di inclusioni al di fuori del nucleo dei motoneuroni, nel citoplasma delle loro cellule. Ciò comporta due conseguenze negative: viene a mancare la proteina funzionale nel nucleo e queste inclusioni proteiche si accumulano nel citoplasma con azione nociva. La conseguenza è che il paziente con SLA non riesce a muovere i propri muscoli a causa del malfunzionamento dei motoneuroni”.


“Riproducendo questo meccanismo in cellule in coltura simili ai motoneuroni, grazie alla microscopia confocale STED (Stimulated emission depletion) e alla sua alta risoluzione – spiegano le ricercatrici Roberta Cascella e Alessandra Bigi, entrambe prime autrici del lavoro – abbiamo isolato e contato nel tempo una per una le inclusioni di TDP-43 attribuendole a classi in base alla dimensione. Attraverso un modello matematico e un’analisi di global fitting che include tutti gli andamenti temporali osservati per le varie classi, è stata descritta la formazione nel tempo di tutte le classi di inclusioni, identificando le inclusioni maggiormente responsabili della malattia”.

“E queste sono risultate essere quelle di grandi dimensioni, a differenza di quanto succede nella maggior parte delle malattie neurodegenerative”, sottolinea Cristina Cecchi, componente del team fiorentino.

“Si è scoperto anche che per la degenerazione dei motoneuroni giocano un ruolo la perdita di proteina nel nucleo per il 60% circa, e, per il 40% circa l’accumulo nel citoplasma di TDP-43”, continua Fabrizio Chiti.

Lo studio ha permesso inoltre di capire che le inclusioni più grandi sono “attaccate” dai sistemi protettivi di controllo di qualità presenti all’interno delle nostre cellule (proteasoma e autofagia), che tuttavia non riescono a eliminarle del tutto e a risolvere completamente il problema.

Il lavoro è stato eseguito con la collaborazione del gruppo di Katia Cortese all’Università di Genova. Vi hanno partecipato anche gli studenti in tirocinio a Firenze Dylan Giorgino Riffert ed Emilio Ermini.

La ricerca apre interessanti prospettive su possibili bersagli farmacologici per combattere la SLA, malattia altamente debilitante di cui si stimano affetti 6mila pazienti all’anno solo in Italia, soprattutto fra i 40 e i 70 anni di età (fonte AISLA).

“Siamo molto felici degli esiti di questo studio da noi supportato – commenta il Presidente di Fondazione AriSLA Mario Melazzini – perché ci confermano quanto sia importante investire in ricerca di base per comprendere al meglio i meccanismi scatenanti la malattia e per potere costruire risposte mirate alle manifestazioni cliniche della SLA. Il nostro impegno è continuare a sostenere il prezioso lavoro dei ricercatori e contribuire insieme a loro a compiere nuovi passi in avanti”.

“Risultati come questo – afferma Gabriele Gori, Direttore Generale di Fondazione CR Firenze – accendono un riflettore sull’importanza di investire nella ricerca. Fondazione CR Firenze sostiene le carriere dei ricercatori con circa 120 assegni/borse di ricerca ogni anno e grazie a bandi specifici, in questo caso quello sulla malattie neurodegenerative finanziato per due annualità e per un totale di un milione di euro, contribuisce a sviluppare nuovi studi o realizzare infrastrutture di ricerca innovative. I nostri complimenti al team che ha aggiunto un tassello importante per comprendere una delle patologie neurodegenerative più complesse e invalidanti”.

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=106691&fr=n&fbclid=IwAR3BmDuq0vVFIElzVvwcicUO0vuYbM2oHVTkQtQUhieaviFV8ox-H8qUgiM

sabato 2 aprile 2022

Reddito Universale e salute mentale. - Matthew Smith














La povertà, la disuguaglianza e  l’isolamento sociale  possono portare a problemi di salute mentale, ansia e depressione. Il reddito universale può aiutare ad alleviare questi problemi.

Durante gli anni dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti sono stati portati avanti quattro progetti di ricerca sulla psichiatria sociale e su come prevenire la malattia mentale. Il primo, Robert Faris e H. Warren Dunham’s  Mental Disorder in Urban Areas è  stato uno studio di Chicago che ha scoperto come le persone con diagnosi di  schizofrenia  tendessero a provenire dalle aree povere e caotiche della città.

Il secondo è stato il Social Class and Mental Illness di Frederick Redlich e August Hollingshead, incentrato su classi e disuguaglianze a New Haven, nel Connecticut. Il terzo studio è stato lo Stirling County Study, che si è concentrato su una contea della Nuova Scozia, in Canada, ed è stato condotto da Alexander Leighton. Questo studio ha scoperto che l’isolamento sociale potrebbe innescare problemi di salute mentale, tra cui  ansia  e  depressione .

Lo studio finale è stato  il Mental Health in the Metropolis di Leo Srole e Marvin Opler, un progetto focalizzato su Manhattan, che ha scoperto che l’isolamento sociale crea problemi e disordini di salute mentale, all’interno di una città frenetica. Lo studio ha anche enfatizzato il ruolo della povertà e stabilito un legame tra cattiva salute fisica e mentale.

Nel complesso, questi studi hanno rilevato che la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale sono tutti fattori di una cattiva salute mentale. Sebbene alcuni tentativi siano stati fatti per affrontare questi problemi durante gli anni ’60, negli anni ’70 gran parte dell’interesse per la psichiatria sociale è diminuito.

Oggi ci sono rinnovate preoccupazioni per l’aumento dei tassi di malattia mentale, ma poche persone parlano di ciò che è necessario per prevenirla. Quando penso alle soluzioni che potrebbero affrontare la povertà, la disuguaglianza e l’isolamento sociale e che sono strettamente legate alla salute mentale, penso sempre più che il reddito di base universale possa essere una possibile soluzione. 

Sono anche sempre più convinto che uno dei fattori che dobbiamo considerare per valutare se il reddito universale possa funzionare sia determinare i suoi effetti sulla salute mentale. Quando i test pilota sul reddito universale sono stati condotti in Canada, Finlandia o altrove, le persone coinvolte hanno riferito che la propria salute mentale è migliorata.

Ma perché è così? Ebbene, il reddito universale aiuta ad affrontare i tre fattori sociali implicati nella malattia mentale. In primo luogo, riduce la povertà e, inoltre, elimina l’ansia associata ai cambiamenti del sistema del welfare. Le persone semplicemente ottengono il loro reddito senza fare domande.

In secondo luogo, riduce la disuguaglianza in parte perché è dato a tutti, indipendentemente dal loro reddito, ma anche, e soprattutto, offre alle persone l’opportunità di salire la scala sociale accedendo all’istruzione, avviando un’attività in proprio, impegnandosi in attività creative o artistiche. Fornisce un cuscinetto economico in modo che le persone possano apportare cambiamenti positivi nella loro vita. Erode la disperazione e la depressione associate al vivere sui gradini più bassi della scala sociale.

Infine, fornisce alle persone mezzi economici per impegnarsi di più nelle loro comunità. Se le persone trovano che il volontariato sia significativo o desiderano dedicare del tempo alla cura dei membri della famiglia, il reddito universale consente loro di farlo. Offre un’opportunità di crescita sociale ed emotiva, piuttosto che una semplice crescita economica.

Se il sistema di welfare non fosse così tanto impegnato nel determinare chi merita i benefici e nel vagliare coloro che sono ritenuti spettanti o meno, le persone che lavorano nel sistema sarebbero in grado di dedicare il loro tempo ad aiutare effettivamente chi sta male. Libererebbe un’enorme quantità di risorse umane per affrontare problemi più difficili, come dipendenze, abusi e altri problemi di salute mentale. Il reddito universale sarebbe anche un enorme vantaggio per coloro che attualmente soffrono di malattie mentali e lottano per sbarcare il lunario mentre cercano di stare meglio. Il reddito universale non impedirebbe tutte le malattie mentali o risolverebbe tutti i nostri problemi sociali, ma darebbe un enorme carico al sistema in modo che sia più facile affrontare i problemi più difficili da sradicare.

Proprio come i professionisti della salute mentale, gli attivisti, i pazienti e gli enti di beneficenza devono essere più audaci nello spingere i cambiamenti sociali necessari per prevenire la malattia mentale; i sostenitori del reddito di base universale devono iniziare a includere le valutazioni della salute mentale nei loro progetti pilota. Soprattutto, dobbiamo iniziare a parlare e provare nuove politiche sociali progressiste che possano aiutare a ridurre l’enorme costo della malattia mentale per la società.

Articolo originale apparso su Psychology Today

https://beppegrillo.it/reddito-universale-e-salute-mentale/

sabato 8 gennaio 2022

Berlusconi, chi è?

 

Berlusconi ha 85 anni compiuti.
Se diventasse PdR, eviterebbe, per esercitare le funzioni attinenti alla carica, di presenziare a tutte le udienze delle tante cause che pendono a suo nome (alcune delle quali per atti compiuti contro la stabilità e la sicurezza dello Stato del quale vorrebbe diventare il rappresentante), che verrebbero rimandate fino a raggiungere la prescrizione, che è uno degli scopi della sua performance.

Inoltre, se dovessero emergere altri reati commessi dal nanetto baldanzoso, eventualità possibilissima conoscendo l'individuo, non si potrebbe procedere, perché, per ovvi motivi, il Parlamento non lo permetterebbe.
I conti "The boss" se li è fatti bene, ma non credo che sia tutta farina del suo sacco, lui ha costruito un impero economico con soldi prestatigli da una banca i cui correntisti erano individui di basso profilo legale, che non penso abbiamo rischiato i loro averi senza avergli imposto dritte su come investirli... compresa la possibilità di entrare in politica...

cetta

mercoledì 15 settembre 2021

Energia, ecco perché (e come) rincara la bolletta. - Jacopo Gilberto

 

La domanda alle stelle e l’offerta bassa tengono alte in Europa le quotazioni di gas e luce. Allarme in Germania, prezzi fuori scala in Inghilterra.

I punti chiave


I prezzi dell’energia potrebbero crescere tra poche settimane fra il 30% e il 40%, se il Governo o l’autorità dell’energia Arera non interverranno per mitigare le bollette di luce e gas togliendo alcune voci di costo che aggiungono peso alla fattura energetica. Il fenomeno non è italiano e non c’è da immaginare dietrologie cospirologiche o una complottologia per far tornare il nucleare in Italia, come alludono i soliti sospettosi dall’umor nero. Semplicemente, in tutto il mondo e in tutta Europa, la domanda di energia corre all’impazzata, le materie prime faticano a stare al passo con la crescita della produzione, la richiesta di metano usato soprattutto dall’industria è altissima e l’offerta bassa, le fonti rinnovabili non bastano a soddisfare il fabbisogno, le normative ambientali fanno rincarare i costi di produzione.

Più di metà dell’elettricità prodotta in Italia viene dalle centrali termoelettriche a ciclo combinato alimentate con metano. Nell’ Inghilterra che punta sull’energia eolica la mancanza di vento sta facendo volare il costo del chilowattora oltre i 2 euro, un prezzo da primato fuori scala, e prezzi orgogliosi in tutti i Paesi europei , indipendentemente dalle loro fonti energetiche predilette, compreso nucleare o rinnovabili. Chi da anni invoca che vengano chiusi i pozzi di petrolio e gas per ridurne l’offerta e far salire i prezzi ha centrato in pieno l’obiettivo. In Italia, ai costi all’ingrosso, si aggiungono le spese di distribuzione e trasporto, le tasse, le addizionali, gli oneri per finanziare la ricerca elettrica, smaltire l’eredità nucleare, finanziare le fonti rinnovabili d’energia. In particolare, gli incentivi alle fonti rinnovabili d’energia pesano sulle bollette finali degli italiani circa 12 miliardi di euro l’anno.

I rincari a monte.

Qualche indicazione molto sommaria per avere i confronti fra i diversi ordini di grandezza: un anno fa le quotazioni internazionali del metano si aggiravano fra i 20 e i 30 euro per mille chilowattora, oggi sono raddoppiate fra i 50 e i 60 euro; le quotazioni europee Ets delle emissioni di anidride carbonica sono raddoppiate dai 20-30 euro la tonnellata e oggi si aggirano sui 50-60 euro; il prezzo del chilowattora all’ingrosso alla borsa elettrica italiana del Gme un anno fa si aggirava fra i 20 e i 40 euro per mille chilowattora e oggi la quotazione si aggira attorno ai 140 euro.

Che cosa accade il primo ottobre?

Il rincaro scatterà il primo ottobre per un gran numero di consumatori domestici, professionali e industriali. Il primo ottobre comincia l’anno termico, cioè il periodo contrattuale di fornitura industriale dell’energia.
I contratti pluriennali a prezzo fisso sono salvi e i consumatori liberi di corrente elettrica e di gas evitano il rincaro e ne accollano il sovraccosto ai loro fornitori. Ma i contratti di fornitura a rinnovo annuale ora sono arrivati all’aggiornamento di prezzo e sarà impossibile riuscire a tenere contenuti gli aumenti. 

Per le famiglie e le piccole attività legate alle tariffe regolate (settore definito di «tutela»), le bollette di luce e gas sono aggiornate ogni tre mesi dall’autorità dell’energia Arera sulla base degli andamenti dei costi di produzione elettrica e del mercato del gas, fra loro strettamente interrelati.

Il rincaro superiore al 30% stimato dal Sole24Ore o vicino al 40% ipotizzato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani non è sul costo finale al consumatore ma sulla sola componente energia , circa il 60% del costo finale. Nel ridurre eventuali oneri e sovraccosti, spostando o riducendo voci che gravano sulla bolletta, il Governo dovrà stare attentissimo a evitare di creare aiuti di Stato nascosti.

Una crescita internazionale. I casi di Inghilterra e Germania

Il rincaro è internazionale. In questi giorni alla borsa elettrica europea Epex le forniture di corrente elettrica all’ingrosso sono carissime, il record è dell’Inghilterra dove le quotazioni spot dell’elettricità si aggirano sulle 400 sterline per mille chilowattora, con punte fino ai 2 euro al chilowattora per le consegne della sera alle ore 20 (1.675 sterline per mille chilowattora). La Germania invece rinvia a dopo le elezioni la botta mostruosa dei rincari energetici: la benzina potrebbe balzare a 2,2-2,5 euro al litro (secondo le analisi del quotidiano Handelsblatt), l’elettricità arriverà a prezzi mai visti e vengono tenuti fermi per non spaventare l’elettore. La Germania, inoltre, sta andando a tutto carbone mentre l’eolico, senza abbastanza vento, è sceso di posizione. Secondo l’ Ufficio federale statistico , nei primi sei mesi del 2021 c’è un boom dei fossili e le fonti convenzionali sono cresciute del +20,9% e sono il 56% mentre il carbone è tornato la prima fonte energetica.

Il nucleare, i giacimenti e le rinnovabili non risolvono.

Il nucleare, che non emette CO2, e le altre fonti non fossili, come le rinnovabili, aiutano ma non bastano a mitigare il fenomeno dei rincari. Come mai la Francia tutta atomica, il Paese industrializzato con il minore tasso di emissione di CO2 al mondo, ha prezzi alti? E prezzi alti nell’Austria idroelettrica? Semplice. I produttori rinnovabili e nucleari quando vendono le loro partite di corrente alla borsa elettrica cercano di spuntare il miglior prezzo possibile e collocano le loro offerte a un valore immediatamente inferiore di quello dei concorrenti fossili, conseguendo così margini interessantissimi per i loro azionisti. Un fenomeno simile anche per chi ha giacimenti, come l’Italia che è ricchissima di metano ma non vuole sfruttare le risorse nazionali: il metano estratto in Italia è venduto a prezzi internazionali, o immediatamente inferiori, poiché le società estrattive cercano di massimizzare il valore del loro bene, così come lo massimizzerà lo Stato al momento di incassare le royalty su quei giacimenti, che sono in percentuale con il prezzo di mercato. Da anni gli ecologisti invocano che vengano sospese le perforazioni e le ricerche di giacimenti, e il loro sfruttamento, in modo da ridurre l’offerta di petrolio e gas e quindi farne salire i prezzi: obiettivo centrato in pieno.

I 12 miliardi di sovraccosto delle rinnovabili.

Ad accrescere i costi ci sono anche i valori delle emissioni di CO2, che sul prezzo finale rappresentano circa un quinto del rincaro. Gli incendi estivi in molte zone di giovane rimboschimento hanno distrutto foreste che erano state piantate per neutralizzar le emissioni di CO2, e questo è uno dei fattori che ha aggiunto punte di rincaro ai prezzi della CO2. Nel frattempo, attenzione. Tra le materie prime rincarano a botta anche quelle per fare i pannelli solari e le pale eoliche: gli investimenti rinnovabili non sono più così convenienti. Secondo gli analisti di Rystad , con questi costi della filiera è difficile garantire gli obiettivi climatici. Tuttavia in questo periodo il freno alle rinnovabili è dato anche dalle lentezze della logistica internazionale per la componentistica e poi per la consegna del prodotto finito. Il costo dei moduli fotovoltaici è cresciuto, ma con un effetto modesto sul costo finito delle centrali solari, mentre sovraccosti più importanti sono dettati dalle condizioni complessive di mercato.

IlSole24Ore

lunedì 12 ottobre 2020

Covid, restiamo umani. Pazienti dimenticati, visite negate. “Mai usciti dalla prima ondata”. - Selvaggia Lucarelli

 

Morire di quarantena: 87 anni, negativo, se ne va senza la moglie

Cara Selvaggia, sono assistente sociale in un piccolo comune, vicino Verona. Seguo gli anziani e vorrei mostrarle un’altra faccia dell’emergenza Covid, raccontando una vicenda davvero triste, che mi ha toccato molto dal punto di vista professionale e soprattutto umano. Una coppia di anziani, lui 80 anni, lei 87. Insieme da una vita, niente figli, niente nipoti, niente parenti prossimi. Si sono arrangiati finché hanno potuto, poi li ho affiancati per consentire loro una vita dignitosa nella propria casa. Fino a quando bussa la bestia nera, il Covid. Loro due terrorizzati, barricati in casa. Certo non lasciati soli, ma comunque soli. Con l’isolamento arriva anche la demenza senile di lui, prepotente, velocissima. Spaventosa per lei, che non sa più a un certo punto come gestire il marito, che ogni tre per due si mette in testa di fare cose assurde e lei non riesce a dissuaderlo; lui si mette in pericolo e cade spesso. Di notte non si dorme. Arriva settembre e lei è esausta, nonostante gli aiuti domiciliari. Serve un periodo di sollievo in una struttura protetta (in questo caso è una casa di riposo), per consentire a lei di recuperare le forze e a lui di essere curato. Arriva il giorno del ricovero (dopo il tampone negativo): li accompagna la nostra ragazza di Servizio civile. L’accoglienza è traumatica, prendono lui e lo portano subito nella sua stanza. Non li fanno nemmeno salutare. Lei torna a casa, spaesata, inizia subito a telefonare in struttura per sapere come sta il marito, se ha mangiato, se ha dormito. Non hanno cellulari e gli operatori non glielo passano al telefono. A lui fanno un altro tampone appena arrivato, anche questo negativo: ma deve stare in isolamento, ancora, per 15 giorni. A tratti è lucido, ma in generale non sa bene dove si trova. Non può vedere nessuno. Lei insiste (e anche io) perché glielo facciano vedere anche per 5 minuti, da dietro un vetro, per mostrargli che sua moglie c’è ancora, non l’ha abbandonato. Impossibile, prima visita consentita dopo 3 settimane (15 giorni più il tempo dell’esito del 3º tampone). Ecco, lui non ci è mai arrivato a rivederla: dopo 13 giorni di “prigionia” si è semplicemente lasciato andare. Senza avere nessuna patologia tale da causare un decesso. Lo comunicano a lei quella notte alle 2, era sola. E disperata. È stato protetto eccellentemente dal Covid, ma è stato ucciso dalla mancanza di umanità. Forse stiamo perdendo di vista qualcosa. Grazie per l’attenzione.

Silvia

“No-mask irresponsabili, e io che speravo dopo il lockdown…”

Ciao Selvaggia, sono un’infermiera e durante la prima ondata di pandemia ho lavorato nel reparto Covid della mia clinica (un istituto del gruppo ospedaliero San Donato). Io, infermiera di cardiochirurgia da anni, di colpo sono stata catapultata in una realtà nuova! Ho pianto tanto: vedevo ammalarsi colleghi medici, infermieri e operatori socio sanitari, senza sapere se ce l’avrebbero fatta. Ho pianto con gli anestesisti quando abbiamo dovuto scegliere chi attaccare al respiratore (che erano sempre molto pochi) e chi accompagnare verso la fine. Ho pianto con i pazienti, che mi guardavano negli occhi chiedendomi se ce l’avrebbero fatta! Ho pianto da sola perché avevo sempre paura di infettare mio marito, ho pianto per i mesi trascorsi lontana da genitori e affetti. Quando la situazione è migliorata ho davvero sperato che fossimo tutti consapevoli della gravità della pandemia, e che si riuscisse (per una volta) a seguire le regole! Ma ora per colpa dei negazionisti, dei “no mask” e di tutti quelli che se ne fregano, non posso più fare il mio lavoro, il lavoro che amo. Nella mia clinica (100 posti letto circa) ci sono 6 pazienti positivi, ed io sono obbligata in casa per via di un branco di irresponsabili! E per fortuna sono una di quelle che non ha mai pensato che “andrà tutto bene”. Almeno, sono rimasta sorpresa a metà.

L.

“Io, malato di cancro, un numero nella fredda macchina sanitaria”

Cara Selvaggia, col Covid l’Italia si è dimenticata di chi i problemi di salute li affronta ogni giorno. Io, tumore a 22 anni, infarto e problemi cardiorespiratori (provocati dalle radioterapie), ora ho 35 anni. Mi sono costruito una famiglia, un lavoro impegnativo, affetti, desideri, gioie, dolori, piccoli successi e molti insuccessi. Nonostante tutto. Ho vissuto. In questo periodo, accedere in ospedale per le mie piccole emergenze o per i controlli di routine è divenuto un’impresa. La macchina sanitaria avanza in modo sbrigativo perché c’è il Covid: da paziente cronico mi sento sempre più un numero, un codice di un esame, un “ci rivediamo al prossimo controllo” e via. Non va. Persone senza mascherina ti tossiscono accanto, ti arrivano addosso; ragazzini ti guardano con atteggiamento di sfida senza indossare la mascherina. Questo, è tanto altro. Ho sempre desiderato vivere, oltre i miei problemi. Oggi voglio solo sopravvivere per i miei figli.

M.

Queste tre lettere indicano con chiarezza che al di là dei numeri, delle statistiche, della situazione ad oggi (poco) più rassicurante che in altri Paesi europei, nulla è finito. E che forse non si può parlare di seconda ondata. La verità è che sia da un punto di vista psicologico che sanitario, non siamo mai usciti dalla prima.

Selvaggia Lucarelli

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/10/12/covid-restiamo-umani-pazienti-dimenticati-visite-negate-mai-usciti-dalla-prima-ondata/5962639/

mercoledì 3 luglio 2019

Piccioni, colombi, corvi e altri volatili: un serio rischio per la salute.

Piccioni, colombi, corvi e altri volatili: un serio rischio per la salute

I LETTORI CI SCRIVONO Piccioni, colombi, corvi e altri volatili: un serio rischio per la tua salute.
Per il bene della salute generale i comuni, gli amministratori di condomini, i proprietari di aziende alimentari o ospedaliere devono evitare l’eccessiva proliferazione dei volatili.
Infatti non solo i piccioni sporcano, imbrattano e sono rumorosi, ma anche sono portatori di oltre 60 tra infezioni e malattie trasmesse direttamente o indirettamente all’uomo
Quali sono le più diffuse malattie trasmesse dai piccioni?
CRIPTOCOCCOSI - Solitamente l’infezione parte dai polmoni e si diffonde attraverso il sistema circolatorio in tutte le parti del corpo, toccando anche l’encefalo e le meningi, provocando in tal caso, soprattutto nei bambini e nei soggetti più deboli, il decesso.
ISTOPLASMOSI - L’Histoplasma è un fungo che vive sulle superfici e nel guano degli uccelli si sviluppa con grande facilità. Una volta contratto, può presentarsi come un’infezione acuta o cronica, localizzata o diffusa, del sistema immunitario. Clinicamente può essere confusa con altre malattie, tra le quali la tubercolosi. La maggior parte delle infezioni regredisce spontaneamente, ma i casi fulminanti sono mortali.
ORNITOSI - Questa malattia presenta i caratteri di una setticemia infettiva e di una polmonite atipica, la trasmissione della malattia avviene per via aerea, respirando polvere di sterco di colombo. L’esito è mortale per le forme polmonari.
SALMONELLOSI - Esistono centinaia di tipi di Salmonella, tra queste la Salmonella Typhi, che causa febbre tifoide, e moltissime altre responsabili di innumerevoli gastro-enteriti e setticemie.
Malattie trasmesse dai piccioni senza il contatto diretto
Gli agenti patogeni delle malattie si trovano negli escrementi dei piccioni e spesso non è necessario il contatto diretto con questi: il vento, gli aspiratori, i ventilatori possono trasportare la polvere infetta delle deiezioni secche negli appartamenti, nei ristoranti, negli uffici, negli ospedali, nelle scuole contaminando gli alimenti, gli utensili da cucina, la biancheria, innescando i processi infettivi.
Per allontanare i piccioni bisogna chiamare una squadra esperta che abbia gli strumenti adatti per ripulire e bonificare le zone imbrattate dal guano dei piccioni, altrimenti i danni alla salute possono essere enormi.
Se le panchine della città sono imbrattate, se i balconi dei palazzi hanno tracce di guano, se ci sono nidi nei vostri solati, non mettere a rischio la salute. Servono piani efficaci per l’allontanamento dei piccioni e degli altri volatili e soprattutto per la bonifica e la sanificazione degli ambienti. È certamente un diritto del danneggiato sollecitare ASL e Comune per l’adozione di misure di contrasto del fenomeno.