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domenica 4 luglio 2021

Tassa minima globale: Irlanda, Estonia e Ungheria contro il via libera finale (per ora). - MIchele Pignatelli

 

Il nodo dell'unanimità. Tre paesi non hanno firmato l'intesa Ocse e per una direttiva Ue serve il via libera di tutti gli Stati membri.

All’indomani di quella che Janet Yellen, segretaria al Tesoro Usa, ha definito «una giornata storica per la diplomazia economica», l’intesa sulla tassazione globale minima siglata con il coordinamento dell’Ocse da 130 Paesi su 139 inizia a fare i conti con gli ostacoli che ancora restano per renderla effettiva.

All’appello tra i firmatari mancano 9 Paesi, ma a preoccupare sono soprattutto le tre defezioni europee. Irlanda, Ungheria ed Estonia per il momento hanno detto no al piano, già avallato dal G7, che prevede una corporate tax minima del 15% e una redistribuzione almeno parziale delle tasse pagate dalle multinazionali, allocando parte di quel gettito nei Paesi in cui gli utili vengono effettivamente realizzati.

Irlanda, Ungheria ed Estonia insieme valgono appena il 4% del Pil Ue e il 3,6% della popolazione, ma il loro potere negoziale è amplificato dalle normative comunitarie, che richiedono il varo di una direttiva approvata all’unanimità. E i primi segnali non sono incoraggianti.

L’Ungheria, spina nel fianco Ue.

«La minimum tax globale ostacolerebbe la crescita, l’aliquota del 15% è troppo alta e non dovrebbe essere applicata alle attività economiche reali», ha sentenziato ieri il ministro delle Finanze ungherese Mihaly Varga, salvo poi smorzare i toni dicendosi pronto a continuare colloqui «costruttivi» con i partner Ocse per raggiungere «un accordo appropriato». 

Budapest, con una corporate tax del 9%, ha l’aliquota più bassa nell’Unione europea e l’ha sfruttata per attrarre robusti investimenti nel settore automobilistico e manifatturiero (da Bmw agli impianti per la produzione di batterie); investimenti che hanno trainato la crescita e l’impiego, contribuendo a rafforzare il potere del premier Viktor Orban e offrendogli una solida base di consenso per reggere lo scontro con l’Unione europea sullo Stato di diritto. Non è un caso che Orban qualche giorno fa abbia definito «assurdo» il fatto che «un’organizzazione internazionale si arroghi il diritto di dire quali tasse l’Ungheria può imporre e quali no», tanto più – ha aggiunto - che il Paese «non è un paradiso fiscale», ma attrae imprese che investono veramente e non scelgono l’Ungheria soltanto come sede legale per pagare meno tasse.

L’Irlanda, allievo modello.

Discorso diverso per l’Irlanda, assurta a esempio di politiche virtuose negli anni seguiti alla crisi finanziaria e ai piani di bailout europei e ora ben integrata nelle isituzioni comunitarie, dove tra l’altro detiene, con il ministro delle Finanze, Pascal Donohoe, la presidenza dell’Eurogruppo. Alleanze strategiche e capacità negoziali hanno consentito a Dublino di resistere per anni agli attacchi di quei Paesi – Francia in testa – che l’accusavano di concorrenza sleale per una corporate tax al 12,5% e, ancor di più, per agevolazioni o accordi mirati che hanno favorito l’elusione o consentito alle multinazionali di pagare imposte irrisorie. 

L’attrattività fiscale è stata un fattore chiave per portare a Dublino il quartier generale di colossi come Google, Apple e Facebook e le nuove regole mettono ora in pericolo, secondo le prime stime, due miliardi di euro all’anno di entrate da imposte societarie, anche per effetto della riallocazione del gettito nei Paesi che sono vero mercato delle multinazionali. Così ieri il ministro delle Finanze Donohoe, che già giovedì aveva espresso le riserve irlandesi, ha ribadito la contrarietà di Dublino: «In Irlanda questo – ha detto in un’intervista radiofonica – è un tasto molto sensibile e nel testo che mi è stato presentato non c’erano sufficiente chiarezza e un adeguato riconoscimento di una questione per noi chiave».

Il ministro ha espresso tuttavia ottimismo sul raggiungimento di un’intesa entro l’anno. Ed è probabile che Dublino, con qualche ulteriore concessione, sia pronta a dire sì; anche il mondo del business sembra già preparato alle nuove regole, forte di un appeal basato anche su altri fattori oltre a quello fiscale e su investimenti ormai consolidati nel Paese.

L’Estonia e gli utili detassati.

L’Estonia, da anni in cima alla classifica di competitività fiscale del think tank americano Tax Foundation, ha tra i suoi punti di forza una corporate tax relativamente bassa (oscilla tra il 14 e il 20% degli utili) applicata però solo in caso di dividendi. Non vengono cioè tassati gli utili reinvestiti.

Il Paese baltico si è opposto con decisione alle nuove regole. Il ministero delle Finanze ieri ha diffuso un comunicato in cui sottolinea che il Paese non è pronto «a sostenere completamente» le proposte per una minimum tax globale. Più esplicita (e dura) era stata nei giorni scorsi la ministra delle Finanze Keit Pentus-Rosimannus, che aveva definito la proposta «pericolosa per le imprese, la concorrenza internazionale e la creazione di posti di lavoro».

Verso il via libera del G20.

Nonostante gli ostacoli - tra i quali vanno menzionati anche la necessaria approvazione del Congresso Usa, con i repubblicani pronti a dare battaglia, e il nodo della digital tax, su cui Janet Yellen e la vicepresidente della Commissione Ue, Margrethe Vestager, avranno un colloquio il 6 luglio - all’indomani dell’intesa prevale l’ottimismo, anche considerando che l’hanno siglata Paesi importanti e in dubbio fino all’ultimo, come l’India e la Cina (con le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao).

In attesa dei dettagli tecnici, da mettere a punto ancora in sede Ocse a ottobre, sembra dunque spianata la strada al via libera dei ministri delle Finanze del G20, in programma a Venezia la prossima settimana, priorità della presidenza italiana. «Le notizie che arrivano dall’Ocse - ha confermato il ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco - sono un passo avanti verso l’intesa politica. Siamo fiduciosi sulla possibilità di trovare un accordo a livello G20 sulla struttura di nuove regole per la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali e per la tassazione minima effettiva, che cambierebbero radicalmente l’attuale architettura della fiscalità internazionale».

Intanto, mentre il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, promette di raddoppiare gli sforzi per convincere i Paesi riluttanti, la Commissione Ue mantiene un cauto ottimismo. «Siamo fiduciosi che, mentre si mettono a punto i dettagli, anche gli altri Stati membri possano firmare», ha dichiarato un portavoce.

IlSole24Ore

giovedì 13 agosto 2020

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”. - Lucio Musolino

Quando ’Ndrangheta e Cosa nostra dicevano: “Abbiamo il paese nelle mani”

Dopo la condanna all’ergastolo del boss  Giuseppe Graviano e di Rocco Santo Filippone il 24 luglio, le indagini proseguono sulle tracce di “altri soggetti” che, secondo gli inquirenti, avrebbero collaborato al “disegno di destabilizzazione del paese”. In primo piano nelle dichiarazioni dei pentiti il “patto” tra Berlusconi e Cosa nostra, attraverso Dell’Utri, di cui la mafia avrebbe informato i calabresi.
Un vasto e articolato disegno di destabilizzazione del Paese da attuarsi (anche) con modalità di tipo terroristico”. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza “’Ndrangheta stragista”, con la quale la Corte d’Assise il 24 luglio scorso ha condannato all’ergastolo il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e il calabrese Rocco Santo Filippone, c’è una sola certezza per la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria: le indagini continuano e presto il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo porrebbe arrivare a quella che, nella sua requisitoria, ha definito “la completa identificazione di tutti i soggetti che concepirono l’attacco terroristico allo Stato”. Identificazione che “dovrà e potrà essere svolta in successivi approfondimenti investigativi”.
Parole che pesano come un macigno sulla testa di chi potrebbe a breve avere un volto nonostante siano trascorsi quasi trent’anni da quelle “stragi continentali” che hanno insanguinato il Paese. L’elenco delle bombe lo ha fatto il collaboratore Gaspare Spatuzza nel corso dell’udienza del 16 marzo 2018 quando, rispondendo alle domande del pm, ha ricordato che nel 1993 aveva preso “l’impegno di recuperare l’esplosivo”: “Sono stato coinvolto purtroppo in tutte le stragi, da Capaci… via D’Amelio, la strage di via Fauro, Firenze, le stragi di Roma, San Giovanni Laterano e San Giorgio a Velabro… e il fallito attentato all’Olimpico, e l’attentato quello di Milano”.
La sensazione è che sulla scrivania del magistrato reggino ci siano diversi fascicoli che riguardano non solo alcuni boss della ‘Ndrangheta e quella componente mafiosa che, pur essendo stata più volte richiamata durante il processo a carico di Graviano e Filippone, non sono finiti alla sbarra. Per ora. Sempre nella requisitoria, il procuratore Lombardo parla di “altri soggetti ancora” che “diedero un contributo al concepimento ed alla pratica attuazione del disegno di destabilizzazione del Paese”.
Leggendo gli atti di “Ndrangheta stragista” è facile capire di chi si tratta. Se sul fronte mafioso, all’appello mancano i nomi De Stefano e Mancuso (espliciti nella ricostruzione fatta dalla Dda), chi siano gli “altri soggetti ancora” è facile intuirlo rileggendo i verbali e le dichiarazioni in aula dei numerosi collaboratori di giustizia e testimoni che hanno sfilato davanti alla Corte d’Assise di Reggio Calabria: politici, pezzi deviati delle istituzioni, soggetti legati agli apparati di sicurezza e massoni riconducibili agli ambienti della P2 di Licio Gelli.
Tutte categorie che potrebbero essere sostituite da nomi e cognomi importanti quando si concluderanno le indagini della Procura di Reggio Calabria coordinate da Giovanni Bombardieri e dall’aggiunto Giuseppe Lombardo.
Ma andiamo con ordine. Siamo all’inizio degli anni novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, con il Pds di Achille Occhetto che aveva vinto le amministrative dell’ottobre 1993 e il rischio comunista alle porte. Come se non bastasse la Democrazia cristiana si stava sgretolando e, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie, non era più in grado di dare garanzie ai boss di Cosa nostra. È questo il periodo, a cavallo tra il 1993 e il 1994, in cui si incastra il racconto di Gaspare Spatuzza che ai pm di Reggio Calabria ricorda l’incontro avuto con Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto a Roma.
I carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofolalo sono stati già uccisi in Calabria, ma nel disegno criminale di Graviano manca il famoso “colpo di grazia”. “Siamo entrati in questo bar, all’interno ci siamo seduti nei tavolini. – dice Spatuzza – Abbiamo fatto il punto della situazione, gli ho illustrato tutta quella che era stata già programmata la fase esecutiva”.
Spatuzza si riferisce al fallito attentato all’Olimpico dove in via dei Gladiatori, se fosse esplosa la Lancia Thema carica di esplosivo, sarebbero morti una cinquantina di carabinieri. Pochi giorni prima il futuro collaboratore di giustizia rassicura il boss di Brancaccio: “Eravamo già operativi. E lui, in quella circostanza, mi aveva detto che era felice effettivamente, che avevamo chiuso tutto, e avevamo portato a buon fine tutto quello che noi speravamo. Quindi, a quel punto, che suscitava questa emozione indescrivibile, mi disse che, grazie a questo che… quello che noi avevamo ottenuto, grazie alle persone serie che avevano gestito questa cosa, e mi cita Berlusconi, che a tal punto io venni a dire: ‘Ma se era quello del Canale 5?’. E mi ha detto che era lui. E che era nel mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri. Cioè, il discorso era che avevamo chiuso tutto e ottenuto quello che noi cercavamo”.
Sul piatto c’erano le richieste di Cosa nostra alla politica di cui i boss avevano già discusso in Sicilia. I discorsi fatti al bar Doney, infatti, sono “un seguito di quello che avvenne lì a Campo Felice… c’era in piedi una cosa, e se andava a buon fine, ne avremo tutti dei benefici, a partire dai carcerati”. Ed è a questo punto che Spatuzza, stando al suo racconto, sente il boss di Brancaccio pronunciare la frase “Abbiamo il Paese nelle mani”: “Avevamo chiuso tutto. Graviano insisteva per consumare l’attentato dell’Olimpico… perché con quello gli dovevamo dare il colpo di grazia”.
Dopo l’incontro al Bar Doney, distante un centinaio di metri dall’hotel Majestic dove era solito alloggiare Marcello Dell’Utri e dove proprio in quei giorni, il 26 gennaio, sarebbe nato il partito di Forza Italia, Spatuzza e “Madre Natura” salgono in auto per andare a Torvaianica: “Lui insiste nel portare avanti quell’attentato contro i carabinieri, perché i calabresi si erano mossi, che erano… si erano mossi con i carabinieri. Infatti, non so se il giorno prima o i giorni successivi, io ho saputo che effettivamente erano stati uccisi due carabinieri in Calabria… La sostanza di quelle poche parole, è questa: cioè, la finalità dell’attentato (quello fallito all’Olimpico, ndr) era di spingere a qualcuno, che si doveva muovere”.
Stragi, quindi, che non dovevano solo intimidire, mettere paura a uno Stato attraverso la sempre utilizzata “strategia della tensione”. Erano bombe e morti che, per dirla con l’avvocato ed ex pm di Palermo Antonio Ingroia, servivano a “convincere un amico, con cui si stava parlando, a fare qualche cosa”. “È esatto?”. “Sì, sollecitare. – risponde Spatuzza – Chi si deve muovere, si dà una smossa. Quindi, ed è un… fare terra bruciata… sì, è un po’ fare terra bruciata al soggetto, o ai soggetti, che avevano preso degli impegni, o che stavano portando avanti delle cose, ma un po’ si erano assonnacchiati”.
Le domande di Ingroia e soprattutto le risposte di Spatuzza non lasciano adito a dubbi su chi sarebbero stati i politici “assonnecchiati” con i quali Graviano aveva “chiuso tutto”: “‘Quello che cercavamo’, questo lo avevate ottenuto tramite quelle due persone, che lei ha già indicato alla scorsa udienza?”. “Si. Si”. “Berlusconi e Dell’Utri. E Graviano si spinse sino a dirle: ‘Abbiamo il paese nelle mani’?”. “‘Il paese nelle mani’, sì, sì”.
Dell’Utri diciamo che si legge Berlusconi”. Il copyright è del pentito Giuseppe Di Giacomo interrogato anche lui nel processo “’Ndrangheta stragista” il 12 giugno scorso. È lui che, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Lombardo, conferma che “c’è una correlazione tra la cessazione delle stragi e gli impegni che erano stati assunti”.
Di impegni che la politica avrebbe assunto con la mafia, ne parla anche il collaboratore Pasquale Di Filippo la cui deposizione è finita nella memoria del pm consegnata al termine della requisitoria alla presidente della Corte d’Assise Ornella Pastore. “Berlusconi ha fatto un patto con Cosa nostra. È un patto: ‘Noi ti facciamo salire’. Il patto è questo: ‘Noi ti facciamo salire però tu ci devi aiutare’. E non è un patto questo? Cos’è?”. Stando al suo racconto, dopo la vittoria di Berlusconi alle politiche del 1994, il pentito Di Filippo ne aveva discusso con Leoluca Bagarella con il quale si era lamentato di Forza Italia: “Bagarella non mi ha parlato di patto. Io gliel’ho detto a lui, gli ho detto: ‘Scusa, noi lo abbiamo votato, lui doveva mantenere delle cose, e non le ha mantenute. Per quale motivo?’. Bagarella mi dice: ‘Per ora non può fare niente, perché ci sono altri politici che lo stanno osservando, ma comunque, appena ci può aiutare, ci aiuta”.
A proposito di aiuti, i voti della mafia per le politiche del 1994 non sarebbero stati l’unico favore che Cosa nostra avrebbe fatto nell’interesse di Silvio Berlusconi. Lo dice il pentito calabrese Antonino Fiume, un tempo killer degli arcoti ma soprattutto ex genero del boss Giuseppe De Stefano, figlio del mammasantissima don Paolino De Stefano ucciso all’inizio della seconda guerra di mafia che insanguinò Reggio Calabria tra il 1985 e il 1991.
Era la stagione dei sequestri di persona. Le vittime, rapite dalla ‘Ndrangheta nel nord Italia, venivano portate in Calabria. Solo alcune venivano rilasciate dopo riscatti miliardari mentre altre sparivano nel nulla, inghiottite dall’Aspromonte.
All’epoca i sequestri erano il core business delle cosche della Locride ma sul fenomeno aveva voce in capitolo anche la ‘Ndrangheta reggina, quella dei De Stefano che il giornalista Luigi Malafarina già negli anni ottanta definì “i mafiosi dalle scarpe lucide”. Morto don Paolino, il boss divenne il figlio Giuseppe De Stefano sempre affiancato da Nino Fiume che, nell’udienza del 6 giugno 2019, ricorda quando “Cosa nostra mandò a dire una imbasciata urgente, di non toccare il figlio di Berlusconi”.
“L’ambasciata – dice – arrivò ad Africo, e io ero con Peppe Morabito e Peppe De Stefano e ‘Ntoni Papalia, e questa era una imbasciata che arrivava là, però ero presente e le sapevo queste cose qui. I palermitani erano andati ad Africo, e Peppe Morabito il ‘Tiradritto’ si era assunto la responsabilità, perché i palermitani, questi dicevano che gli fate i regali e di non sequestrarlo, perché era un periodo che i sequestri… Antonio Papalia aveva passato per novità questo discorso, che il figlio di Berlusconi non si doveva toccare”.
In realtà, in quel momento, la ‘Ndrangheta non stava progettando alcun sequestro del figlio di Berlusconi: “Loro temevano – spiega infatti Fiume – I palermitani erano andati da Peppe Morabito. Peppe Morabito si era preso questa responsabilità…lui ci aveva spiegato questa situazione, di questa raccomandazione di non toccarlo. Fatto sta che poi avevano trovato la soluzione, e non l’hanno toccato. Era una cosa che interessava a Palermo, era una cosa proprio che era partita da là, questo è sicuro”.

domenica 12 luglio 2020

Le concessioni sono solo l’inizio. Ora il Paese può cambiare. - Gaetano Pedullà

AUTOSTRADE

A prendere sul serio quello che si dice su tutti i canali tv, l’Italia è spacciata. Nessuno è stato aiutato, a settembre ci saranno milioni di licenziamenti, e ovviamente il Governo dorme. Morale della favola: votate Salvini con Berlusconi e la Meloni, che toglieranno le tasse, ci libereranno dagli immigrati che rubano il lavoro agli italiani e tutti vivremo felici e contenti. Se però non crediamo agli asini che volano, è tutto un altro scenario quello che abbiamo di fronte. In un Paese con regole bizantine, indebitato da decenni di politiche di manica larga, per non parlare delle ruberie, mai si era fatto tanto per le fasce sociali più deboli, e mai si era messo con le spalle al muro il sistema come sta avvenendo con la concessione delle autostrade.
Per la propaganda delle destre, con il seguito dei loro giornalisti parolai, tutto questo è troppo poco, così come sono sempre pochi i miliardi erogati dall’Inps ai lavoratori autonomi e a chi è finito in cassa integrazione, sono pochi i miliardi che sta erogando il sistema bancario grazie alla garanzia pubblica, ed è poco il contributo a fondo perduto già accreditato alle imprese. Per chi ha un minimo di memoria e altrettanta onestà intellettuale non sarà difficile ricordare che storicamente in tutte le situazioni di crisi – terremoti, alluvioni o cicliche fasi di recessione – lo Stato ha sempre messo le mani in tasca agli italiani per prendere e mai per dare. Ma il livello delle opposizioni italiane è quello che è.
Prendiamo ad esempio gli Stati Generali dell’economia dove erano state invitate a dare un contributo di idee al Governo. Dopo aver frignato che la sede di Villa Pamphilj non gli piaceva, non si sono presentate per poi lamentarsi di non essere stati ascoltate. Il premier Conte allora le ha invitate di nuovo, e a quel punto la Lega ha risposto di averci ulteriormente ripensato e non andrà, Fratelli d’Italia ha accettato ma a condizione di trasmettere l’incontro in streaming e Forza Italia aspetta ancora ordini dai soci maggiori. Basterebbe questo per certificare quanto dobbiamo tenerci caro un Esecutivo che invece ha varato due manovre finanziarie gigantesche, si è dato da fare per non lasciare indietro nessuno e per trovare i soldi che ci servono in Europa.
Dove la maggioranza giallorossa, con tutte le sue contraddizioni e difficoltà interne, sta segnando però il gol decisivo è nell’affermare dopo decenni che lo Stato non è più il garage dei poteri forti, e per lor signori la pacchia è finita. Si comincia entro domani con i Benetton, che non sono più brutti e cattivi di altre decine di (im)prenditori privilegiati dalle privatizzazioni folli benedette da politici e lobby al loro servizio. Al momento non c’è ancora una decisione, ma a meno di sorprese le strade rimaste sono due. La prima prevede che i Benetton cedano il controllo di Autostrade per l’Italia o della holding Atlantia alla Cassa Depositi e Prestiti e al Fondo strategico pubblico F2i.
In questo modo parte dei proventi della rete viaria torneranno alla collettività, che garantirà anche le manutenzioni e il livello delle tariffe. In alternativa, la società dei Benetton può resistere, farsi togliere la concessione e fare causa per questo allo Stato, sperando che le vada meglio di com’è finita due giorni fa alla Consulta, dove aveva tentato di invalidare persino il diritto del Governo di affidare la costruzione del nuovo ponte di Genova a un soggetto diverso da quello che l’aveva fatto cadere.
Questo contenzioso legale potrebbe durare anni, e alla fine dare pure ragione all’attuale concessionario, per via di un contratto di affido della rete autostradale che l’Anas firmò a suo tempo tutelando all’inverosimile il contraente privato anziché quello pubblico. In ogni caso all’ex ministra renziana Maria Elena Boschi, che ieri ha difeso apertamente la concessione ad Autostrade proprio per questo rischio di dover pagare risarcimenti miliardari, andrebbe ricordata una frase ripresa da Paolo Borsellino: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”. Ecco, qui sta la vera cifra di un Governo che non potrà piacere mai all’establishment, inserendo in tale categoria le Confindustrie e combriccole simili, oltre alla stampa apparentemente di opposizione e in realtà beatamente serva di un padrone.
Sotto la spinta non certo del Pd, ma decisamente del Cinque Stelle, un pezzetto alla volta si sta smontando una montagna di potere costruita sulla pelle degli italiani. Un gigante blindato da leggi scritte per fare gli interessi di Lor signori e non dei cittadini, difeso da parrucconi e giannizzeri fuori dal tempo, come quelli che solo pochi giorni fa hanno ripristinato i vitalizi per gli ex senatori. Un sistema inscalfibile, che nel caso dei Benetton è riuscito ad allungare il brodo per due anni, nonostante 43 morti a Genova e 40 ad Avellino, e tutt’ora minaccia di fare cause aggrappandosi a qualche furbizia legale. Perciò dal disastro del ponte Morandi è passato tanto tempo, ma alla fine indietro non si torna. E questo si chiama cambiare il Paese.

giovedì 24 luglio 2014

Ticket stellari e attese infinite, italiani in fuga dal Ssn: spesi oltre 30 mld in sanità privata.


<p>Infophoto</p>

(Adnkronos Salute) - Italiani in fuga dal Servizio sanitario nazionale. Ticket stellari e tempi di attesa troppo lunghi stanno spingendo sempre più italiani - oltre 12 milioni - verso gli operatori della sanità privata. Che si leccano i baffi. Secondo le stime che emergono dal documento conclusivo dell'indagine conoscitiva sulla sostenibilità economica del Ssn, condotta dalle commissioni Bilancio e Affari Sociali della Camera, la spesa privata ha sfondato il muro dei 30 miliardi l'anno
Per l'esattezza 30,3 mld, tra farmaceutica, assistenza e cura, diagnostica e altro, che - come si legge nel documento - costituiscono "una percentuale rilevante della spesa sanitaria complessiva". Una spesa ingente che - osservano i deputati - "pur non collocandosi su un livello non dissimile da quella di altri Paesi europei, è nel nostro Paese quasi per intero 'out of pocket', mentre altrove è in buona parte intermediata da assicurazioni e fondi". L''indagine della Camera svela anche i motivi di questa emigrazione di pazienti dal pubblico al privato: "E' stato rilevato - si legge nel documento - come l'applicazione dei ticket stia di fatto escludendo le fasce economicamente più deboli della popolazione dall'accesso alle prestazioni sanitarie, in particolare a quelle di specialistica e diagnostica".

I dati del Censis - La fotografia del Ssn che emerge dall'indagine della Camera trova conferma nei dati rilevati dal Censis. Due indizi fanno una prova. Secondo una recente ricerca dell'istituto sul ruolo della sanità integrativa, sono infatti sempre di più gli italiani che pagano di tasca propria i servizi sanitari che il pubblico non garantisce più: nel 2013 la spesa sanitaria privata è infatti aumentata del 3% rispetto al 2007. E nello stesso arco di tempo quella pubblica è rimasta quasi ferma (+0,6%). Secondo il Censis, gli italiani sono costretti a scegliere le prestazioni sanitarie da fare subito a pagamento e quelle da rinviare oppure non fare. Così, crolla il ricorso al dentista a pagamento (oltre un milione di visite in meno tra il 2005 e il 2012), ma nello stesso periodo aumentano gli italiani che pagano per intero gli esami del sangue (+74%) e gli accertamenti diagnostici (+19%). Ormai il 41,3% dei cittadini paga di tasca propria per intero le visite specialistiche. Cresce anche la spesa per i ticket, sfiorando i 3 miliardi di euro nel 2013: +10% in termini reali nel periodo 2011-2013.

Oltre 12 milioni gli italiani che ricorrono al privato - Insieme alla spesa cresce anche il numero delle persone che si rivolgono al privato. Gli ultimi dati del Censis stimano in 12,2 mln gli italiani che negli ultimi anni hanno fatto ricorso alla sanità privata, pagando le cure di tasca propria. I motivi? La ragione fondamentale è perché nel pubblico bisogna aspettare troppo tempo per accedere alle prestazioni, come dichiarato dal 61% di coloro che ricorono alla sanità privata. Altre motivazioni sono: per quasi il 33%, la possibilità di scegliere il medico di fiducia, e per il 18,2% "se paghi vieni trattato meglio", mentre il 15% fa riferimento alla indicazione di una persona di fiducia. La fuga nel privato riguarda soprattutto l'odontoiatria (90%), le visite ginecologiche (57%) e le prestazioni di riabilitazione (36%). Ma il 69% delle persone che hanno effettuato prestazioni sanitarie private reputa alto il prezzo pagato e il 73% ritiene elevato il costo dell'intramoenia.

Ticket troppo alti - Uno scenario che incide sul giudizio che gli italiani hanno del Ssn. A finire nel mirino è soprattutto il costo dei ticket. Secondo quanto rilevato dagli esperti del Censis, il 50% degli italiani ritiene che il ticket sulle prestazioni sanitarie sia una tassa iniqua, il 19,5% pensa che sia inutile e il 30% lo considera invece necessario per limitare l'acquisto di farmaci. Il 56% dei cittadini ritiene troppo alto il ticket pagato su alcune prestazioni sanitarie, mentre il 41% lo reputa giusto. Si lamentano di dover pagare ticket elevati soprattutto per le visite ortopediche (53%), l'ecografia dell'addome (52%), le visite ginecologiche (49%) e la colonscopia (45%). Molto diffusa è poi la percezione di una copertura pubblica sempre più ristretta: il 41% degli italiani dichiara che la sanità pubblica copre solo le prestazioni essenziali e tutto il resto bisogna pagarselo da soli, per il 14% la copertura pubblica è insufficiente per sé e la propria famiglia, mentre il 45% ritiene adeguata la copertura per le prestazioni di cui ha bisogno.
In questa cornice spicca il dato relativo alla sanità integrativa. Il Censis stima in 6 milioni gli italiani che hanno aderito a un fondo sanitario integrativo. Considerando anche i loro familiari, si sale a circa 11 milioni di assistiti. Pochi, rispetto a quanto si registra in altri Paesi europei. Secondo il recente rapporto 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali di Censis e Unipol, "l'Italia resta una delle poche economie avanzate in cui la spesa sanitaria out of pocket intermediata - vale a dire gestita attraverso assicurazioni integrative o strumenti simili - si ferma a una quota molto bassa: appena il 13,4% del totale della spesa sanitaria privata a fronte del 43% della Germania, del 65,8% della Francia, del 76,1% degli Stati Uniti".

Sempre più gettonata l'intramoenia - Ma non si registra solo il boom della spesa sanitaria privata. Sempre più italiani, infatti, fanno ricorso all'intramoenia per curarsi. Sfiniti da liste d'attesa troppo lunghe e da ticket comunque salati, sempre più connazionali, al momento di sottoporsi a una visita specialistica o a un semplice esame diagnostico, ricorrono a prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i quali utilizzano le strutture dell'ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa. Secondo gli ultimi dati del Censis, è pari a quasi il 12% la quota di coloro che si rivolgono di più all'intramoenia: oltre il 14% nella fascia d'età tra i 30 e i 45 anni, con punte del 17% tra gli abitanti del Sud e delle isole. Analizzando l'indagine a livello territoriale, la frequenza con la quale si ricorre all'intramoenia è aumentata per il 10% nel Nord-Ovest; per il 3% nel Nord-Est; per il 12,8% in Centro; per il 17,2% nel Sud e nelle Isole.
Il ricorso all'intramoenia, più che una scelta, sembra però essere una necessità. Una costrizione. La fotografia scattata dall'ultimo Rapporto Pit-Salute di Cittadinanzattiva Tribunale diritti del malato (Tdm) sembra dire questo: oltre il 15% dei cittadini segnala infatti il "necessario ricorso all'intramoenia per potersi curare", pur percependo tale soluzione come una "vera ingiustizia". Spesso infatti, a fronte di lunghe attese per esami o visite specialistiche, vengono proposte soluzioni in intramoenia in pochissimo tempo. Ecco, due, tra le migliaia di segnalazione giunte al Tdm: "Per prenotare una risonanza magnetica presso la Asl di Civitanova - scrive un paziente - mi hanno prospettato come tempo di attesa novembre e siamo a marzo. Privatamente, pagando 139 euro, tempo di attesa massimo una settimana". E ancora: "Mia figlia ha necessità di effettuare una visita dermatologica perché la pediatra ha suggerito di far controllare un neo sospetto. Mi sono subito adoperato - scrive un papà - a prenotare la visita, ma l'attesa era di 11 mesi. Per curiosità ho provato a prenotare la visita in intramoenia presso il Cup del San Gallicano e l'operatrice mi ha risposto che, se volevo, potevano farla già in quel momento, ma il costo era di 110 euro. Non ho parole".