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giovedì 27 aprile 2023

Un "Genio" o solo un disperato? - Massimo Erbetti

 

Altro grande colpo di Renzi…Borghi passa dal PD ad Italia Viva…il "Genio" Renzi continua a tessere tele…a fare proseliti e a mettere tasselli importanti…

Beh, vista così sembrerebbero le gesta di un "Genio" che continua nella sua arte di incidere nel mondo della politica anche non avendo i numeri…numeri che mancano alle votazioni…governi che cadono…parlamentari strappati ad altri…insomma…uno che ci sa fare…e ci fa fare anche molto bene.

Ma noi conosciamo tutta la verità? Abbiamo gli strumenti per giudicare? Sappiamo quali sono i reali motivi delle mosse del "Genio"?

Ad esempio…perché proprio Borghi? Forse perché Borghi è un Senatore e membro del Copasir?

Quel Copasir che tanto interessa a Renzi…e prima l'incontro con Mancini in autostrada…e poi la guerriglia per la presidenza proprio del Copasir alla fine dello scorso anno…

Ma perché il copasir interessa tanto a Renzi? Forse per questo?:
"Inchiesta Open, il Copasir chiede chiarimenti sui compensi di Renzi all'estero"
(Repubblica 9 novembre 2021)

Forse…o forse c'è molto altro…chissà.

Poi guarda caso aggiungere un Senatore permette a IV di avere il numero di senatori per costituire un gruppo…e sapete quanti soldi porta la Costituzione di un gruppo in senato?

Ora per ironia della sorte (?) Renzi ha due membri al copasir, mentre il PD solo uno (il presidente) che oltretutto è anche critico nei confronti di Schlein…

Ma Renzi è un vero "genio"...oppure la sua genialità è guidata dalla disperazione?

Come lo mandi avanti un partito se non hai soldi? Sapete vero che i finanziatori hanno chiuso i rubinetti?
"Imprenditori e finanzieri staccano la spina sia a Renzi che a Calenda. Il solo che continua a sostenerli nel 2023 è Gianfranco Librandi"
(Open 19 aprile 2023)

A volte la genialità è solo dettata dalla disperazione…e quello che appare un genio è solo un disperato…però fate attenzione ai disperati…perché sono pronti a tutto, pur di sopravvivere. 

Massimo Erbetti


Questi personaggi sono estremamente pericolosi perché, con ostentazione, senza alcuna vergogna -poiché privi di dignità e pudore- fanno e disfano tele a loro piacimento, come a dire "io sono io e voi non siete che un cavolo, perché io, grazie alla vostra dabbenaggine, sono stato posto in una situazione di potere e mi permetto di fare ciò che più mi aggrada, anche a vostro discapito." 

Ed è per questo che, chi la pensa come lui, gli si aggrega, sperando, vanamente, di acquistare un posto di prestigio in quella società posta ai limiti, o, meglio, fuori dalle regole del vivere civile. 

Lui è un adoratore di Silvio e ambirebbe a prenderne il posto. Lui non ha più remore, va dove lo porta il potere, del quale si nutre famelicamente. 

L'ambizione lo ha disumanizzato.

cetta

domenica 16 gennaio 2022

Ma non era lui il buono?. - Marco Travaglio

 

In attesa che B., il prossimo Capodanno, ci racconti a reti unificate la barzelletta della mela, dobbiamo accontentarci di quelle di Enrico Letta. “Sorpreso” e “deluso” per la candidatura al Quirinale del padrone di suo zio, spiega di non poterlo votare perché “è un leader di partito”, dunque “divisivo”, e invita Salvini e Meloni a levarlo di mezzo. Lui è fatto così: se, puta caso, assiste a una rapina in banca, chiama il 113 per denunciare alcuni divisivi in fuga. Del resto, se chiedete in giro un commento su B. al Colle, tutti vi risponderanno che sarebbero fieri di farsi rappresentare nel mondo da un vecchio puttaniere pregiudicato, che per vent’anni ha finanziato la mafia e frodato lo Stato per poi denunciarlo a Strasburgo perché tortura gli innocenti, ma purtroppo è un leader di partito, quindi è divisivo, dunque pazienza: meglio Vallanzasca, che non ha partiti quindi è unitivo. Ma ciò che più ci affascina è l’idea che debbano essere Salvini e la Meloni (o il suo impiegato Gianni Letta, il famoso capo della Resistenza interna) a liberarci del loro alleato ed ex premier per non “deludere” il Pd e i suoi derivati. Tipo Repubblica, che dopo 10 anni riesuma l’antiberlusconismo e tuona contro i “vassalli” Matteo e Giorgia. Come se toccasse a loro combatterlo. E come se non fosse stato Letta jr. nel 2013 a governare con lui.

A questo punto noi, gente semplice, rischiamo la labirintite. A furia di leggere i giornaloni e di ascoltare i pidini, avevamo capito che nel centrodestra il buono fosse B., noto “argine” moderato, liberale ed europeista contro i due cattivi sovranisti, populisti, fascisti, razzisti. Ce l’avevano spiegato De Benedetti, Scalfari, Folli, Franco, Veronesi (Sandro) e giù giù tutti gli altri, ben felici che B. desse una mano a lor signori nei governi Monti, Letta, Renzi. Un anno fa erano tutti intenti a riabilitarlo, nella speranza che salvasse l’Italia dal putribondo Conte, ma pure dagli orridi Salvini e Meloni, con la “maggioranza Ursula”: quella che nel 2019 aveva eletto la Von der Leyen alla guida della commissione Ue (M5S, Pd-Iv, LeU e FI). Poi agli Ursuli si aggiunse pure la Lega e nacque il governo Draghi, senza che nessuno – neppure Grillo – notasse nel Caimano-Psiconano la minima magagna. Ora, d’improvviso, gliele rinfacciano tutte. L’altra sera, nella telefiera del tartufo, c’era persino chi sprizzava sdegno per l’ex Cirielli sulla prescrizione, dopo aver massacrato per tre anni Bonafede che l’aveva rasa al suolo. Che ha fatto di male B. in così poco tempo? Semplice: Frankenstein s’è imbizzarrito ed è sfuggito al controllo di quanti si illudevano di usarlo, mentre è sempre stato lui a usare loro. Già nel 2011 diceva a Lavitola: “Me ne vado da questo paese di merda”. Lui l’aveva capito, gli altri no.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/16/ma-non-era-lui-il-buono/6457535/

sabato 15 gennaio 2022

“Figura adatta”. Così lo definiscono Salvini e Meloni. - Giacomo Salvini

 

VICOLO CIECO - Vertice a casa di Silvio, il leader di Forza Italia impone a Salvini e Meloni la candidatura: “Voglio fedeltà”. I dubbi degli alleati sui numeri.

“Chi è contrario alla mia candidatura lo dica adesso o taccia per sempre”. Alle 14.30, quando Silvio Berlusconi, con tono solenne, quasi presidenziale, apre il pranzo del centrodestra nel salone di villa Grande, cade un silenzio insolito. Nessuno fiata. Nessuno, nonostante i sospetti e i dubbi, riesce a dirgli niente. E dunque il dado è tratto: i leader del centrodestra, dopo due ore e mezzo di vertice, indicano Berlusconi come candidato della coalizione per la presidenza della Repubblica. È lui, come recita il comunicato finale, “la figura adatta a ricoprire in questo frangente difficile l’alta carica con l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita e che gli italiani si attendono”. La candidatura viene proposta seppur con una postilla, non solo formale: i leader del centrodestra chiedono a Berlusconi – ormai in campo da settimane – di “sciogliere la riserva”. Una precisazione che tiene aperto uno spiraglio su cui Meloni e Salvini puntano molto e che Berlusconi invece, al momento, non prende nemmeno in considerazione: la possibilità che a 24 ore dal quarto scrutinio del 27 gennaio, il leader di Forza Italia possa fare un passo indietro per fare il kingmaker di un altro candidato nel caso dovesse capire che non ci sono i numeri per arrivare alla soglia dei 505 voti. L’ipotesi preferita da Gianni Letta – che ieri è tornato a chiedere un candidato “condiviso” – e dai tre ministri azzurri che non condividono la strategia del cerchio magico di Arcore.

A ogni modo, nei prossimi giorni la campagna di scouting di Berlusconi – aiutato dal “telefonista” Vittorio Sgarbi – andrà avanti. E la “verifica” dei numeri e dei nomi sarà fatta in un nuovo vertice di giovedì prossimo dopo la trasferta di Berlusconi a Bruxelles per ricordare David Sassoli. Tra i fedelissimi del leader azzurro gira un report secondo cui arriverebbe a quota 493 voti (a 12 dal traguardo) ma in pochi ci credono. “Ne abbiamo convinti 15, ma coi franchi tiratori si elidono” spiega Sgarbi. Dunque ne mancano almeno altri 50-60. Per questo ieri i leader del centrodestra hanno deciso che da lunedì i capigruppo dei partiti metteranno in piedi una war room per aggiornarsi sui voti: si incontreranno tutti i giorni e si aggiorneranno sul pallottoliere. Anche perché, nonostante le richieste sui numeri, né Meloni, né Salvini sono riusciti a opporsi alla candidatura dell’ex premier. “Non possiamo rompere la coalizione” dice ai suoi il leghista.

Così, all’ ora di pranzo, Berlusconi riunisce i due “giovanotti” in un mini vertice. Entrambi gli dicono: “Vogliamo eleggerti, non solo candidarti”. Un modo per metterlo in guardia da una scalata proibitiva. Ma lui va avanti. E apre il pranzo allargato ai centristi, a base di parmigiana, branzino e calamari, con un discorso istituzionale. “Io ci sono e ci tengo molto. Mi metto in gioco ma siete voi che dovete darmi garanzie sui numeri e sulla vostra fedeltà”. A quel punto, prende la parola Salvini che prova ad avanzare qualche dubbio. Si è portato da casa le schede storiche sulle elezioni di Scalfaro e Mattarella per far capire all’ex Cavaliere che servono numeri molto alti: “Il primo ha avuto 672 voti, il secondo 665. La Lega sarà compatta ma la garanzia non c’è nel voto segreto. Devi dirci chi sono e quanti sono i parlamentari che hai convinto”. Anche Meloni mette i suoi dubbi sul tavolo: “FdI ti sostiene, ma mancano ancora 50 voti”. Ma tutti e due, alla fine, lo dicono apertamente: “Sei il nostro candidato”. I centristi Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa e Luigi Brugnaro si accodano. Anche Gianni Letta concorda. Meloni vuole un impegno su una legge elettorale maggioritaria ma Brugnaro non firma. Ma questa spaccatura diventa un dettaglio. Perché alla fine conta solo un fatto: la candidatura di Berlusconi ora è realtà.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/01/15/e-ufficiale-le-destre-candidano-b-ce-la-war-room-per-contare-i-voti/6456796/

giovedì 2 dicembre 2021

Berlusconi vuole candidarsi al Quirinale: a gennaio il videomessaggio. - Giacomo Salvini

 

COME NEL ’94 - Dopo il discorso della discesa in campo, questo si intitolerà: “Un nuovo sogno italiano”.

Al posto del “miracolo” sarà il “sogno italiano”. Il “nuovo sogno italiano”. Al posto dello sgabuzzino della villa di Macherio, dove abitava la moglie Veronica, con ogni probabilità ci sarà la villa di Arcore o la scrivania di villa Zeffirelli, nuovo quartier generale romano sull’Appia Antica. L’obiettivo però non è cambiato: dopo 27 anni, Silvio Berlusconi vuole scendere di nuovo in campo. Allora, nel 1994, il videomessaggio trasmesso a reti Fininvest unificate (“l’Italia è il Paese che amo…”) serviva per lanciare Forza Italia e correre da leader politico alle elezioni mentre crollava il sistema dei partiti. Oggi il videomessaggio servirà per rincorrere il sogno di una vita, quello che aveva promesso anche a mamma Rosa: la Presidenza della Repubblica. Ufficializzando, così, la sua candidatura. L’idea di Berlusconi e dei suoi consiglieri è quella di non registrarlo adesso – “è troppo presto” dicono ad Arcore – ma dopo Capodanno, alla vigilia del grande ballo del Quirinale. Se il leader di Forza Italia capirà che le condizioni per essere eletto saranno concrete, deciderà di giocare la carta del videomessaggio agli italiani.

D’altronde, mentre prosegue la caccia ai voti per essere eletto, Berlusconi sa benissimo che prima o poi una mossa per ufficializzare la sua candidatura dovrà farla. E, come suo solito, lo farà in grande stile. L’ipotesi del videomessaggio quindi sta prendendo sempre più piede tra i suoi consiglieri. L’idea è semplice: parlare a tutti gli italiani per convincere i parlamentari a scrivere il suo nome nel segreto dell’urna. Lo slogan su cui si sta riflettendo è: “Un nuovo sogno italiano”. Un modo per rievocare il 1994, ma allo stesso tempo presentarsi come il garante delle speranze dei cittadini. Un’idea non nuova visto che il remake del discorso del 1994 Berlusconi lo aveva già fatto nel 2019, in occasione del 25 esimo anniversario, alla vigilia delle elezioni europee. Questa volta però il nemico da battere non saranno più i “comunisti” o il M5S ma il coronavirus, la crisi economica e le “fratture sociali” del Paese”. Per questo Berlusconi sta pensando a un discorso che si baserà su tre principi: la lotta al Covid e i vaccini “per tutti”, la rinascita italiana come ai tempi del Dopoguerra e soprattutto la pacificazione nazionale dopo “trent’anni di guerra sulla giustizia”. Un modo, pensano ad Arcore, anche per tendere una mano ai suoi avversari storici. A questo aggiungerà anche una rappresentazione di sé che è già stata in parte anticipata con l’opuscolo che Berlusconi nelle ultime settimane ha fatto recapitare a tutti i parlamentari. Una brochure in cui si presenta come l’erede del liberalismo di Giolitti e del cattolicesimo di don Sturzo e De Gasperi e ricorda i suoi valori cardine: l’europeismo, la cristianità e il garantismo. Prima di gennaio, però, Berlusconi non starà fermo. Mentre continua la caccia ai peones, per tutto dicembre tornerà al centro della scena. Voci di corridoio parlano anche di un suo ritiro a Merano per una beauty farm in vista della sfida del Quirinale, ma ieri lo staff del leader di Forza Italia smentiva seccamente. A ogni modo Berlusconi vedrà spesso gli alleati Matteo Salvini e Giorgia Meloni e continuerà a dare interviste per corteggiare i parlamentari: solo nelle ultime due ha elogiato il Reddito di cittadinanza e le tematiche ambientaliste per lisciare il pelo agli ex M5S. Avance confermate ieri anche da Luigi Di Maio che, pur auspicando un accordo col centrodestra e spiegando che l’ex premier “sarà fregato dai suoi”, ha detto: “Non sottovalutiamo la presa di Berlusconi sul Parlamento, lui ci crede”. Ed è proprio così. Non è un caso che a sostenere l’ex premier ci siano gli stessi che lo aiutarono, alcuni malvolentieri, a scrivere il discorso del 1994.

Tra questi Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Marcello Dell’Utri. Manca quel Paolo Del Debbio che scrisse la prima bozza del discorso per la discesa in campo. Ironia della sorte, 27 anni dopo, proprio Berlusconi ha deciso di rinnegare il suo ghostwriter chiudendo il suo programma tv Diritto e Rovescio per tutte le feste natalizie fino all’ultima settimana di gennaio. Obiettivo: frenare il “telepopulismo” proprio quando avrà bisogno di presentarsi come uno “statista” moderato.

I PARERI.

Grottesco

Silvio ghigna come Joker: adesso il parlamento è il suo harem.

Una fiera della vanità, un trono riservato a re taumaturghi osannati dal popolo e da tutta la classe politica e da tutta la stampa anche quando hanno un passato molto insudiciato: la corsa al Quirinale è questa, e i candidati al grottesco avanspettacolo non mancano. Primeggia fra loro Berlusconi, che forse scherza forse fa sul serio ma comunque ghigna come un Joker e ci guadagnerà.
È stato membro della P2, frodatore del fisco, corruttore, premier inaffidabile, ma da ora in poi si bisbiglierà: nonostante tutto è stato candidato alla massima carica dello Stato, corteggiato da non pochi parlamentari non meno vanitosi di lui, affamati di posti, di ribalta, di soldi o di impunità. Il Parlamento come suo nuovo harem: c’è chi lo ritiene inverosimile ma tante cose inverosimili s’inverano, non solo da noi. È così allettante essere Capo dello Stato in Italia, più che altrove: nessuno oserà più avvicinarsi al Sublime Scranno senza inchinarsi, e ogni critica sarà bandita e sarà sempre Natale.

Barbara Spinelli

Perché no.

Processi e pessima eredità culturale: l’Italia merita più dignità.

Di tutte le cose assurde che ti possono capitare nella vita – parecchie direi – questa è la più assurda: trovarsi a firmare una petizione per non vedere Silvio Berlusconi presidente della Repubblica. Lo dico per me, cittadino che intende conservare un po’ di dignità, e anche per la Repubblica Italiana, che un recupero di dignità se lo meriterebbe. È l’assurdo dell’impensabile che qualcuno però pensa, e lui più di tutti. Ma insomma tocca dire, fermi e gentili: no. Per una lista infinita di motivi conficcati da trent’anni nel corpo del Paese.
Le inchieste, le condanne, le millemila prescrizioni, e lo sappiamo. Ma anche la curvatura cultural-ideologica che l’uomo ha dato al Paese. Ma anche l’indefesso attacco alla magistratura. Ma anche – nella folle eventualità i dettagli raccapricciano – il suo ritratto presidenziale in ogni aula di tribunale: una cornice dorata, una maschera sorridente, la vittoria dei potenti impuniti, la volpe eletta guardia del pollaio. Ecco. No.

Alessandro Robecchi

Inadatto.

Non ci si può improvvisare uomini delle istituzioni, e lui non lo è.

Con un Paese che sta così faticosamente riprendendo a camminare, e devo dire con un ruolo riconosciuto anche all’estero, mi sembra davvero inopportuno ritrovarci davanti la proposta di Silvio Berlusconi presidente della Repubblica. Dobbiamo ricordarci che Berlusconi non è un uomo delle istituzioni, ha fatto una scelta diversa. Anche quando ricopriva importanti ruoli politici, è rimasto un imprenditore, ha sempre visto il mondo e la società con gli occhi di un imprenditore. D’altra parte era entrato in politica dopo Tangentopoli proprio perché era mancata la rappresentanza partitica di quel settore.
Non ci si può improvvisare uomini delle istituzioni né tanto meno presidenti della Repubblica. Mi sembra che per un capriccio personale l’Italia rischierebbe di aprire una voragine nel suo percorso di sviluppo. Dovrebbe essere lo stesso Berlusconi a capirlo e a fare un passo indietro.

Monica Guerritore

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/12/02/berlusconi-vuole-candidarsi-al-quirinale-a-gennaio-il-videomessaggio/6412541/

martedì 2 novembre 2021

In tutto il mondo è un flop. Da noi è il trionfo di Mario. - Tommaso Rodano

 

Una delusione collettiva ma un trionfo individuale. I media mondiali guardano al G20 sul clima e vedono risultati modesti, impegni deboli e poco ambiziosi, la stampa italiana invece vede un successo senza frontiere di Mario Draghi.

Repubblica ha forgiato un nuovo epiteto per il premier italiano: “Il tessitore Draghi”. Così lo definisce nel titolo di pagina 3, nel quale l’ex presidente della Bce esprime tutta la soddisfazione per il bilancio del meeting: “È stato un successo, teniamo vivi i sogni”. Nessuna delusione, si legge nel testo: “Il presidente del Consiglio pensa altro. Ritiene che si tratti di ‘una vittoria del multilateralismo’”. L’articolo del Corriere della Sera è ancora più enfatico. Titolo: “La tattica dell’empatia. Così Draghi ha ‘smosso’ anche Pechino e Mosca e evitato un fiasco finale”. Certo “è stato un compromesso”, spiega il Corsera, come ha dovuto riconoscere lo stesso Draghi “con professione di modestia e sincerità”. È “per i dietro le quinte che pochi conoscono” che “Mario Draghi si dichiara orgoglioso”. È a lui, musa del giornale di via Solferino, che si deve il conio di una nuova categoria giornalistica, a metà tra la psicanalisi e gli affari esteri: Draghi è promotore di “una sorta di empatia geopolitica”. Il premier è anche modesto: “Tutti gli riconoscono di aver gestito il vertice con ottimi risultati e grande competenza. Lui si schermisce: ‘L’autorevolezza dell’Italia dipende da me? No’. E accenna un sorriso”. Il Corriere infine mette le pagelle ai leder del vertice. Mario Draghi? Voto 9. Il Messaggero è quasi visionario: “Draghi: sostanza non bla bla”. Il bilancio è trionfale: “G20 Roma, nuovo corso mondiale e l’Italia guida la svolta”. La Stampa è scissa. Il vertice è andato malino, ma Draghi no. Così il titolo in prima è diviso a metà: “Successo di Draghi, ma spiccioli per il clima”. Ma il bicchiere è mezzo pieno: “Il premier è il faro del dopo Merkel”, sancisce l’editoriale di Alan Friedman.

Una sbronza collettiva, che rende imbarazzante il ritorno alla sobrietà. La stampa internazionale ha raccontato il meeting con entusiasmo appena diverso. Bbc: “Il G20 promette di agire per il clima ma assume pochi impegni”. Guardian: “I paesi poveri della Cop26 preoccupati per i limitati progressi sul clima del G20”. Sommario: “Ora le possibilità di rimanere al di sotto di 1,5 gradi stanno svanendo”. La Cnn definisce “weak” – debole – l’accordo trovato dai leader del G20, aggiunge che c’è “un gap enorme tra le promesse e le azioni”. El Paìs intervista il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. Il titolo è esplicito: “Basta trattare la natura come un gabinetto. Stiamo scavando le nostre tombe”. Per Le Monde “gli impegni su cui si sono accordati domenica a Roma (i leader del G20) potrebbero non essere sufficienti per portare un vero vento di speranza alla Cop26”. Secondo Frankfurter Allgemeine Zeitung “I paesi del G20 non riescono a concordare obiettivi climatici ambiziosi”. Per Japan Times “Il G-20 fallisce nel realizzare un progresso climatico, lasciando in salita la strada della Cop26”. Tutto questo, nonostante Mario Draghi.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/11/02/in-tutto-il-mondo-e-un-flop-da-noi-e-il-trionfo-di-mario/6376120/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3VPVfGBX8nugWBVP-JIASjeaqVenN499nssLvsnWOlj6HFNmKkTIdYKpw#Echobox=1635841763

sabato 16 ottobre 2021

Andrea Scanzi su Travaglio

 

Leggo molti commenti del tipo: “Ma l’hai sentito Travaglio sul green pass? Non ti vergogni di non pensarla come lui?”. E giù insulti.
Ovviamente chi ragiona così è un cretino ignorante e violento, infatti è un no vax e no pass (non tutti sono così, lo so bene, ma tale tipologia non manca da quelle parti). In primo luogo Travaglio non è no vax e no pass, ma contesta l’obbligo del green pass per lavorare. Una posizione che non condivido, ma pertinente e motivata. Come lui, tra i no pass, ce ne sono purtroppo pochissimi. Soprattutto in Rete, dove il sottosviluppo neuronale è spaventoso.
In secondo luogo, l’idea che in un giornale tutti la debbano pensare in maniera uguale è terrificante. È un ragionamento idiota da tifoso cieco, che mi fa schifo. Per fortuna il Fatto Quotidiano contiene pareri diversissimi tra loro. Menomale!
Io e Marco la pensiamo in maniera diversa sul green pass. E quindi? È così anche dentro al Fatto: Montanari e Truzzi la pensano come Marco, Padellaro e Sommi come me. Eccetera.
Io e Marco siamo simili su tante cose e diversi su altre. Esempi? Marco è stato pienamente convinto dall’operato politico di Raggi, io ni. Marco è astemio, io no. Marco fuma, io no (a parte qualche sigaro). Marco è sorcino e ama la dance dei Settanta, io no. Marco non stravede per De André, io sì. Marco ha stima di Meloni (pur non condividendola quasi mai), io no. Marco adora il karaoke, io no. Marco pensa che Pantani sia stato punito giustamente, io no. Marco è filo Israele, io filo Palestina. Marco viene da una destra liberale in stile Giolitti o Merkel, io da una sinistra pertiniana e berlingueriana Eccetera.
E ciò nonostante, anzi proprio per questo, Marco è un amico. Un professionista esemplare. Uno dei più grandi giornalisti di sempre (per distacco). E una persona di rara correttezza e onestà, a cui devo e dovrò sempre moltissimo. È così difficile da capire?
Imparate a ragionare senza tifare, ragazzi. L’idea che un giornalista, un intellettuale, un artista eccetera sia da stimare solo quando la pensa come voi, è un’idea orribile.

Andrea Scanzi (fb)


Marco è nato sotto la scuola di Montanelli e non è mai stato un comunista convinto, anche se, tendenzialmente è di sinistra. Di lui possiamo dire che è un ottimo giornalista che ha le sue idee, delle quali alcune, tantissime, ottime e condivisibili, altre un po' meno. Tutto qui. La perfezione dicono sia degli angeli dei quali, peraltro, nessuno ha mai potuto dimostrare l'esistenza.

cetta.



lunedì 7 giugno 2021

Lavoro, ambiente: Conte pronto a “sfidare” Draghi. - Paola Zanca

 

Prime mosse - Dopo il divorzio da Casaleggio, parte la “rifondazione”.

Alzati gli occhi dal proprio ombelico, i 5 Stelle dicono che la prima cosa da cambiare sarà al governo: niente più ambiguità su chi debba essere titolato a trattare con Mario Draghi, sarà l’ex premier a confrontarsi con l’attuale capo del governo sulle richieste del Movimento nell’esecutivo. E così, come oggi è in programma un incontro tra il presidente del Consiglio e il segretario della Lega Matteo Salvini, si intuisce che – dopo la prossima legittimazione della base – avverrà lo stesso con Giuseppe Conte. I due si sono già sentiti nei giorni scorsi, ma ora che la partita con Casaleggio si è chiusa e il voto sulla nuova piattaforma è vissuto come una formalità, l’ex premier è intenzionato a rimettere in fila un po’ di questioni, dopo settimane di sbandamento. Le schermaglie interne hanno inciso non poco nella tenuta dei gruppi parlamentari M5S e anche al governo è mancata un’interfaccia “ufficiale”: i rapporti tra Mario Draghi e il capo delegazione Stefano Patuanelli si sono decisamente raffreddati, non solo per le politiche anti-Covid prese dal governo appena insediato in materia di scuola, ma anche per la difficoltà a confrontarsi con un esecutivo in cui i testi dei decreti arrivano sul tavolo del Consiglio dei ministri senza che vi sia prima il tempo e il modo di ragionarne assieme. Non a caso, nelle ultime partite delle nomine, Draghi aveva individuato nel ministro degli Esteri Luigi Di Maio il suo interlocutore di riferimento.

Ora, ragionano nel Movimento, questa “ambiguità” verrà superata e sarà Conte a confrontarsi direttamente con il capo del governo. A cominciare da due dossier considerati di particolare urgenza. Il primo è quello che riguarda il lavoro, in particolare in merito alla fine del blocco dei licenziamenti e alle ripercussioni che avrà in materia di occupazione. L’altro è l’ambiente: se i Cinque Stelle sono entrati al governo in nome della “transizione ecologica”, è ormai evidente ai più che quello che gli è stato concesso non va oltre aver dato un nuovo nome al ministero. Le scelte del titolare della materia, quel Roberto Cingolani che Beppe Grillo presentò come “uno dei nostri”, si scontrano ormai quotidianamente con la svolta green che Conte va ripetendo di voler imprimere al M5S.

Infine, ma questa è faccenda delle ultime ore, l’ex premier ha spiegato ai suoi di voler chiedere chiarimenti a Draghi anche sul “conflitto di interessi” appena sancito dal decreto Semplificazioni, secondo il quale controlli e verifiche anticorruzione passeranno dalla gestione dell’Anac, autorità indipendente, agli uffici del ministero della Funzione pubblica: ovvero sarà il governo a controllare se stesso.

Sono questi, dunque, i primi tasselli che Conte ha intenzione di rimettere in sesto. L’obiettivo è chiudere le questioni interne quanto prima, ma – come ha ricordato ieri Vito Crimi – per modificare lo Statuto serve “un preavviso di convocazione di almeno 15 giorni rispetto alla data della votazione”. Prima le nuove regole andranno illustrate agli iscritti: era già stata organizzata una kermesse negli studi di Cinecittà, con interventi video di attivisti e portavoce, ma – ora che quasi tutta l’Italia sarà zona bianca – si è valutato di virare sulla piazza, anche se ancora non si è deciso quale. Il “trasloco” dei dati degli iscritti è in corso, a gestirli saranno una società informatica viterbese, la Isa srl, e un’altra azienda con sede a Roma, Corporate Advisors-Trust company, già citate nel provvedimento del Garante per la privacy che ha obbligato Casaleggio alla consegna dei dati. “Non fatemi fare l’avvocato perché altrimenti divento cattivo”, aveva confidato Conte ai suoi nelle lunghe settimane di trattativa. Alla fine, ha vinto la mediazione: a Casaleggio resta il marchio Rousseau, al M5S la libertà di superare “l’anomalia” di un fornitore di servizi che in realtà esercitava un condizionamento politico costante. Anche se forse, sono pronti a giurare, il desiderio di fare politica non gli passerà.

I PARERI

Cosa deve fare il nuovo leader M5S?

Obiettivi. Rianimare la collettività in coma, Amnistia per gli espulsi.

Giuseppe Conte non ha certo bisogno dei miei consigli e, infatti, ha già programmato un giro d’Italia estivo per ricordare chi sono i 5stelle ai tanti che pensano a un movimento in un declino inarrestabile, impegnato a dilaniarsi in squallide beghe da cortile. Inutile girarci attorno: dopo il tragico video di Beppe Grillo, le auto-flagellazioni non richieste di Luigi Di Maio, le risse mercantili con Casaleggio e Rousseau, i “non ci sto” dei Di Battista e associati, l’ex premier deve al più presto spendersi e spendere senza risparmio nome, esperienza e popolarità per rianimare una collettività politica in stato comatoso. Secondo. Una volta che l’M5S abbia ripreso i sensi occorre dare vita una normale struttura politica che preveda un dibattito interno trasparente e, quindi, la formazione di maggioranze e minoranze alla luce del sole. E quindi basta con la fenomenite di chi si reputa migliore del resto del mondo perché non è così. Terzo. Una grande amnistia secondo il precetto evangelico: lasciate che gli espulsi tornino a me. Amen.

Antonio Padellaro

Critiche. Non perdere tempo a scusarsi, anche se si resta al governo

Il movimento guidato da Giuseppe Conte non ha bisogno di passare il tempo scusandosi per quel che ha pensato o detto in passato, specie sulla giustizia, la povertà, la costruzione europea da riformare. Non porta fortuna essere riammessi nei salotti che comandano, come dimostrato dalla storia del Pd. Vale invece la pena riprendere le critiche radicali fatte all’Unione europea quando Conte negoziò il Recovery Plan e ottenne dalla Merkel, finalmente, l’accettazione di un debito comune e solidale. Il rischio, oggi, è che la parentesi virtuosa si chiuda, che Berlino torni all’ortodossia ordoliberale, all’austerità, al distruttivo scontro fra Stati creditori e debitori. Il rischio è quello di un’Europa neo-atlantica, che dilatando spese di difesa, commercio e armi, si unisca per strategie di regime change. Draghi è un garante di questa Restaurazione post-Covid, auspicata dall’ex ministro del Tesoro Schäuble. Tutto sta a non sprecare il tempo in autocritiche, anche se si resta nel governo.

Barbara Spinelli

Temi. Occupazione, green e salute: dia un motivo agli elettori per votare.

Un consiglio gratis a Giuseppe Conte: la smetta subito di parlare di dati degli iscritti, piattaforme telematiche, Carta dei Valori, Garante della privacy, debiti con Casaleggio etc. Non se ne può più. La trasparenza, certo; ma a forza di essere trasparente il M5S si sta avviando alla metafisica mentre il Governo dei Migliori fa cose politiche travestite da tecniche. Cominci a parlare dell’orizzonte politico: “lotta alle disuguaglianze socio-economiche” è vago. Se il Pd ha avuto un’idea (tassa di successione) può ben partorirne una anch’esso. Che si fa dopo lo sblocco dei licenziamenti? Il Jobs Act, modificato in parte dal dl Dignità, è ancora in vigore: non va abolito? Conte è stato rimosso perché un preciso gruppo di potere non voleva che gestisse i soldi del Recovery e che gli fosse riconosciuto il merito di aver portato l’Italia fuori dalla pandemia: capitalizzi quell’esperienza di Sanità pubblica e la faccia valere davanti a Draghi. E la Transizione ecologica (al nucleare)? Gli 11 milioni di elettori del 2018 devono avere motivi veri per votare M5S, non basta “perché il Pd è invotabile” o “perché l’alternativa è Salvini”, visto che adesso ci governano insieme.

Daniela Ranieri

Sondaggi. Per miracolo superano ancora il 15%: solo Conte può salvarli.

Ultimamente parlare di Movimento 5 Stelle non è solo noioso: è pure impossibile. Come fai a parlare del niente? Come lo racconti il sommamente evanescente? Servirebbe un filosofo, o meglio ancora un medium. Il M5S è entrato nel governo Draghi dopo una trattativa ridicola. Ha esultato pateticamente per la nomina del diversamente verde Cingolani, rivelatosi poi un ministro “grillino” quanto Gaia Tortora. Non sta toccando palla. Non ha anima. Non va in tivù per scelta (o per ammissione di evaporazione). Sui social è moscio come un post di Porro. Per mesi ce l’ha menata con la piattaforma Rousseau, per mesi ce la menerà (ancora!) col doppio mandato. Ha persino sdoganato il Ponte sullo Stretto e scoperto il fascino del garantismo in salsa Foglio. Noioso, esangue, caricaturale: il M5S è per distacco al suo minimo storico. Quindi tutto male? Tranne due aspetti. 1) Nonostante questa fase imbarazzante, stanno ancora sopra il 15%. 2) D’ora in poi deciderà tutto Conte. L’unico che può salvarli.

Andrea Scanzi

IlFQ

lunedì 24 maggio 2021

Ma mi faccia. - Marco Travaglio

 

Povera patria. “Franco Battiato, grande Artista ma piccolo Uomo” (Matteo Salvini, 27.3.2013). “‘Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te…’. Una preghiera, un ricordo e una canzone per il grande Maestro, Franco Battiato” (Matteo Salvini, 18.5.2021). “Salvini? Cambio canale” (Franco Battiato, Ottoemezzo, La7, 12.11.2015).

L’era del somaro bianco. “Roma nell’era del cinghiale”, “L’impressione è che l’era del cinghiale abbia pure qualche risvolto elettoralistico a carico della sindaca Raggi, che ne ha subìto l’escalation senza fare nulla…” (Filippo Ceccarelli, Repubblica, 17.5). “I cinghiali ‘ladri’ nuovo simbolo del degrado della Capitale. Siamo a Formello, a Nord di Roma… Il video ha preso a girare sui social. Lo ha ripreso anche il britannico Guardian dedicandogli un articolo non certo lusinghiero per Roma e dintorni” (Repubblica, 17.5). Formello non c’entra nulla col Comune di Roma: è un Comune a sé, amministrato da un sindaco della Lega. E la fauna selvatica è competenza della Regione Lazio. Ma d’ora in poi, ogni volta che Libero o il Giornale sparano una cazzata, saremo autorizzati a dire che l’hanno scritta Repubblica e dintorni.

Cheerleader. “L’altro giorno parlavo con un politologo che mi diceva che Draghi è come Ronaldo” (Silvia Sciorilli Borrelli del Financial Times, Ottoemezzo, La7, 21.5). “Passioni (poco) politiche: le Draghine raccontano le notti romantiche con il loro SuperMario. Le fan del Premier si scatenano sui social”; “In una missione sotto copertura ho scoperto le pagine delle ‘Draghine’, anche note come ‘Draghi Queens’, solo alcuni dei nomi in codice usati dalle fan più adoranti e perverse dell’attuale presidente del Consiglio. Si tratta delle naturali eredi di un’importante tradizione che vede le sue origini nelle ‘Bimbe di Conte’, fenomeno esploso durante la quarantena e poi diventato irrefrenabile. Per le Draghine, Mario non è semplicemente e solo Mario, no, è Granpa SuperMario, Daddy Draghi, se possibile Sexy Daddy” (Giornale, 12.5). Spegniamo le luci e lasciamoli soli.

Il dito e la luna. “Come scatarrare sui cittadini onesti” (Lucia Azzolina, deputata M5S, sul Senato che restituisce il vitalizio al corrotto Formigoni, 18.5). “Non male per l’ex Ministro della pubblica istruzione. Scatarrare. Sofisticato” (Carlo Calenda, eurodeputato Pd e leader di Azione, 18.5). “Che finezza la Azzolina che scatarra su Formigoni” (Noemi Barbuto. Libero, 20.5). “Scatarrare è un verbo poco elegante per un’ex ministra dell’Istruzione. C’è chi sputa l’anima per imparare le buone maniere e c’è chi usa un lessico politico appiccicato con lo sputo.

Questione di gusti. O di disgusti” (Aldo Grasso, Corriere della sera, 23.5). Grande sdegno per scatarrare, non una riga sul Senato che usa i nostri soldi per pagare un corrotto appena condannato pure dalla Corte dei Conti a restituire allo Stato 47,5 milioni di refurtiva insieme ai suoi complici. Scatarriamoci per loro.

Scambio di persona. “Tutto sta cambiando, dunque, e molto è già cambiato: Davigo e Beppe Grillo sul banco degli imputati” (Andrea Cangini, senatore FI, Foglio). No, gioia, Davigo e Grillo non sono neppure indagati. È il tuo padrone che è imputato e pregiudicato. Fattene una ragione.

L’ideona. “Voto agli avvocati per rendere più trasparenti le promozioni dei magistrati” (Alfredo Bazoli, deputato Pd, Dubbio, 21.5). L’ideale sarebbe farli nominare direttamente dagli imputati.

Senti chi parla. “Dopo la delusione come autore Casalino torna al soldo del M5S” (Domani, 22.5). In effetti il suo libro ha venduto solo trenta volte Domani.

The Genius. “Letta è identico a Zingaretti. Pure lui vuole legarsi ai 5Stelle” (Ivan Scalfarotto, Iv, sottosegretario all’Interno, Libero, 17.5). Bizzarro che, tra un movimento al 17-18% e un partitucolo al 2, il Pd preferisca il primo.

Il rosicone. “Di Gurdjieff si sa che ispirò anche Gianroberto Casaleggio, forse Beppe Grillo, e probabilmente certi ultimi tristi duetti del Maestro con Marco Travaglio. Ma di questo non si può dare colpa a nessuno” (Alberto Piccinini, Domani, 19.5). Triste sarai tu, noi ci siamo divertiti moltissimo. Comunque, se ti sbrighi, sei ancora in tempo a farti un duetto con Pupo.

Il titolo della settimana/1. “Crescita, la frusta di Draghi” (Stampa, 21.5). Oh sì, dài, SuperMario, frustaci ancora!

Il titolo della settimana/2. “Draghi: ‘Vaccinare il mondo’” (Corriere della sera, 22.5). E le altre galassie niente?

Il titolo della settimana/3. “I palestinesi nella pace di Abramo” (Piero Fassino, deputato Pd, espone il suo piano per la crisi israelo-palestinese, Repubblica, 17.5). Israeliani e palestinesi hanno molte colpe, ma forse un piano Fassino non se lo meritavano.

l titolo della settimana/4. “Nessuno dirà che Battiato era di destra” (Renato Farina e Francesco Specchia, Libero, 19.5). Forse perché non lo era.

Il titolo della settimana/5. “Parla Palamara: ‘Io come Davigo. I due casi sono analoghi, ma io sono sotto processo. Serve uniformità’” (Foglio, 18.5). Uahahahahah.

IlFQ

sabato 15 maggio 2021

Perplessità.

 

Interessante, anzi, interessantissimo, leggere i giudizi espressi da alcuni giudici in alcune situazioni;
secondo il loro parere Salvini, ministro degli interni, non permette ad una nave di attraccare in porto, ma non viene neanche processato perchè il fatto non sussiste; se ne deduce, pertanto, che fosse la nave a non voler attraccare;
l'Appendino, sindaco di Torino, invece, viene condannata a 18 mesi per i fatti successi in piazza ad opera di alcuni scalmanati; se ne deduce, pertanto, che il compito di un sindaco è andare in giro per la città ventiquattrore su ventiquattro, spada in resta, per evitare che fatti simili non avvengano più.
Ancora più incomprensibile è il fatto che una persona inqualificabile, per arrivare alla prescrizione, prendendosi gioco di una intera nazione e di tutta la magistratura nazionale, adotti il metodo inusuale di ricovero ospedaliero ad ogni approssimarsi di udienza in tribunale, per sopravvenute o persistenti cause di salute malferma... senza che qualcuno di loro intervenga per appurarne la veridicità... lascia basiti, perplessi... 

cetta

sabato 27 marzo 2021

I Conte non tornano. - Marco Travaglio

 

Nella schizofrenia generale (senza offesa per gli schizofrenici), almeno una cosa pareva assodata: Conte è politicamente morto. Tutti d’accordo: è “un venditore ambulante di microfoni” (Messina, Rep), “sul ponte sventola pochette bianca”, è “come Teodosio che davvero credette di poter fare l’imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino”, “sepolto dalla sua ambizione, il protagonista è di nuovo invisibile” (Merlo, Rep), “ricorda il repertorio del miglior Sordi” (Cundari, Foglio), “Sic transit gloria Conte, però che rapidità” (Gramellini, Corriere), “l’Avvocato del popolo esce di scena così, più simile a un capufficio in cammino verso la pensione che a un ex leader gratificato, fino a poco fa, dal favoloso 56% dei consensi. I suoi alleati l’hanno già dimenticato… È rimasto senza partito e sfide da combattere… Ora ciascuno di quei fallimenti e di quegli inutili show può esser messo in carico all’Avvocato del popolo e a lui solo” (Perina, Stampa), “Giuseppi diventa un caso umano: che fare di lui” (Belpietro, Verità), “c’era una volta Conte, o forse non c’è mai stato” (Guzzanti, Riformatorio), “mendica poltrone”, “Cerca poltrone, ma perde pure la cattedra”, “rischia l’oblio fino al 2022”,“ora l’avvocato è senza popolo” (Giornale), “il tramonto di Conte” (Domani). Una prece. Morto lui e, ovviamente, morti i 5Stelle, che peraltro erano morti da ancor prima di nascere.

Sì, vabbè, Grillo&C. provano a resuscitarlo come capo dei 5Stelle; ma, se metti un trapassato alla guida di un partito trapassato, ottieni un trapasso al cubo. Sì, vabbè, il compagno Letta incontra la buonanima di Giuseppi, ma è per l’estrema unzione; perciò definisce l’alleanza con lui e il M5S “avventura affascinante”: è il fascino del macabro. Eppure, inspiegabilmente, giornaloni e giornalini lanciano allarmi quotidiani, intimando a Letta di mollare Conte e i 5Stelle, e ovviamente di non cedere Roma alla Raggi, altra defunta che non prende un voto manco a piangere, ergo va costretta a scandidarsi. Ma benedetti ragazzi: se Conte, i 5Stelle e la Raggi sono morti, di che vi preoccupate? State sereni. Infatti l’altra sera a Dimartedì Polito el Drito e l’autorevole Cappellini lapidavano Zingaretti per aver sostenuto il de cuius anziché tutti i leader vivissimi e popolarissimi che ci sono in giro. Poi, mentre stavamo per prender sonno, ci è apparso Pagnoncelli col sondaggio: Conte 61%, Speranza 41, Meloni 37, Salvini 33, Letta 32; Pd e M5S in crescita; governo 48; Draghi non pervenuto. Ma doveva essere un fuoco fatuo, illusione ottica tipica di chi frequenta cimiteri. Sennò tutti i migliori esperti sarebbero dei cazzari. E questo è francamente impossibile.

IlFattoQuotidiano

martedì 9 febbraio 2021

Pci, quel “tagliacuci” sulla rivoluzione. - Gad Lerner

Macaluso, Petruccioli & C. retrodatano la nascita del partito al rientro di Togliatti in Italia e ridimensionano la figura di Gramsci. L’imbarazzo per la questione Mosca. E la messa in soffitta dell’utopia.

Per potersi definire “Comunisti a modo nostro”, come recita il titolo del loro dialogo appena pubblicato da Marsilio, Emanuele Macaluso e Claudio Petruccioli hanno scelto un ben strano modo di celebrare il centesimo anniversario della scissione di Livorno: saltare a piè pari i primi ventitré anni del partito, dal 1921 al 1944.

Liquidati come “una lunga notte buia”, col loro carico di eroismo e ferocia; e pazienza se furono gli anni del sogno rivoluzionario, dell’opposizione clandestina al regime fascista, dello stalinismo, della guerra, della Resistenza partigiana… il centenario va postdatato. Macaluso lo dichiara fin dalla prima pagina: per lui la vera storia del comunismo italiano comincia dal rientro in patria di Togliatti e dall’“accantonamento” del leninismo. Che permetterà la trasformazione del Pci in partito di massa, “non dico socialdemocratico, ma che si richiama alla tradizione socialista”.

Se vorrete dedurne che nel 1921 i due autorevoli ex dirigenti comunisti sarebbero rimasti col riformista Filippo Turati al Teatro Goldoni, anziché seguire Bordiga, Terracini e Gramsci al San Marco, non avrete tutti i torti. Tanto è vero che nella meticolosa rivisitazione da essi compiuta delle svolte della sinistra nel Dopoguerra, il senno di poi li condurrà quasi sempre a dar ragione alle componenti socialdemocratiche: che si tratti di Saragat contro Nenni nel 1947; del ripudio del marxismo decretato dalla Spd nel 1959 a Bad Godesberg; o del braccio di ferro sulla struttura del salario fra Craxi e Berlinguer nel 1984.

Lungo tutto questo arco di tempo il capolavoro politico del “partito nuovo” di Togliatti viene ascritto alla capacità del Migliore di guidare una trasfigurazione programmatica sotto l’ombrello dell’ideologia, tale da consentire ai nostri di autorappresentarsi più socialisti dei socialisti. Paghi del fatto che la “via italiana al socialismo” più nulla aveva a che spartire col “fare come in Russia” d’antan. Lo stesso compromesso storico proposto alla Democrazia cristiana da Berlinguer nel 1973, altro non sarebbe che il compimento di questa strategia togliattiana. Per cui a Berlinguer andrebbe semmai rimproverata la persistente visione anticapitalista, che gli impedisce di aderire fino in fondo al modello di società occidentale.

Logico che da questo tagliacuci della propria storia esca ridimensionata la figura di Antonio Gramsci, ridotto a malinconico pensatore solitario. L’ammirazione nostalgica dei nostri va tutta al Togliatti che fin da subito aveva voltato le spalle all’esperienza consiliare torinese dell’“Ordine nuovo”, convinto com’era che il conflitto sociale debba restare solo una leva al servizio del primato della politica. Ciò che spiegherà l’eterna diffidenza del gruppo dirigente comunista nei confronti dei movimenti per i diritti civili e di quant’altro emergesse alla sinistra del Pci.

Resta da giustificare la prosecuzione fino al 1989 del legame del Pci con l’Unione Sovietica. E qui i due autori si differenziano. Macaluso, seppur con imbarazzo, definisce inevitabile finanche il plauso all’invasione dell’Ungheria nel 1956, visto che l’appartenenza al blocco comunista forniva al Pci un sostegno insostituibile. Petruccioli è più critico nel confronto con la vecchia guardia e ci regala una testimonianza impressionante. Il giorno in cui crolla il Muro di Berlino va a bussare all’ufficio di Alessandro Natta per chiedergli un consiglio su come reagire. Ne ottiene una risposta sconsolata e terribile: “Caro Petruccioli, cosa volete fare… Ha vinto Hitler!”. Certo Natta non era un bolscevico; ma per un militante come lui, iscrittosi al Pci nel 1945, anche dopo il fallimento della Rivoluzione d’ottobre permaneva la necessità di un ordinamento sociale alternativo al capitalismo.

Più coerente di Macaluso e Petruccioli, un altro ex comunista a loro vicino, Paolo Franchi, pubblica per La nave di Teseo un saggio, “Il Pci e l’eredità di Turati”, in cui sostiene che il suo partito “si farà passo passo molto, ma molto, più ‘turatiano’ di quanto dicano le storie che vanno per la maggiore”. Peccato solo – sia detto per inciso – che anche lui sposi la grossolana forzatura secondo cui Umberto Terracini nel 1982 avrebbe detto: “A Livorno aveva ragione Turati”. Falso. Ben altro dovrebbe essere lo spirito con cui guardare un secolo dopo a quella pur tragica separazione, per trarne insegnamento.

Né ci aiuta in tal senso il pamphlet di uno storico militante come Luciano Canfora, La metamorfosi (Laterza), che svolge un ragionamento opposto a quello di Macaluso e Petruccioli condividendone però l’assurda post-datazione al 1944 dell’atto di nascita del Pci. Fervente togliattiano anch’egli, Canfora non crede affatto che il “partito nuovo”, indicando l’unità nazionale e le riforme di struttura come via italiana al socialismo, fosse destinato a sciogliersi nell’indistinto “democratico”. Anzi, sostiene che Occhetto, D’Alema e gli altri coetanei di matrice togliattiana nel 1989 avrebbero trascinato il partito al suicidio, facendosi alfieri di valori antitetici a quelli delle origini. Peccato che anche Canfora scelga di trascurare l’eredità, imbarazzante ma fertile, di quei primi ventitré anni “del ferro e del fuoco” in cui il partito forgiò il suo profilo ideale di avanguardia delle classi subalterne che aspiravano a un mondo nuovo, a una redenzione collettiva, alla giustizia sociale.

L’empito di fede rivoluzionaria maturato nelle sofferenze della Grande Guerra è il grande rimosso di questo centenario. E invece andrebbe studiato con rispetto, un secolo dopo, tanto più in un tempo che di nuovo si presenta drammatico. Peccato che gli ex comunisti, rimasti togliattiani di destra e di sinistra, o divenuti turatiani fuori tempo massimo, mostrino di appassionarsi esclusivamente alle controversie successive. Sembra che per loro ragionare di utopia rivoluzionaria sia solo un’infantile perdita di tempo.

Invece, chi potrebbe aiutarli a riconoscere il valore dell’utopia come leva motrice del cambiamento e ispiratrice dei movimenti di massa, è proprio il patriarca Antonio Gramsci. Ho trovato un piccolo aneddoto significativo nel diario di Camilla Ravera, la “maestrina” che nel 1926, dopo l’arresto di Gramsci, gli subentrò alla guida del partito. Quando lei e Umberto Terracini al confino di Ventotene subivano l’ostracismo del partito che li aveva espulsi, perché colpevoli di aver criticato il patto Hitler-Stalin e di indicare la prospettiva unitaria della Costituente, Camilla traeva consolazione dall’amicizia con il vecchio anarchico siciliano Paolo Schicchi. Il quale era stato tradotto sull’isola dal carcere di Turi, dove aveva fraternizzato con Gramsci. Lei stessa, quand’era detenuta lì vicino, a Trani, ne ricevette notizia dall’illustre prigioniero. Scrive dunque di Schicchi la futura senatrice a vita Ravera: “Era uno di quegli anarchici con cui Gramsci amava conversare. ‘Anche l’utopia serve al cammino degli uomini – mi diceva poi Gramsci, sorridendo – fa la sua tenue luce, là dove ciò che realmente sarà non sappiamo’…”. Ecco, forse è proprio l’utopia a mancarci, cent’anni dopo.

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