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mercoledì 9 marzo 2022

Tra pantano afghano e seconda guerra fredda, esiste via d’uscita dalla guerra di Putin? - Ugo Tramballi

 

La sera del 14 ottobre 1964, il Presidium del Comitato Centrale guidato da Leonid Breznev, accettò con voto unanime la richiesta “volontaria” di dimissioni di Nikita Khrushchev. L’inaspettato ritiro, spiegava il comunicato del Presidium, era dovuto «all’età avanzata e alla cattiva salute» del leader sovietico. Breznev prendeva il suo posto da segretario del partito e leader dell’Unione Sovietica; primo ministro diventava il suo braccio destro Alexey Kosygin.

Un paio di giorni prima Khrushchev era stato fermato all’aeroporto moscovita di Vnukovo, al suo arrivo da Pitzunda, sul Mar Nero, dove era stato in vacanza. A Vladimir Semichastny, il capo del Kgb che lui aveva nominato, non aveva opposto resistenza. Non ci furono processi pubblici, plotoni d’esecuzione né purghe nel paese, come era nella tradizione. Non fu neanche un golpe: al leader i vertici del partito rimproveravano la mancanza di collegialità nelle scelte politiche e il comportamento eccessivamente enfatico che contrastava con il grigio e lacustre understatement di regime dopo il lungo grand guignol stalinista.

A Khrushchev furono concessi una dacia fuori Mosca, una pensione di 500 rubli e un’auto. Alla sua morte, sette anni più tardi, non fu celebrato un funerale di stato né gli fu dato un posto sotto le mura del Cremlino, alle spalle del mausoleo di Lenin. Il vecchio statista fu però sepolto al cimitero di Novodevichy, accanto a Gogol, Chekhov e Bulgakov.

Tutto cambia perché nulla cambi.

Sul piano internazionale non cambiò nulla. La Guerra Fredda proseguì senza ulteriori crisi come quella dei missili di Cuba del 1962. Ci furono guerre in Africa, Medio Oriente e Asia. Ma in Europa il confronto Est-Ovest si stabilizzò fino a diventare una garanzia di pace per il continente. Nel 1976 a Helsinki furono firmati accordi fondamentali per la sicurezza e la cooperazione, capaci di resistere alla fine della Guerra Fredda ma non all’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina, 22 anni più tardi.

Nessuna crepa sulle mura del Cremlino.

La storia si può ripetere? La defenestrazione di Khrushchev potrebbe essere un buon esempio per risolvere la guerra in Ucraina, la strada perché la Russia, l’Europa e il mondo si liberino di Putin? Segni coraggiosi nella società russa ce ne sono ma, per ora, niente crepe sulle mura del Cremlino. Tuttavia una dittatura è granitica fino a che all’improvviso scopriamo che non lo era.

Supponiamo – solo supponiamo - che fra tre giorni o un mese, sia questa la soluzione della guerra in Ucraina. Il conflitto continua senza una fine visibile, la resistenza degli ucraini si fa sempre più intensa. Intanto le forze armate russe si dissanguano. Il fronte interno è reso sempre più complicato e insostenibile dalle durissime sanzioni internazionali; la Cina offre a Putin una mediazione, non una sponda.

Un Afghanistan in Europa?

Diventa sempre più evidente che per il presidente e l’intero paese non ci siano vie d’uscita vincenti ma lo spettro di un gigantesco massacro o di un altro Afghanistan, questa volta europeo. Politici, ex commilitoni del Kgb, generali, oligarchi, direttori di giornali devono a Putin tutto il potere che hanno. Ma ora è a causa di Putin che possono perderlo. La fedeltà ha sempre dei limiti e anche chi la conserva per patriottismo deve riconoscere che oltre al loro potere è anche la Russia che sta affondando, circondata da un mondo ostile e, nel migliore dei casi, astenuto.

Questo è ovviamente un wishful thinking, un pio desiderio. Ma sembra impossibile che Putin possa vincere come aveva pianificato. Quindi andiamo avanti con l’immaginazione. Resa dei conti stalinista o una dacia dove passare i suoi giorni, Putin finalmente cade. Avremo un mondo migliore?

Cosa cambierebbe.

Forse si ma non così tanto. Mezzo millennio di autocrazia zarista, 70 anni di comunismo e 22 di Vladimir Putin - ininterrotti salvo la pausa della caotica e cleptocratica democrazia eltsiniana negli anni ’90 - non possono d’improvviso generare un Thomas Jefferson. Al potere ci saranno ancora gli ex capi del Kgb di Leningrado che avevano scalato il potere con Putin, gli oligarchi e i generali non compromessi dalla brutta figura in Ucraina. Non è esclusa la sopravvivenza del ministro degli Esteri Sergei Lavrov: «uno squalo vestito Armani», lo aveva definito qualche anno fa una giornalista americana.

Un possibile futuro.

Chiunque governerà, sarà più cauto, userà l’arma della diplomazia, dovrà riconquistare un’Europa ostile e un’America di Biden convinta di aver vinto una partita fondamentale per la sua rielezione presidenziale. Ma saranno sempre nazionalisti permalosi, convinti che la Russia abbia di natura un ruolo da grande potenza. Paradossalmente europei e americani dovranno faticare e forse minacciare per convincere l’Ucraina a dare la Crimea per persa e concedere l’autonomia a Donbas e Lugansk. Un’Ucraina come la Finlandia, neutrale ma democratica, europea e fuori dalla sfera russa, sarà la soluzione migliore.

La Seconda Guerra Fredda.

Così potrà iniziare la Seconda Guerra Fredda. Qualche giorno fa Martin Wolf sul Financial Times scriveva che siamo già «in un nuovo conflitto ideologico, non uno fra comunisti e capitalisti ma fra tirannie irredentiste e democrazie liberali. In molti sensi questo sarà più pericoloso della Guerra Fredda» originale.

Sarà più complicata della prima perché i protagonisti non saranno solo due, come nella prima. C’è evidentemente la Cina che col passare degli anni sarà sempre più ambiziosa della Russia e, rispetto a quest’ultima, lo sarà a ragion veduta. E come inaspettata eredità del conflitto ucraino, ci sarà un’Europa sempre più assertiva, ricca e armata. I litigi a Bruxelles riprenderanno ma la scoperta dei vantaggi offerti da un’Unione credibile e forte, dovrebbe contenerli in un accettabile confronto democratico.

Le scelte dell’Europa.

A renderci più compatti in un mondo più competitivo, sarà la certezza di non poter dare per certa come un tempo una forte e affidabile presenza degli Stati Uniti. Se Donald Trump avesse vinto un secondo mandato presidenziale, il suo amico Putin avrebbe normalizzato l’Ucraina in una settimana. Ma se non l’ex presidente, un altro repubblicano trumpista, politicamente più abile e pericoloso dell’originale, potrebbe essere alla Casa Bianca nel 2024. Nella Seconda Guerra Fredda mantenere lo spirito di unità e collaborazione di queste settimane, per l’Europa non sarà una scelta ma una necessità.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/tra-pantano-afghano-e-seconda-guerra-fredda-esiste-via-d-uscita-guerra-putin-AEdoQXIB?s=hpf

giovedì 1 aprile 2021

Un Maccartismo disastroso. Usa e EU hanno perso la ragione?. - Fabio Massimo Parenti

 

La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. (Karl Marx)

di Fabio Massimo Parenti – Se molti pensavano che il duo Trump-Pompeo fosse pericoloso, che dire di Biden-Blinken? Invece di costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale – soprattutto considerando che stiamo vivendo un periodo di molteplici crisi globali – Biden-Blinken identificano nemici – con toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina – attribuendo responsabilità sempre e solo agli “altri” e restituendo, nei primi mesi di presidenza, un’immagine sempre più autoreferenziale delle autorità del paese. Gli Usa continuano a puntare il dito all’estero, pensando di poter dettare le condizioni al resto del mondo in nome di un “suprematismo valoriale” che mette in pericolo l’umanità. Rispondendo a Blinken, che aveva affermato di parlare da una posizione di forza, Yang Jiechi, membro dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale e Direttore dell’ufficio per gli affari esteri, ha ribattuto dicendo che “gli Usa non sono qualificati per parlare alla Cina da una posizione di forza”.

Colpire lo Xinjiang per colpire la BRI.

Ad Anchorage ed a Bruxelles il nuovo duo (anzi trio se aggiungiamo il consigliere Jake Sullivan) ha ribadito il mantra sulla violazione dei “diritti umani” per giustificare pacchetti sanzionatori in giro per il mondo, come per esempio quelli allo Xinjiang cinese. Legittimo e normale dovrebbe essere chiedersi quali siano le prove di tali accuse. Ebbene, si tratta di rapporti di ONG basati su informazioni e speculazioni non verificabili. Quali sono queste ONG o reti di…? CHRN e WUC, entrambe con sede a Washington e finanziate dal Congresso Usa (tramite la NED). Tristemente, l’UE ha seguito gli Stati Uniti, irrazionalmente e contro i propri interessi economici. Se poi aggiungiamo che queste accuse provengono da un paese che vede erodere costantemente lo stato dei diritti umani al proprio interno (il rapporto dell’Ufficio dell’Informazione del Consiglio di Stato cinese, elaborato su fonti ufficiali, è scaricabile a questo link), con 41500 persone uccise in “shooting incidents” nel 2020 – una media di più di 110 al giorno – 592 “mass shootings” – in media 1,6 al giorno – crescenti discriminazioni razziali e continui abusi letali da parte degli agenti di polizia, la credibilità degli accusatori è quanto meno imbarazzante. Anche questo è stato sinceramente, ed educatamente, ricordato ad Anchorage. Si potrebbe continuare a lungo, ma ci fermiamo qui. Peraltro, non solo le succitate accuse sullo Xinjiang si basano su “fonti” inaffidabili e “dati” inverificabili (per alcune ricostruzioni indipendenti, si ascolti ad esempio Daniel Dumbrill o si legga l’articolo di Ajit Singh), ma le stesse ragioni, quand’anche fossero mai provate, non coinciderebbero con quelle reali, che riguardano invece la volontà di bloccare lo sviluppo della Cina e la sua rinnovata influenza internazionale: è noto, infatti, che ben tre corridoi terrestri della BRI hanno origine in Xinjiang, quello Kashgar-Gwadar (il corridoio economico sino-pakistano) e i due che si separano in Kazakhistan (il corridoio eurasiatico e quello centro-asiatico occidentale). Per chi avesse dei dubbi suggeriamo di visionare questo discorso di Lawrence Wilkerson, capo di Stato maggiore dell’ex Segretario di Stato Colin Powell, tenuto nel 2018 al Raul Paul Institute mentre spiega (dal minuto 19) le ragioni della presenza militare statunitense in Afghanistan, tra cui la destabilizzazione dello Xinjiang per colpire la BRI (ricordando anche l’ampio uso degli Uiguri in Siria). Sappiamo bene, soprattutto noi italiani, quante pressioni gli Usa abbiano esercitato fino ad oggi sull’Europa in funzione anti-BRI. In questo caso le esercitano direttamente interferendo all’interno della Cina, andando all’origine del più grande progetto di investimenti della storia dell’umanità.

In ultimo, è doveroso ricordare che negli ultimi anni un’ampia maggioranza di stati ha espresso ufficialmente, al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, il proprio sostegno alle politiche adottate nello Xinjiang, tra cui molti paesi musulmani, mettendo in minoranza i documenti di denuncia a firma US-UK.

Non abbiamo bisogno di una nuova guerra fredda.

Invece di definire un piano per la cooperazione sanitaria, invece di spiegare come vogliono risolvere i loro problemi domestici (maggiore disuguaglianza di reddito, povertà, conflitti razziali ecc.), ci troviamo a dover assistere alle sceneggiate di “cercatori di tempesta” e “seminatori di odio”. Basti ricordare che pochi giorni fa, coerentemente col quadro sopra descritto, il generale McConville, per fare un altro esempio emblematico, ha dichiarato alla George Washington School of Media and Public Affairs che l’esercito americano sta preparando l’installazione di nuovi missili ipersonici in Europa e nel Pacifico. Dovremmo congratularci, accettare o denunciare?

Sarà in grado l’UE di fornire un suggerimento autonomo per rafforzare la cooperazione internazionale, anziché continuare a giocare un gioco di divisione come richiesto dagli Stati Uniti e i suoi pochi sodali? Sembra proprio di no. Durante le ultime visite di Blinken-Biden in Europa, le autorità statunitensi hanno richiamato alle presunte minacce di Russia e Cina, facendo pressione contro il completamento del North Stream2, etichettato come “cattiva idea”, e chiedendo all’Italia di ritirarsi dalla BRI. Per di più c’è anche qualcun altro che chiede la sospensione del CAI. È come se chiedessimo più crisi socioeconomiche e finanziarie…

Anche negli Stati Uniti e in UK molti credono che il primo approccio di politica estera di Biden sia obsoleto e sciocco. In un articolo sul settimanale britannico The Spectator, scritto da Roger Kimball, l’autore ha chiesto: “Qualche presidente degli Stati Uniti ha mai avuto un capitolo di apertura così disastroso sulla scena mondiale? Nessuno che io possa ricordare”. In un episodio dello show satirico The Real TimeBill Maher denuncia le sciocche guerre culturali che colpiscono l’America, confrontando i successi economici di un paese in via di sviluppo, la Cina, con un paese pigro e in stagnazione, gli Stati Uniti. In modo satirico, dicendo alcune verità. Quando la realtà materiale cambia – cambiamento globale nelle relazioni di potere – essa viene fuori e non si cura della propaganda degli ex-dominatori.

Al di là della complessità geopolitica ed economica delle relazioni internazionali, anche un bambino comprenderebbe l’irrazionalità dell’attuale approccio USA-UE verso la Cina, finalizzato ad aprire una nuova stagione di guerra fredda. Non basta la pandemia? Come potrebbero le persone accettare una tale divisione ideologica e imperialistica del mondo in un periodo di pandemia, emergenza sanitaria globale, emergenza ambientale, ecc. Come potrebbero le persone accettare di combattere una guerra globale, invece di lavorare al fine di giungere a compromessi e nuovi accordi in grado di contrastare le crisi socio-economiche in atto? Una semplice previsione? Gli Stati Uniti e l’UE saranno sempre più isolati…

La (buona) diplomazia dei vaccini e il suo contrario

Da una parte abbiamo un paese, la Cina, che si vaccina senza fretta perché l’epidemia è sotto controllo (grazie a uno dei più avanzati sistemi di diagnosi e tracciamento). Nel frattempo, lo stesso paese sta producendo e distribuendo dosi di vaccini a più di 70 paesi, soprattutto in via di sviluppo e meno sviluppati, attraverso una combinazione di donazioni, contratti standard, prestiti di sostegno ecc., fornendo anche la licenza per riprodurre i propri vaccini, secondo il principio del vaccino “bene comune” e della solidarietà internazionale. Diplomazia dei vaccini? Obiettivi politici? Si tratta semplicemente di buona politica (eventualmente, di buona diplomazia dei vaccini), in quanto volta al soddisfacimento di bisogni reali innegabili. D’altra parte, abbiamo un paese, gli Stati Uniti, che sta vaccinando solo la propria popolazione, bloccando le esportazioni e la liberalizzazione delle licenze presso l’OMC, anche qui con l’appoggio dell’UE. Quindi: nessuna solidarietà, nessuna cooperazione internazionale, nessuna azione globale proprio quando più ce ne sarebbe bisogno. Peggio: quest’ultimo paese si è impegnato in un confronto internazionale con il primo, alimentando il razzismo in patria e la divisione all’estero. Se questo è un modo di agire democratico ed ispirato ai più alti valori umani, direi che siamo messi molto male.

Invitare le autorità cinesi e trattarle come colpevoli dei problemi del mondo è semplicemente un atto di ostilità inaccettabile, tanto più quando basato su ricostruzioni fantasiose. Arrivare in Europa e rilanciare una strategia da guerra fredda, giudicare il North Stream2 come un brutto progetto (solo perché rafforza i legami tra paesi sulla base di bisogni reciproci) o chiedere all’Italia di uscire dalla BRI è semplicemente un atteggiamento da bulli. Chi minaccia chi? Chi rappresenta una minaccia per la sicurezza mondiale? Usa ed Ue hanno perso la ragione? Oppure non riescono ad affrancarsi dalla sindrome imperialista dei conquistatori-dominatori?

Gli Usa sono i benvenuti nella costruzione di un destino condiviso e di una cooperazione tra pari finalizzata a creare beni comuni e risolvere problemi comuni. Si parta dal prendere atto che il mondo è già cambiato e non accetta più i diktat di Washington (o di qualsiasi altro egemone) che insieme a pochi sodali suole autodefinirsi “comunità internazionale”. È l’era della multipolarità e del futuro condiviso. Nessun paese dovrà agire come se fosse superiore ad un altro. Questo è progresso, il resto è sclerosi.

IlblogdiBeppeGrillo

giovedì 1 ottobre 2015

E se il “dieselgate” fosse l’anticamera del post-Maya? - Sergio Di Cori Modigliani


Oggi, 30 Settembre, le borse guadagnano e, questa sera, i telegiornali ci spiegheranno che è ritornato l’ottimismo, la crisi Volkswagen è ormai stata assorbita e il presente è sereno e positivo. 
Quantomeno, in Italia. Nel senso che i nostri oligarchi hanno sostituito la psicologia alla buona gestione dell’economia e della politica e sono convinti -almeno questo è ciò che vogliono far credere- che i problemi dell’Italia sono “essenzialmente di natura psicologica e non sono strutturali; il nostro è un paese molto ricco ed è una nazione di risparmiatori paurosi. 
In Italia i cittadini non spendono perché hanno paura, ma i soldi ci sono. Basta educarli al consumo: è quello che stiamo facendo“, così il nostro caro leader presentava la situazione della nostra nazione nel più importante incontro politico internazionale della sua agenda newyorchese: l’incontro nella sede della Black Rock (il più importante fondo di speculazione finanziaria del mondo, presente in Italia da protagonista) con una decina di grossi investitori, e alla presenza dei dieci più importanti e agguerriti giornalisti economici del pianeta. Si trattava di un incontro fondamentale, perché lì, in quanto premier, dotato di delega a rappresentare la nazione, doveva riuscire a conquistare la fiducia -e quindi massicci investimenti- di potenti mega miliardari che davvero contano.  
Il risultato è stato una totale catastrofe. L’esito di questo meeting è stato talmente raccapricciante che il sottoscritto (nel senso patriottico, cioè uno che tifa per l’Italia) si è trovato nella situazione di provare rispettosa nostalgia per Mario Monti. Se non altro, dopo i suoi tre viaggi ufficiali in Usa, era riuscito a ottenere risultati tangibili, visto che nei successivi quaranta giorni erano arrivati complessivamente circa 200 miliardi di dollari che sono stati investiti in bpt nazionali, salvando il paese dalla bancarotta verso la quale ci stavano portando allegramente, con irresponsabile cipiglio i vari Berlusconi, Tremonti, Maroni, Casini, Bossi, Meloni, Bersani, Cicchitto, Alfano, Weltroni, Napolitano, e allegra compagnia danzante. Diamo a Cesare ciò che è di Cesare. Va da sè che stanno ancora tutti lì, tranne Monti che è stato spedito a casa. Ennesimo paradosso italiano.
Neanche a dirlo, in Italia, le riprese televisive di questo meeting (diffuso in tutto il continente americano dall’emittente Bloomberg, ma di sicuro visto anche in Europa dai nostri partner continentali) non sono state nè diffuse, nè adeguatamente relazionate, commentate, documentate. La cupola mediatica, ahinoi, funziona così. In quell’occasione, appunto, mentre venivano rivolte al caro leader diverse domande di economia (semplici, dirette, chiare) lui rispondeva con la psicologia, pensando di avere a che fare con la consueta pattuglia di impiegati dell’informazione, deferenti e servili, sonnacchiosi e complici, cui lui è abituato, nella sua miope ottica provinciale. Spiegando perchè era vantaggioso investire in Italia, il caro leader ha sentenziato: “L’Italia è un paese sano ed economicamente molto forte, in grande espansione. La ripresa è talmente dirompente che posso tranquillamente prevedere che entro la decade, l’Italia, sarà il faro e il vero leader dell’Europa. Saremo più forti della Germania“. A quel punto, prima del parapiglia dei professionisti increduli, sarebbe bastato aggiungere un “mi piacerebbe, magari fosse così” o qualcosa del genere. Pressato, invece, ha confermato. Forse nessuno ha spiegato al caro leader che il nostro pil è pari a circa 1.870 miliardi di dollari l’anno, mentre quello della Germania è di 3.560. Per battere la Germania, quindi, l’Italia dovrebbe -entro la fine di quest’anno- riuscire ad aumentare del 12% il proprio pil, magari assumendo circa un milione di persone a tempo indeterminato. Non solo. Nei successivi cinque anni, dovrebbe aumentare del 20% annuo mentre la Germania cessa di produrre e rimane ferma. Un’ipotesi nè realistica nè probabile, neppure immaginabile a livello di fantasia teorica. Non arriverà, temo, nessun investimento, è bene saperlo.
Tutt’altra cosa per la Germania. Ed è il tema del post del giorno. Vediamo di capire che cosa bolle in pentola. Prima parliamo un po’ di cifre nude e crude, è essenziale per comprendere il nuovo teatro.
Circa tre mesi fa, Herr Martin Winterkorn, allora amministratore delegato della Volkswagen, apriva un convegno della confindustria tedesca in Bassa Sassonia. In quell’occasione (eravamo al 30 Giugno) il manager annunciava con comprensibile euforia che i nuovi dati numerici indicavano la Volkswagen, per la prima volta, come leader nel pianeta, autentico locomotore della grande industria tedesca. In quel momento, mentre lui parlava, il titolo alla borsa di Francoforte valeva 232 euro. In quell’occasione, parlarono anche i responsabili dei fortissimi sindacati che annunciarono di aver chiuso poche ore prima un accordo aziendale: nel nome della “gestione sociale comune” (loro la chiamano così), il management aveva deciso di attribuire al personale, la prima settimana di Dicembre, una super tredicesima comprensiva di bonus, premio di produttività, regalia una tantum, sotto forma di azioni al portatore. Le previsioni dei cervelloni dell’azienda davano il titolo (a quella data) intorno ai 300/350 euro ad azione. Il numero di azioni era stato sancito a fine giugno, così si rischiava tutti insieme. Applausi, lacrime e orgoglio. In quell’occasione, Herr Winterkorn, ci aggiunse qualcosa di suo -eravamo al centro della tempesta Grexit e nel momento della satanizzazione di Yanis Varoufakis- spiegando che mai la Germania avrebbe accettato l’idea di pagare il prezzo di quei fannulloni truffatori dei greci. A conclusione del discorso, specificò (anche se non c’era alcun bisogno) che l’accordo sindacale era talmente forte che consentiva ai potenziali destinatari di farselo scontare in banca perchè la BCE aveva accettato come garanzia l’intera cartolizzazione dei derivati finanziari della Vokswagen, aprendo una linea di credito praticamente eterna. 
Due mesi dopo, l’euforia si era placata e i primi sintomi che qualcosa non stava funzionando giravano già in tutti gli ambienti economici planetari. Segnali arrivavano dagli Usa e dal Giappone che preannunciavano la contestazione poi esplosa. Ma il management scelse di far finta di niente. Dieci giorni fa scoppia il dieselgate, che trascina al ribasso il titolo in borsa, facendolo scendere a 122 euro il martedì 23 Settembre. Non riescono a fermarlo e così, il 29 Settembre, il titolo, alla borsa di Francoforte, viene quotato a 95 euro ad azione, ritornando alla situazione del 2005. La perdita di valore in borsa è di circa il 65%. Tenendo presente che l’indotto raggiunge circa 1.500.000 lavoratori in Germania, circa 4 milioni in Europa, di cui ben 300.000 addetti nella Repubblica Italiana, il dieselgate non è più (giustamente) considerato “uno scandalo” bensì “un evento di importanza strategica geo-politica per l’intera Europa” (la definizione è ufficiale ed è del governo tedesco). Direi del mondo.
L’impatto è molto forte. Angela Merkel si è mossa subito per tirar fuori il meglio della Germania. Ha imposto, con una telefonata, le immediate dimissioni di Herr Winterkorn, ottenendole subito. Hanno affidato alla Saatchi & Saatchi di Londra (la più importante agenzia planetaria nel campo della pubblicità, analisi di big data e di megatrend) una consulenza per avere ragguagli in merito. La prima risposta immediata è stato il suggerimento di togliere la pubblicità. Nella sola giornata di martedì scorso, infatti, sul web si toccava la punta di 100 milioni di scherzi, barzellette, improperi, con la satira e la creatività di tutti gli utenti scatenata nell’attaccare il marchio. Sono stati quindi annullati circa 12 milioni di contratti. Sparita la pubblicità Volkswagen. Rimane quella dell’Audi, Seat e Skoda ma soltanto in territori considerati minori, ovvero quelli in cui l’informazione è molto bassa e la gente ignora che siano della Volkswagen (l’Italia è tra questi). Il contraccolpo ha comportato un abbassamento del 9% in pubblicità che nei prossimi tre mesi provocherà un restringimento del pil europeo di uno 0,4% provocando allarme nella BCE e nel Fondo Monetario Internazionale. Da noi, tanto per fare un esempio, a farci subito le spese è stata Mediaset, che ha perso in una settimana circa il 10% del proprio valore per questo motivo. 
L’effetto domino ha cominciato a serpeggiare dovunque. Il secondo suggerimento londinese (conoscono la mentalità tedesca del loro cliente) attribuisce un valore di 287 punti -la cancellazione della pubblicità sono 234 punti- all’idea di mettere in galera Herr Winterkorn. L’idea è riuscita graditissima al governo Merkel, quelli sono tedeschi, mica italiani. Nel bene e nel male. Il governo teutonico, infatti, sta valutando l’ipotesi di presentarsi parte civile nella denuncia penale per truffa nei confronti dell’ex amministratore delegato che la maggioranza dei tedeschi ha già fatto sapere vorrebbero vedere portato via in manette. Rischia sei anni di galera. E si può anche tenere la sua miliardaria buona uscita, se la godranno i suoi familiari. I tedeschi sono fatti così. In Italia, alcuni giornalisti economici, interpellati da varie televisioni, hanno espresso il loro illuminante parere sul dieselgate, sostenendo che si tratta di far passare la buriana e in un paio di mesi sarà tutto risolto. Contemporaneamente, i giornalisti tedeschi sostengono che ci vorranno “almeno cinque anni, forse addirittura dieci”.  Il carico da undici l’ha messo giù il ministro delle finanze Schauble che qualche ora fa ha dichiarato: “Da oggi, la Germania non sarà più la stessa, non so neppure se la Volkswagen sarà in grado di riprendersi”.
Non vorrei stare nei panni di Herr Winterkorn.
Non è facile da comprendere per il pubblico italiano, il quale non è certo aiutato dai professionisti della cupola mediatica, che in questi giorni, a mio parere, stanno offrendo uno spettacolo indecoroso di mancanza di informazioni, spiegazioni, dettagli, connessioni.
L’attuale teatro, infatti, fa parte della vera guerra in corso, l’unica guerra in atto, il cui teatro è arduo da presentare agli italiani. Volgarmente, nonché sfacciatamente, i mammalucchi leghisti, fascisti, comunisti, mitomani e analfabeti vari, insistono nel sostenere che siamo “in clima di neo guerra fredda tra Usa e Russia”. Non credo che questo sia vero. Paese fazioso e acritico, l’Italia offre l’indecente spettacolo di commentatori che in questi giorni se la prendono con Obama e/o con Putin perché è il modo più facile per ottenere subito consensi. Roba per palati grossolani. Basterebbe un unico esempio per comprendere che non è così: poche ore fa (a Washington erano le 9 del mattino) Obama ha ricevuto il comandante in capo dell’aereonautica militare statunitense per un colloquio di mezz’ora. Insieme, hanno poi ricevuto l’ambasciatore russo a Washington, il ministro degli esteri Lavrov, e il comandante in capo dell’aereonautica militare russa, intrattenendosi in un colloquio formale. Dopodichè, i due generali -entrambi parlano sia l’inglese che il russo- sono stati accompagnati in un ufficio del Pentagono per gestire una riunione strategica zeppa di agenti della CIA e di agenti della FSB, i servizi americani e russi. Per fare che cosa? Per scambiarsi tutti i piani di volo militari delle due rispettive forze aeree. Ce lo hanno raccontato Obama e Putin, in un comunicato congiunto, spiegando che “in questo momento delicato, l’ultima cosa che vogliamo è quella di correre il rischio di un incidente casuale in aria tra i nostri velivoli militari e quindi abbiamo deciso di muoverci in maniera congiunta”.
Non è quella la vera guerra. Mi dispiace per i refusi e zombie della politica italiana che disperatamente tentano di rientrare dalla finestra fornendo opinioni che usano parametri obsoleti, di un tempo che fu. La guerra non è tra Usa e Russia, tra Usa e Cina, tra Europa e Cina, tra civiltà cattolica e mondo musulmano, tra Iran e Usa, tra Russia e Cina.
Io la vedo così: questa è la prima guerra post-moderna, quella in cui le classi sociali non esistono più ma il mondo si divide in due grandi categorie: produttori e consumatori. Ci sono nazioni che producono molto e nazioni che non producono nulla; ci sono nazioni che consumano ciò che producono e nazioni che consumano ciò che altri producono. 
Ciò che il dieselgate sta (forse) per scatenare -e io me lo auguro proprio- è la guerra vera tra le due parti in causa: i progressisti evolutivi in ogni parte del mondo, da una parte; i conservatori liberisti, dall’altra. Dopo 40 anni di martellante esercizio del potere da parte dei liberisti, oggi settembre 2015, grazie anche all’esistenza del web e quindi all’impossibilità di nascondere con facilità gli eventi reali, appare sempre chiaro a tutti che quell’esperienza è stata un disastro per la collettività planetaria. Nel frattempo però, in questi 40 anni, il pianeta è diventato più piccolo e la consapevolezza delle masse mondiali è aumentata molto. La guerra è tra due concezioni del mondo diverse, tra due parametri distinti. E in Europa (come ben detto da Yannis Varoufakis, l’unico a introdurre questa saggia argomentazione) la guerra è tra la Francia e la Germania. Grazie al dieselgate diventa molto ma molto più facile andare all’attacco di una Europa “troppo tedesca” e di una Germania “troppo poco europea”. 
Lo ha capito subito la Francia, che era la sua occasione d’oro, approfittando per prendere due piccioni, anzi tre, con una fava. 
1). Da sola, contravvenendo ogni dispositivo della giurisdizione internazionale, se ne è andata a bombardare l’Isis in Siria sostenendo ufficialmente “non possiamo perderci nelle pastoie della burocrazia europea che non decide mai nulla”; così facendo ha placato l’opposizione interna di destra: i sondaggi indicano un recupero di 8 punti per Hollande e una perdita di 12 punti di Marie Le Pen, costretta ad approvare la scelta di Monsieur Hollande. 
2). La Francia si presenta come interlocutore quindi ben più solido della Germania, in questo momento, per cambiare le carte dei destini europei vantando la sua egemonia contro “i crucchi truffaldini”. 
3). La Francia si auto-promuove a grande potenza internazionale, rilanciando l’Europa come parte dello scacchiere planetario, lanciando (hanno già fatto l’annuncio) un tavolo di negoziati da tenersi a Versailles dove  siederanno insieme Usa, Russia, Iran, Turchia, Arabia Saudita e Francia per decidere il destino della Siria. Da risolvere il dissidio attuale tra Obama e Putin. Obama pretende che a quella riunione (di fatto accettata e quindi la Francia sta già incassando dal dieselgate) siano presenti i quattro esponenti politici che rappresentano la vera opposizione musulmana ad Assad; Putin, invece, pretende che partecipi anche Assad che rimane presidente della Siria. Presumo che stiano cercando una soluzione.
Nel frattempo, sia Putin che Obama incassano successi per loro importanti. 
Putin fa dimenticare l’Ucraina e quindi dà la guazza ai suoi generali. 
Obama, dal canto suo, prende due piccioni con una fava grazie al dieselgate, non a caso esploso esattamente nella stessa giornata in cui, a Tokyo, i deputati in parlamento si picchiavano a pugni sotto gli occhi allibiti dell’imperatore e del pubblico nipponico. Dopo 70 anni, infatti, il Giappone riarma il proprio esercito. 
Per Obama è un’ottima notizia, che è riuscito a far digerire al congresso. Gli Usa hanno dato il via cancellando la clausola che lo impediva. Il che vuol dire che dal 1 Gennaio 2016, l’amministrazione americana risparmia 850 miliardi di dollari all’anno (questo è il costo per mantenere le forze armate nel Pacifico) perché ci penseranno i giapponesi. 
Così ha trovato i soldi per coprire i costi della sua riforma sanitaria e zittire i repubblicani. Contemporaneamente, l’amministrazione Usa sta valutando il rapporto della General Motors (non a caso se la voleva comprare subito quel furbone di Marchionne) che sta sulla sua scrivania: è pronta a dire addio al fossile come carburante degli autoveicoli e lanciare sul mercato americano vetture a batterie elettriche e a idrogeno. Perché parte dell’accordo militare con il Giappone presuppone il via all’ingresso nel mercato Usa della Toyota con suoi analoghi modelli, e quindi, per amor di patria, si sostiene la propria industria e si seduce l’opinione pubblica ambientalista. 
Gli orientali sono etnie pazienti, lungimiranti, capaci di avere visioni di lungo respiro. Dieci anni fa, per il ventesimo anno consecutivo, la Toyota era la prima azienda automobilistica del pianeta. Ci fu uno “scandalo”. Alcuni modelli vennero considerati difettosi e diverse persone morirono in incidenti stradali in Usa, causati da errori meccanici. Fu un disastro per i giapponesi, che cominciarono a perdere quote d mercato. La Toyota venne letteralmente massacrata dai tedeschi che lanciarono in Usa e in tutta l’Asia una campagna pubblicitaria per spiegare che i tedeschi erano più attendibili dei giapponesi, fino al trionfo del Giugno 2015, con il sorpasso agognato da parte della Volkswagen. E’ durato 50 giorni.
Perché i tempi, intanto, erano cambiati. Le circostanze sono diverse. Mentre i tedeschi (e gli italiani) hanno scelto di investire risorse sul diesel per rilanciare l’economia, i giapponesi e la General Motors hanno scelto il motore ecologico sostenibile. Hanno investito nel futuro. 
La Germania no. E meno che meno l’Italia. Tanto è vero che il caro leader -compiendo un errore marchiano- è andato a sponsorizzare Marchionne che riapre a Mirafiori, con annunci trionfalistici, nuove catene di produzione per il modello “maserati suv turbodiesel” nel segmento lusso. Roba da mitomani. Tra sei mesi, quel piano industriale si rivelerà un colossale fallimento, procurando all’Italia l’ennesima delusione, oltre che inevitabili perdite di quote di mercato.
Ciò che il dieselgate ci sta fornendo è la possibilità e l’opportunità potenziale di andare incontro alla guerra vera contro il liberismo, nel nome di un nuovo paradigma economico, socialmente, economicamente, esistenzialmente, politicamente sostenibile da ogni singola nazione, paese, popolo.
Altrimenti, non se ne esce. E lo sanno tutti.
In conclusione, vi allego un estratto di un articolo pubblicato ieri su Ilsole24ore a firma Andrea Malan. E’ un buon articolo, onesto, puntuale, redatto da un professionista che conosce il suo mestiere e sa di che cosa parla e di che cosa scrivere. Ci regala accurate informazioni vere.

Volkswagen, indagato l’ex ceo Winterkorn

……….La procura della Bassa Sassonia ha intanto avviato un’indagine penale sull’ormai ex numero uno Martin Winterkorn; l’accusa è di «frode nella vendita di auto con dati sulle emissione manipolati». La denuncia è stata presentata da una decina di persone fisiche; si aggiunge a quella che la stessa Vw ha presentato contro ignoti e a quella aperta negli Usa dal dipartimento della Giustizia. Secondo «Handelsblatt», anzi, il gruppo potrebbe rivalersi contro l’ex numero uno nel caso in cui fossero accertate sue responsabilità.
L’apertura dell’inchiesta tedesca su Winterkorn rende ancora più delicato il tema della liquidazione da 32 milioni di euro che il manager dovrebbe in teoria ricevere dal gruppo per la sua uscita anticipata. Secondo l’agenzia Bloomberg – che cita fonti vicine al dossier – il presidente ad interim del consiglio di sorveglianza (e sindacalista di IG Metall) Berthold Huber e altri esponenti sindacali sono contrari ad accettarla. Winterkorn, fra l’altro, è ancora (almeno per il momento) al vertice della Porsche SE, la holding attraverso la quale le famiglie Porsche e Piëch controllano il gruppo.
In una lettera ai dipendenti del gruppo Matthias Müller, che ha sostituito Winterkorn al vertice, ha espresso «grande rispetto» per i risultati ottenuti dal suo precedessore e ha detto che nell’opera di controllo in corso «la diligenza è più importante della rapidità». Per ora non ci sono conferme del repulisti ai massimi livelli del settore tecnico del gruppo, ma le voci proseguono insistenti: secondo la Faz Volkmart Tannenberger diventerà nuovo responsabile ricerca e sviluppo della marca Vw, al posto di Heinz-Jakob Neusser che sarebbe stato sospeso dall’incarico. Sul mercato azionario cresce l’impazienza, e la situazione di incertezza anche sulle conseguenze finanziarie dello scandalo ha di nuovo spinto al ribasso ieri il titolo Vw e l’intero settore. Volkswagen ha ceduto il 7,5% chiudendo sotto quota 100 euro (99,3 per le privilegiate), ma tutto il comparto ha vissuto una giornata da incubo: male le rivali tedesche di Volkswagen (Bmw -2,9%, Daimler -3,3%) e male anche le francesi (Peugeot -5,2%, Renault -4,6%). Le azioni Fiat Chrysler sono state sospese per eccesso di ribasso ed hanno poi chiuso a 11,14 euro, con un calo del 4,95%, ai minimi da gennaio. «Il mercato teme l’incertezza – dice Gabriele Gambarova, analista di Banca Akros -. Dopo la vicenda Volkswagen i punti aperti sono ancora numerosi: dall’eventuale scoperta di altri casi di irregolarità all’atteggiamento futuro dei governi. In questa situazione ha buon gioco chi vuole realizzare i guadagni, visto che il settore era andato molto bene fino a qualche mese fa». A numerosi investitori internazionali non è piaciuta la scelta di Matthias Müller come erede di Winterkorn alla guida del gruppo, scelta vista come troppo di continuità rispetto alla precedente gestione: Hans-Christoph Hirt della Hermes EOS ha «seri dubbi» che la necessità di ripartire da zero sia davvero stata capita. L’autorità tedesca sui Trasporti ha dato intanto al gruppo Vw tempo fino al 7 ottobre per pubblicare le date esatte in cui i vari modelli rispetteranno le norme antinquinamento, minacciando in caso contrario di bloccarne la vendita. Il numero uno della marca Vw, Herbert Diess, ha detto che l’azienda sta lavorando a un miglioramento tecnico per le auto interessate. Il dettaglio di quali modelli di quali anni siano interessati non è ancora stato pubblicato; per ora sono emersi solo i numeri delle varie marche comprese negli 11 milioni i cui motori diesel ospitavano il software con il trucco: 2,1 milioni di Audi e 1,8 milioni di veicoli commerciali, che si aggiungono agli oltre 5 milioni della marca Volkswagen. Volkswagen ha sottolineato che i modelli con motore Euro 6, quelli in vendita attualmente, non sono coinvolti. Non è chiaro se si tratterà solo di una modifica al software o se dovranno essere installati dispositivi addizionali, ed è difficile per questo valutare i costi dell’operazione. 
(P.S. Dedicato ai tifosi della serie cinematografica di James Bond, agente 007: Herr Winterkon non vi sembra sia il sosia dell’attore tedesco Gert Frobe, indimenticabile protagonista del film “Agente 007 Goldfinger” uscito nel 1964, interpretato da uno storico Sean Connery?)