Espulsi quelli del No.
Ad andare via, a fare la scissione, non ci pensano neanche. Perché il Movimento, l’originale, sono loro. Lo ripetono allo sfinimento, i “big” finiti nel calderone dei 15 espulsi ieri, dopo aver votato no alla fiducia al governo Draghi. Barbara Lezzi e Nicola Morra soprattutto, ma anche Vilma Moronese, Matteo Mantero: colonne dei 5 Stelle, i primi a entrare in Parlamento nel 2013, gli “amici di Beppe Grillo”, come si chiamavano una volta: solo che loro lo erano davvero. E pure Elio Lannutti, uno dei pochi che poteva ancora vantare il filo diretto con Genova. Ma adesso lui, il Garante che ha scelto di fidarsi dell’ex capo della Bce, li chiama “marziani” e dice che il M5S non è più quella roba lì. Così, mentre il suo blog seguiva in diretta l’arrivo su Marte del “rover” della Nasa chiamato Perseverance, a 470 milioni di chilometri di distanza, nell’aula di Montecitorio un’altra pattuglia di 16 eletti Cinque Stelle voltava le spalle alla “sfida” in cui il grosso del partito ha deciso di imbarcarsi.
Anche loro votano “no”, incuranti dell’“avvertimento” che è arrivato ieri mattina con l’espulsione di chi – secondo lo Statuto M5S e il regolamento del gruppo – non ha rispettato l’esito della votazione su Rousseau, finita 60 a 40 per chi sceglieva di turarsi il naso. Ma Morra, Lezzi e gli altri non vogliono accettare il verdetto: lo considerano illegittimo, perché è firmato da quel Vito Crimi che non sarebbe più in carica come reggente; contestano il quesito su cui era basata la consultazione (si parlava di un super-ministero che non è nato); ritengono che il vincolo riguardi il voto di fiducia a un presidente del Consiglio incaricato dal Movimento. Credono, insomma, che dire no a Draghi e all’ingresso in una maggioranza dove siede anche Silvio Berlusconi, sia assolutamente in linea con i principi che dovrebbero muovere l’azione dei portavoce 5Stelle in Parlamento. E dalla loro hanno Davide Casaleggio, il primo a dire – subito contraddetto dal Garante – che la reggenza di Crimi sia bella che finita. E pure Alessandro Di Battista, che da qualche giorno “non parla più a nome del Movimento”, ma parla, eccome, e si mette alla guida dell’opposizione.
Per la loro battaglia in tribunale, si sono rivolti a Lorenzo Borrè, lo storico avvocato dei dissidenti grillini, che da anni segue le cause di quelli che – anche Lezzi, Morra &C. – hanno ripetutamente cacciato via per le ragioni più varie, tra cui i voti in dissenso rispetto alle indicazioni del gruppo. Lo ricordano, quelli che ieri hanno detto sì, pur controvoglia: “Molti di noi si sono adeguati, c’è gente che ha pianto in aula! Sapevamo che questa roba non sarebbe stata indolore, ma le regole sono sempre valse per tutti e abbiamo sempre ripetuto quel che diceva Gianroberto: ‘Ogni volta che deroghi a una regola praticamente la cancelli’”. Il proverbio grillino, va detto, ormai suona parecchio datato: è il paradosso del Movimento che ora si ritrova a cacciare chi fa quello che tutti si aspettavano facesse. Ma è evidente che in questa partita, oltre al fortissimo richiamo di Grillo, ha giocato anche quella forma di “assuefazione” al potere, costruita nei 30 mesi passati al governo e riassumibile così: “Si stanno scannando per chi deve fare il sottosegretario, figurati se pensano ai ricorsi contro le espulsioni”.
La verità è che sperano che se ne vadano e sognano l’irrilevanza a cui verrebbero condannati una volta persa la vetrina Cinque Stelle. Ma solo qualcuno – vedi Mattia Crucioli – crede che la strada del nuovo gruppo sia quella da percorrere. Certo, si è studiata anche quella (c’è il simbolo “in sonno” dell’Italia dei Valori) ma nessuno sta lavorando in quella direzione: restare dentro, questo è l’obiettivo. Per potersi godere da vicino l’effetto che farà vedere gli altri costretti ad ammettere di aver sbagliato. Lezzi addirittura annuncia di volersi candidare a uno dei posti previsti dal nuovo organo collegiale che guiderà il Movimento. Sempre che a quel punto sia rimasto qualcosa da guidare.