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martedì 23 aprile 2024

Alzheimer, scoperto il gene che protegge dalla malattia: come funziona. - Federico Mereta - GIORNALISTA SCIENTIFICO

 

Il gene, una specie di “scudo” protettivo per il cervello, è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone.

A volte, ci sono notizie che offrono molte speranze. Ma che vanno prese con le pinze. Perché dalla semplice lettura di uno studio scientifico, che pure riporta un’indicazione di grande importanza, può essere difficile passare alla realtà pratica. Così occorre osservare con grande attenzione lo studio apparso su Acta Neuropathologica in cui si descrive l’identificazione di un gene in grado di ridurre il rischio di sviluppare la patologia di Alzheimer fino al 70%.

L’osservazione è di grande importanza scientifica, ma in tempi brevi difficilmente potrà diventare la base per modificare qualcosa nell’approccio alla malattia. Insomma, ci vorrà tempo per pensare ad un utilizzo pratico di questa scoperta. E soprattutto non si può immaginare che questa osservazione consenta di porre uno “scudo” per tutte le persone destinate ad ammalarsi. Per questo è importante continuare a puntare sulla classica prevenzione del decadimento cognitivo.

Cosa accade in chi soffre di Alzheimer e quanti sono i malati

Pensate ad una nebbia che lentamente avvolge, il cervello e smorza la possibilità di interagire delle cellule, portandosi via ricordi, affetti e più in generale la memoria. Ecco, attraverso la perdita progressiva dei neuroni e delle loro connessioni, la malattia di Alzheimer conduce al decadimento cognitivo, che si realizza per l’ammassarsi di proteina beta-amiloide, appunto questa nebbia, che danneggia i neuroni. Anche perché non sempre, e non solo, è la malattia di Alzheimer a determinarlo. Stando a quanto riporta l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), più di un milione di persone in Italia farebbe i conti con una forma più o meno grave di decadimento cognitivo. E sarebbero circa 600.000 i pazienti con vera a propria malattia di Alzheimer.
Attenzione: non bisogna fare l’errore di considerare che questa condizione colpisca solamente chi ne soffre. In qualche modo, infatti, sempre in base a quanto segnalato sul portale Epicentro dell’ISS, considerando tutte le demenze sarebbero circa tre milioni i soggetti che nel nostro paese vengono coinvolte nell’assistenza a chi è malato.

Cos’è e come agisce il gene protettivo.

La variante genetica ad attività protettiva è implicata nella produzione di una particolare componente che entra in gioco nella formazione della barriera emato-encefalica. Questa sorta di “posto di blocco”, come un vero e proprio passaggio di frontiera, ha il compito di evitare che sostanze potenzialmente nocive, virus o batteri passino dal sangue al cervello. In pratica, quindi, la variante genetica che codifica per la fibronectina (questo il nome della sostanza che si ritrova in questa forma di “frontiera” biologica), aiuterebbe a realizzare un’ottimale pulizia del sistema nervoso, favorendo quindi il miglioramento dell’ambiente in cui questo opera.

Il gene che si può considerare una specie di “scudo” protettivo per il cervello è stato identificato dagli esperti dell’Università Columbia, analizzando il patrimonio genetico di circa 11.000 persone. Ma non basta. Oltre a identificare il piccolo tratto di Dna, gli studiosi hanno anche cercato di valutare in che modo questa potrebbe diventare un obiettivo per nuove terapie, capaci di avere un’azione simile a quella del gene stesso e quindi di mantenere “pulito” il cervello dalla beta-amiloide, sostanza che si accumula, proprio come un rifiuto, andando ad avvolgere progressivamente i neuroni. La fibronectina, inoltre, in genere tende ad aumentare significativamente nei soggetti con malattia di Alzheimer. La variante genetica che fa da “scudo” potrebbe impedire questo accumulo. Al momento gli studi sono stati condotti solo su modelli di laboratorio. E la teoria sembra reggere, facendo sperare in una cura che certo non appare dietro l’angolo.

Quanto conta la genetica nella malattia di Alzheimer.

Le stime dicono che mediamente un 10% dei casi di malattia di Alzheimer sembra avere un preciso percorso genetico. Soprattutto, non bisogna considerare che le forme di demenza di questo tipo interessino esclusivamente le persone molto anziane. O meglio: il rischio appare associato all’età che avanza, ma non si può considerare la carta d’identità l’unico parametro da tenere presente.

In questo senso, Amalia Cecilia Bruni, allora Presidente della SINdem (Società Italiana di Neurologia per le Demenze), qualche tempo fa ha raccontato come esistano, pur se molto rare, forme di demenza giovanili (Young Onset Dementia o YOD). La prevalenza di queste forme prevalenza cresce con l’età: tra i 30 e i 34 anni siamo a 6 soggetti su 100.000, tra i 34 e i 64 si sale a 119 su 100.000 per arrivare a 853 su 100.000 tra i 60 e i 64 anni”. Ovviamente, queste forme possono manifestarsi diversamente rispetto alle classiche patologie della terza età.

“I quadri clinici in queste forme sono prevalentemente atipici, spesso con disturbi psichiatrici col conseguente rischio di essere spesso misdiagnosticate – è il parere dell’esperta. Una quota non irrilevante ha un’importante componente metabolica come per esempio la malattia di Niemann Pick di tipo C, una forma tipicamente infantile che però presenta anche forme Late Onset (a tarda comparsa) che ricadono nelle YOD. Diversa è la situazione nelle demenze ad esordio tardivo, dopo i 65 anni, pur se l’allungamento della vita ha permesso di comprendere che anche in questo gruppo esiste una forte eterogeneità e che esistono forme negli oldest-old (>80 anni) particolari, identificate solo da studi neuropatologici. La malattia di Alzheimer è certamente la forma di demenza più prevalente, ma individuare le cure, nonostante i progressi degli ultimi tempi, è estremamente difficile”.

Le diverse “malattie” di Alzheimer.

La malattia di Alzheimer può iniziare come processo biologico nel cervello anche venti e più anni prima dell’esordio dei primi sintomi. Questo è ormai noto dagli studi condotti proprio su soggetti pre-sintomatici portatori di mutazioni genetiche. Queste è il grande problema in chiave di cura: anche instaurare una terapia all’esordio potrebbe rivelarsi una misura tardiva poiché l’esordio dei sintomi non corrisponde al vero inizio della malattia ed è da considerare piuttosto come il momento in cui il cervello non riesce più a compensare la malattia, un po’ come il vaso che trabocca quando ormai si è riempito da tempo. La stessa esperta spiega come non siamo affatto certi che il quadro che si manifesta nella Malattia di Alzheimer genetica sia lo stesso che si vede nella malattia di Alzheimer “sporadica”.  Non esisterebbe quindi una malattia di Alzheimer ma probabilmente occorre parlare di malattie di Alzheimer (diverse per localizzazioni e tipo di proteine aggregate).

Una formula matematica per la prevenzione.

Andiamo oltre la genetica. Il cervello è una struttura plastica in continua evoluzione e modulazione durante tutto l’arco della vita ed è dunque sensibile ad interventi che anche dall’esterno si possono riflettere sulla genetica, sul metabolismo e sulle connessioni neurali. In questo senso, si può riproporre una formula matematica semplice da ricordare: 12 per 40. Si tratta di un’informazione utile per prevenire le difficoltà cognitive in età avanzata, prima tra tutte la Malattia di Alzheimer. Se si riesce a controllare con le giuste abitudini gli elementi che potenzialmente possono favorire l’insorgenza di questi quadri, infatti, si può arrivare a ridurre anche del 40 per cento il pericolo di sviluppare quadri di questo tipo.

I 12 fattori di rischio

La segnalazione viene da un documento della Lancet Commission on Dementia Prevention, Intervention and Care. A parte la complessità scientifica delle informazioni, vale la pena di ricordare i dodici fattori di rischio su cui possiamo agire in chiave preventiva: si parte con la pressione alta, l’obesità, il fumo, il diabete, lo scarso movimento, l’abuso di alcol. Si passa attraverso veri e propri elementi medici, come la perdita dell’udito, che viene considerata particolarmente significativa tanto da diventare in quanto a “peso” statistico l’elemento in testa alla classifica, per arrivare alla depressione, ai traumi cranici, e all’abuso di alcolici. Infine, occorre prestare attenzione all’ambito sociale in cui vivono le persone: isolamento, istruzione carente e inquinamento ambientale.
Secondo gli esperti, non “sentire” come si dovrebbe, significa aumentare significativamente i rischi. Attenzione va prestata anche all’inquinamento, pur se le ricerche per valutare la correlazione tra i due elementi sono state condotte soprattutto sugli animali. Stando agli studi, infatti, l’esposizione ad inquinanti particolati nell’atmosfera accelererebbe i processi neurodegenerativi. E, come se non bastasse, il biossido d’azoto figlio dei tubi di scappamento quando in alte concentrazioni potrebbe essere, secondo la scienza, associato ad un maggior pericolo di sviluppare demenza.
Sia chiaro: si parla solamente di rischi più elevati che sarebbe meglio contrastare.

https://quifinanza.it/salute/alzheimer-gene-protettivo-scoperta/811500/

sabato 8 agosto 2020

La scienza è disumana ma soffre d’Alzheimer. - Massimo Fini

FameLab: a Trieste, sfida a colpi di scienza con il talent show ...
La Scienza, che tempo fa definimmo “più pericolosa dell’Isis”, ma oggi potremmo anche dire del Covid-19, continua imperterrita, senza che nessuno possa e tantomeno voglia disturbarla, nella sua marcia trionfale verso la propria demenza senile.
Secondo uno studio di un gruppo di giovani ricercatori dell’Università di Bologna, premiati dal ministero della Salute, attraverso “la stimolazione magnetica transcranica (Tms)” si potrebbero rimuovere i ricordi spiacevoli, dolorosi, tormentosi, traumatici e la paura che ne è conseguita. Siamo in linea con la tendenza tutta moderna a eliminare dall’essere umano tutto ciò che è umano, per omologarlo a un normotipo astratto, “politicamente corretto”, diciamo così, dal punto di vista fisico, psichico, emotivo (la legge Mancino, oggi rafforzata dalla subnorma antiomofobia, ha già messo le manette all’odio che è un sentimento e, come tale, non può essere abolito per legge).
Non pensavamo però che i ricercatori di Bologna non capissero quello che anche la casalinga di Voghera sa. Noi non siamo fatti solo di ciò che abbiamo vissuto, ma anche del suo ricordo. Si chiama esperienza. E il dolore, la paura e i ricordi, buoni o cattivi che siano, fanno parte di ogni esperienza umana. Facciamo un esempio molto semplice. Un bambino avvicinandosi troppo a un fornello del gas o al fuoco che crepita allegramente in un camino ci mette la sua candida manina, si scotta e prova dolore. È chiaro che da lì in poi si guarderà bene dal ripetere quella brutta esperienza. E questo vale per ogni aspetto del vivere umano. Soprattutto la paura (e quindi il suo ricordo) è una componente essenziale della specie umana ma anche di animali di livello superiore (se un topo, attirato da un formaggio, resta secco in una trappola, i suoi compagni vedendo un appetitoso cacio lo avvicineranno con giudiziosa prudenza).
Se siamo sopravvissuti a tutto è proprio perché la specie umana è una delle più paurose del Creato. Se continueremo sulla linea dei giovani ricercatori di Bologna, tentando di rimuovere i ricordi, la paura e soprattutto la memoria sulla cui importanza fondamentale sono state scritte intere enciclopedie da parte di studiosi un po’ più accreditati (L’arte della memoria, Frances A. Yates, per tutti), finiremo in trappola. Sopravviveranno solo i topi.
Ma siccome gli scienziati, giovani o meno, sono inesausti, adesso abbiamo l’ultimo grido della medicina preventiva o, per meglio dire, del terrorismo diagnostico. La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association ci informa che con un particolare test del sangue focalizzato sulla proteina Tau saremo presto in grado di prevedere l’insorgere dell’Alzheimer in una persona con vent’anni d’anticipo. Ma a che ci serve se contemporaneamente non ci sono, né si prevedono, cure per l’Alzheimer? A far vivere da malato un uomo sano con vent’anni d’anticipo.
La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association stima anche che entro il 2050 i malati di Alzheimer saliranno dai 30 milioni attuali a 100 milioni. Su questo sarebbe interessante indagare, sulle cause, evidentemente ambientali e sociali, cioè sull’attuale modello di sviluppo (perché nelle Isole Andamane non c’è nessun aumento di Alzheimer, anzi l’Alzheimer non esiste proprio) a cui si deve il formidabile incremento di questa malattia. Ma di ciò gli scienziati non si occupano. Sono già malati di Alzheimer, sia pur in incubazione.

martedì 26 novembre 2019

Alzheimer, scoperta molecola che blocca la malattia.

In rosso la microglia e in verde le placche di amiloide in un cervello con Alzheimer (fonte: Kim Green Lab/UCI) © Ansa
In rosso la microglia e in verde le placche di amiloide in un cervello con Alzheimer (fonte: Kim Green Lab/UCI)

Fondazione Montalcini, 'ringiovanisce' il cervello. Studio su topi.

Scoperta dai ricercatori della Fondazione EBRI 'Rita Levi-Montalcini' una molecola che 'ringiovanisce' il cervello bloccando l'Alzheimer nella prima fase: è l'anticorpo A13, che ringiovanisce appunto il cervello favorendo la nascita di nuovi neuroni e contrastando così i difetti che accompagnano le fasi precoci della malattia. Lo studio, italiano, è stato effettuato su topi che, così trattati, hanno ripreso a produrre neuroni ad un livello quasi normale. Una strategia, secondo i ricercatori, che apre nuove possibilità di diagnosi e cura.
Lo studio interamente italiano, è coordinato da Antonino Cattaneo, Giovanni Meli e Raffaella Scardigli, presso la Fondazione EBRI (European Brain Research Institute) Rita Levi-Montalcini, in collaborazione con il CNR, la Scuola Normale Superiore e il Dipartimento di Biologia dell'Università di Roma Tre. E' stato pubblicato sulla rivista Cell Death and Differentiation.

venerdì 1 novembre 2019

Alzheimer, farmaco fa scomparire placche al cervello in un anno.


Research for new treatment of Alzheimer disease [ARCHIVE MATERIAL 20110831 ]

Studio preliminare ma 'incoraggiante',rallenta declino cognitivo.


Un farmaco, nei test preliminari sull'uomo, ha mostrato la capacità di diminuire la quantità di placche amiloidi, l'accumulo di proteine nel cervello che è considerata la causa dell'Alzheimer. Lo afferma uno studio pubblicato sulla rivista Nature, secondo cui ci sarebbero nei pazienti anche segni di rallentamento del declino cognitivo.

Il farmaco aducanumab, un anticorpo monoclonale che 'insegna' al sistema immunitario a riconoscere le placche, è stato testato su un gruppo di 165 persone con Alzheimer moderato, metà delle quali ha ricevuto una infusione settimanale, mentre gli altri hanno avuto un placebo. Chi ha ricevuto il principio attivo ha mostrato una progressiva riduzione delle placche, spiegano gli autori. "Dopo un anno - sottolinea Roger Nitsch dell'università di Zurigo, che definisce i risultati 'incoraggianti' - le placche sono quasi completamente scomparse".

giovedì 3 aprile 2014

Identificati i neuroni che codificano i ricordi.

Identificati i neuroni che codificano i ricordi

I ricercatori hanno esaminato i dopaminergici, una sottoclasse che risponde a un messaggero di segnalazione cellulare noto come cAMP (adenosina monofosfato ciclico), vitale per molti processi biologici.

WASHINGTON - Un nuovo studio dello Scripps Research Institute ha individuato il gruppo ristretto di neuroni coinvolti nella formazione della memoria. "Abbiamo scoperto che mentre sono tantissimi i neuroni che rispondono agli stimoli sensoriali", ha spiegato Seth Tomchik, biologo che ha condotto la ricerca, "solo una determinata sottoclasse di neuroni si occupa effettivamente delle codifiche della memoria". I ricercatori hanno esaminato una tipologia di neuroni chiamati neuroni dopaminergici. 

L'indagine ha scoperto che i neuroni che codificano i ricordi rispondono a un messaggero di segnalazione cellulare noto come cAMP (adenosina monofosfato ciclico), vitale per molti processi biologici. La cAMP è coinvolta in numerose patologie della mente, come il disturbo bipolare e la schizofrenia, e la sua disregolazione potrebbe essere alla base di alcuni sintomi cognitivi del morbo di Alzheimer e della neurofibromatosi di tipo 1.

La sottoclasse di neuroni è apparsa particolarmente sensibile ad elevate quantità di cAMP in una specifica regione del cervello, un lobo con una area nota come corpo fungiforme. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista 'Current Biology'.

http://www.repubblica.it/scienze/2014/03/29/news/ricordi_neuroni-82215754/?ref=fbpr

sabato 20 aprile 2013

Vaccini, Oms: “Senza 1,5 milioni di bimbi morti”. Il pediatra: “Pura propaganda”. - Davide Patitucci


Vaccini, Oms: “Senza 1,5 milioni di bimbi morti”. Il pediatra: “Pura propaganda”


Settimana europea dell'immunizzazione. Eugenio Serravalle, medico e autore di libri: “Queste iniziative rischiano ormai di diventare un aspetto della mercificazione della salute. Così non si fa che aumentare la percezione di malattia nella gente sana. Concentrare la ricerca sull'immunità naturale”.

“Prevenire, proteggere, immunizzare”. Queste le parole d’ordine dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) in occasione della Settimana europea dell’immunizzazione, giunta all’ottava edizione, che si celebra dal 22 al 27 aprile in contemporanea in diversi Paesi. “Lo scopo – si legge sul sito della sezione europea dell’Oms – è aumentare la copertura delle vaccinazioni, sottolineando l’importanza dell’immunizzazione di ogni bambino per prevenire le malattie e proteggerne la vita”. Caustico il commento di Eugenio Serravalle, pediatra e autore di libri molto critici sul tema dei vaccini, come “Bambini super-vaccinati” e “Tutto quello che occorre sapere prima di vaccinare il proprio bambino”: “Queste iniziative rischiano ormai di diventare un aspetto della mercificazione della salute. Un esempio di propaganda, che non fa che aumentare la percezione di malattia nella gente sana”. 
I dati dell’Oms: “Quasi il 40% delle morti infantili è dovuto al morbillo”. Ogni anno, secondo le stime dell’Oms, nel mondo muoiono un milione e mezzo di bambini per cause prevenibili con una semplice vaccinazione. E, solo in Europa, quasi 700 mila persone non hanno accesso alle immunizzazioni di base, che invece salvano annualmente almeno tre milioni d’individui. Quasi il 40 per cento delle morti infantili prevenibili nel mondo, afferma il sito dell’agenzia, è dovuto al morbillo, seguito tra le cause dall’Haemophilus influentiae (27 per cento), dalla pertosse (20 per cento) e dal tetano neonatale. Proprio il morbillo, che doveva essere eradicato nel 2015 dall’Europa, sta invece tornando in auge, secondo l’Oms proprio a causa di un rallentamento sul fronte delle vaccinazioni. Se tra il 1997 e il 2009, infatti, i casi si sono ridotti del 96,5 per cento, tra il 2009 e il 2011 sono invece risaliti del 455 per cento, tornando da 7 a 37 mila.
Il pediatra Serravalle: “No al marketing, sì a studio indipendente su efficacia”. “I dati che abbiamo in possesso non bastano a cancellare i dubbi su efficacia e sicurezza dei vaccini – puntualizza Serravalle -. Le vaccinazioni sono un argomento spinoso perché non parliamo di farmaci che si utilizzano in presenza di patologie, ma che si danno a bambini sani. In trent’anni di esperienza in pediatria ho potuto constatare che i vaccini non sono affatto sicuri come si pensa, ma possono provocare reazioni avverse, come shock anafilattico, allergie, malattie autoimmuni ed effetti neurologici. Nella scienza c’è bisogno di più ricerca e meno propaganda – aggiunge Serravalle -. Per avere maggiore certezza sui rischi della vaccinazione pediatrica, i cui effetti dannosi sono largamente sottostimati perché basati al momento su segnalazioni spontanee dei medici, occorrerebbe effettuare uno studio indipendente, mai compiuto finora. Un’analisi comparativa, mettendo a confronto due gruppi di almeno 10 mila bambini, uno vaccinato e l’altro no, per un tempo non inferiore a dieci anni. Intanto, – suggerisce il pediatra italiano – si potrebbe ricorrere a strategie più immediate e meno dispendiose economicamente. Basterebbe, infatti, che le stesse famiglie appuntassero su appositi registri gli effetti delle vaccinazioni sui bambini nei giorni successivi alle iniezioni, segnalandole alle autorità sanitarie competenti”. 
Ma cosa dovrebbero sapere in concreto le famiglie prima di scegliere se vaccinare o meno i propri figli? “Si deve decidere caso per caso, tenendo conto che nessun vaccino assicura una copertura del 100 per cento e, soprattutto, che duri per l’intera esistenza – risponde Serravalle - Non bisogna, infatti, confondere immunizzazione con vaccinazione: si tratta di due concetti diversi. Come dimostra il fatto che alcune epidemie, per esempio quella di morbillo citata nelle statistiche dell’Oms, si diffondono anche all’interno di popolazioni vaccinate al 95 per cento. Non conosciamo ancora bene i meccanismi molecolari di difesa dell’organismo – precisa Serravalle -. Ciononostante, invece di concentrare gli sforzi della ricerca sulle cause dell’immunità naturale, tendiamo a sostituirla con quella artificiale data dai vaccini, di cui si cercano sempre nuove tipologie”. 
Nel mondo sono molti i vaccini in corso di sperimentazione. Dall’Alzheimer ai tumori, passando per il diabete, sono infatti moltissimi i vaccini in corso di sperimentazione nel mondo. Ne sono un esempio quelli contro diversi agenti patogeni che provocano tumori, come i virus dell’epatite C o nuovi ceppi di papilloma virus. Ma anche contro l’Helicobacter pilori, un batterio legato ad alcuni tumori dello stomaco, o l’infezione da Stafilococco aureo resistente alla meticillina (Mrsa), un microrganismo che solo negli Usa fa più vittime delle armi da fuoco.
“L’Oms dovrebbe utilizzare iniziative come la Settimana europea dell’immunizzazione non a scopo di marketing, ma per migliorare tra le famiglie la diffusione d’informazioni sulle possibili reazioni avverse dei vaccini, nuovi e vecchi – esorta Serravalle -. Per esempio, sui rischi dell’uso di adiuvanti, molecole adoperate per aumentarne l’efficacia, che possono contenere sostanze neurotossiche, come il mercurio o l’alluminio. Tutti i genitori italiani, del resto, dovrebbero essere informati – e in questo caso iniziative come quella dell’Oms andrebbero sfruttate meglio – sull’esistenza di una legge che riconosce il danno vaccinale (vedi il pdf). Segno evidente che i vaccini possono anche provocare problemi alla salute”.