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domenica 15 agosto 2021

Recovery plan, Governo alla prova delle riforme e della spending review. - Dino Pesole

Illustrazione di Andrea Marson/Il Sole 24 Ore

 

Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma il sostegno a quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca).

Prima che esplodesse la pandemia, la pausa estiva ha coinciso per anni con il rituale richiamo da parte del ministro dell’Economia ai singoli titolari dei vari dicasteri perché cominciassero a predisporre per la ripresa autunnale il piano di razionalizzazione delle spese di competenza di ciascun ministero.
Inviti che spesso dovevano fare i conti con la naturale resistenza dei responsabili dei singoli dicasteri, poco propensi ad assecondare nuove stagioni all’insegna del rigore e dello stretto controllo dei conti pubblici.

Quest’anno, la lettera firmata nei giorni scorsi dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli e l’invito rivolto dal ministro dell'Economia, Daniele Franco con il decreto ministeriale in cui di fatto si avvia la fase di realizzazione degli interventi previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza hanno tutt'altro tenore: l’invito rivolto a tutti i ministeri è prima di tutto ad attrezzarsi per tempo perché l’obiettivo primario è rispettare gli impegni assunti con l’Unione europea.

I primi 25 miliardi e le prossime mosse del Governo.

La ratio che muove la linea d’azione del Governo si articola sostanzialmente su alcuni punti fermi. L’arrivo dei 24,9 miliardi dei fondi europei (sul totale di 191,4 miliardi assegnati all'Italia da qui al 2026) va inteso come una sorta di anticipo. Le relative risorse sono già impegnate e i primi progetti in rampa di lancio sono definiti: 106 progetti che nel Pnrr sono elencati nel dettaglio.
È il ministero dell’Economia a ripartire i fondi tra i vari dicasteri, e sarà lo stesso dicastero guidato da Daniele Franco a monitorare le fasi di attuazione dei progetti. La lettera di Garofoli sposta al tempo stesso il focus sull’altro decisivo fronte, non meno impegnativo, del Recovery Plan: quello delle riforme. Come indicato dalle linee guida di Bruxelles, e come recepito dallo stesso Pnrr, investimenti e riforme devono marciare in parallelo. Sono gli investimenti a garantire il successo delle riforme, e al tempo stesso sono le riforme il motore per far sì che gli investimenti vadano a buon fine.

La sfida dell’autunno e le riforme in cantiere.

Alla ripresa dei lavori, dopo la pausa estiva, è in agenda il varo di riforme strutturali ritenute prioritarie da Bruxelles, e che il Governo dovrà cercare di portare ad approvazione entro l’anno.
In rampa di lancio la riforma della giustizia civile, che dovrà completare il ciclo di interventi avviati con il faticoso varo della riforma del processo penale. Sarà tutt'altro che facile trovare una sintesi tra le diverse e per molti versi antitetiche ricette messe in campo dai partiti che sostengono il Governo.
Compito non meno impegnativo attende il disegno di legge delega che dovrà avviare il cantiere della riforma del fisco. Non sarà tanto il contenuto della legge “cornice” a creare problemi (il ddl delega contiene le linee portanti della riforma), quanto la successiva fase attuativa che sarà affidata ai relativi decreti legislativi.
Anche sul versante delle nuove misure in materia di concorrenza il confronto all’interno della maggioranza si annuncia tutt’altro che semplice, come già emerso nelle fasi iniziali di predisposizione del testo, che non a caso si è deciso di rinviare a settembre.

Non solo risorse in arrivo ma anche attenzione ai conti pubblici.

Tra gli impegni che il Governo ha assunto con Bruxelles e che tra breve torneranno puntuali ad animare il dibattito politico compare una nuova ed aggiornata versione della spending review, in sostanza un programma triennale di riqualificazione della spesa pubblica (con relativo taglio di quella che puntualmente viene definita “spesa improduttiva”) che dovrebbe partire dal 2023.

Diversi sono stati negli ultimi decenni i tentativi (affidati anche ai cosiddetti commissari) per porre sotto controllo la dinamica della spesa corrente. Ora si tratta di adeguare gli obiettivi alla mutata situazione innescata dal Covid. Non più tagli lineari, ma un’operazione a tutto campo che preveda di sostenere quei settori della spesa ritenuta prioritaria (la sanità è tra questi ma anche l'investimento in formazione e ricerca) e al tempo stesso di contenere l'aumento di voci di spesa su cui sarà possibile intervenire.

È il caso delle cosiddette “tax expenditures” (spese fiscali), altro settore su cui da anni si prova a intervenire con scarso successo. L’arrivo delle tranche del Recovery Fund è condizionato al rispetto del cronoprogramma (riforme e investimenti) ma non può essere interpretato come una sorta di “liberi tutti” che apra una stagione all'insegna del deficit spending (spesa in disavanzo). Ne è ben consapevole il ministro dell’Economia, Daniele Franco che ben conosce i meccanismi che alimentano i flussi di spesa nel nostro paese.

Deficit e debito sotto controllo.

La gestione oculata della finanza pubblica non è certo in controtendenza rispetto a una fase che vede il nostro paese come principale beneficiario dei fondi del Next Generation EU. Intanto occorre ricordare che una parte non certo secondaria dei fondi europei, pari a 122,6 miliardi, è rappresentata da prestiti che dunque andranno restituiti, se pur con scadenze non certo perentorie.
In secondo luogo, l’Italia (quale che sia il Governo che sarà chiamato a rappresentarla nei prossimi anni) dovrà comunque garantire un graduale e credibile percorso di riduzione del debito pubblico, che quest’anno lambirà il 160% del Pil.

Lo imporranno le condizioni di finanziamento del debito, quando la politica monetaria della Bce tornerà ad attestarsi su un sentiero di “normalità, e lo imporranno le nuove regole in materia di disciplina di bilancio europea che scatteranno a partire dal 2023, quando cesserà il triennio di sospensione del Patto di stabilità.

E qui torna in campo nuovamente il mix di riforme e investimenti che se attuate e realizzate secondo gli impegni assunti con Bruxelles potranno spingere sul pedale della crescita e dunque garantire la piena sostenibilità del debito pubblico nel medio periodo.
Non sono ammessi dunque ritardi e deviazioni dal percorso concordato. Una constatazione di cui dovrebbero essere consapevoli, al di là della propaganda, tutte le forze politiche. Se il Financial Times cita il nostro Paese come un esempio virtuoso, grazie soprattutto alla notevole credibilità di cui gode il presidente del Consiglio, Mario Draghi, pare evidente che questo patrimonio di rinnovata fiducia non va in alcun modo disperso.

Le prossime scadenze politiche, dalle elezioni amministrative di ottobre all’appuntamento con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica all'inizio del 2022, non devono in sostanza intaccare il patrimonio di credibilità conquistato a fatica negli ultimi mesi.

IlSole24Ore

martedì 30 marzo 2021

Pochi soldi, piccoli gabbati: sostegni peggio dei dl Ristori. - Patrizia De Rubertis

 

I nuovi ristori allo studio del governo saranno sempre un cantiere aperto, il cui ammontare degli aiuti susciterà malumori: troppi pochi soldi stanziati in un arco temporale troppo lungo, mentre imprese e professionisti restano in ginocchio, stravolti da un anno di chiusure o da orari di lavoro ridotti. Il copione si ripete dal maggio del 2020, lungo i quattro decreti che hanno stanziato i contributi a fondo perduto per compensare la diminuzione di fatturato causata dall’emergenza Coronavirus. E con le stesse accuse, la scorsa settimana, si è chiuso anche il più travagliato dei decreti, il “Sostegni”. Ma le categorie produttive coinvolte, dopo aver lungamente protestato per gli esigui contributi ottenuti, ora già rimpiangono i decreti precedenti che hanno previsto aiuti più elevati. E aspettano che il premier Mario Draghi attivi altri interventi. Si parla di un sesto decreto (e un nuovo scostamento di bilancio) che detterà anche le nuove regole per stabilire l’effettivo ammontare dei contributi a fondo perduto che, questa volta, dovrebbero andare solo alle imprese costrette a ulteriori misure più restrittive. Insomma, un piano di ristori che è l’esatto contrario di quello seguito dal decreto Sostegni che, abolendo i codici Ateco, da oggi distribuirà 11,5 miliardi di euro a una platea più ampia di beneficiari agevolando perlopiù le imprese che fatturano oltre 5 milioni di euro e lasciando ai piccoli le briciole. Tagliati fuori anche imprese e professionisti con un calo di fatturato minore del 30% tra il 2019 e il 2020.

Per capire meglio le accuse di ristoratori e negozianti, abbiamo chiesto alla Fondazione studi dei Consulenti del lavoro di elaborare una tabella di simulazione sui vari ristori messi in campo nell’ultimo anno per fare una comparazione. I decreti sono il dl Rilancio che, approvato nel maggio 2020, ha stanziato 6 miliardi di euro di contributi a fondo perduto, il dl Ristori dell’ottobre 2020 (12,4 miliardi), il dl Ristori bis del novembre 2020 (1,4 miliardi) e il dl Sostegni (oltre 11 miliardi). Non è stato considerato il decreto Natale che ha stanziato 645 milioni di euro ai soli titolari di partita Iva interessati dalle restrizioni imposte nelle zone rosse durante le festività natalizie. Se i dl Rilancio, Ristori e Ristori bis hanno preso come base di calcolo la differenza tra l’importo della media mensile del fatturato del mese di aprile 2020 su aprile 2019 delle attività previste dai codici Ateco, il dl Sostegni ha invece calcolato l’ammontare del contributo applicando una percentuale di ristoro in base alla differenza di quanto fatturato tra l’anno 2020 e il 2019. Perché questa differenza? Per ampliare la base dei beneficiari, il dl Sostegni ha notevolmente ridotto la base di calcolo, facendo diminuire anche gli importi erogati. Contestazione che arriva dal Servizio del Bilancio del Senato. Ma per i tecnici di Palazzo Madama ci sarebbe anche un problema di stanziamenti: i soldi del decreto del governo Draghi potrebbe non bastare avendo esteso i ristori anche alle maxi attività che fatturano fino a 10 milioni.

Bar. Prendiamo un bar con fatturato pre-Covid di 100mila euro e un crollo del 50% nel 2020. Se il suo fatturato nell’aprile 2019 è stato di 17 mila euro, esattamente un anno dopo ha registrato zero durante il lockdown. La prima tornata di ristori, che hanno praticamente riguardato tutte le attività, hanno permesso al barista di prendere 3.400 euro (il 20% dei ricavi). Importo salito a 5.100 euro a fine ottobre con il dl Ristori che ha tenuto la stessa base di calcolo, aumentando però le percentuali dei ristori. La nuova tranche di soldi del dl Sostegni (il dl Ristori bis ha previsto contributi solo ai codici Ateco esclusi dal decreto precedente) è quindi crollata a 2.500 euro.

Ferramenta. Stessa doglianza del barista arriva dal proprietario di una ferramenta (fatturato di 300 mila euro nel 2019 e di 210 mila euro nel 2020; con entrate di 15 mila euro ad aprile 2020 e 40 mila nel 2019) che ha preso solo 5 mila euro a maggio 2020 e ora 3.750 euro. Dal momento che la sua attività, considerata servizio essenziale, è rimasta sempre aperta, non ha percepito altri ristori. “I dati parlano da soli. L’ultimo decreto è un mini-sostegno che a piccoli e medi imprenditori non basterà a pagare un mese di affitto dei locali, ma ha accontentato le imprese che fatturano fino a 10 milioni, prima escluse da tutte le disposizioni”, commenta Rosario De Luca, presidente della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro.

Negozio di abbigliamento. Salendo con i fatturati si nota, infatti, che un negozio di abbigliamento che a maggio 2020 ha preso oltre 15 mila euro di ristoro, ha poi incassato il doppio a novembre e ora prenderà 11.600 euro.

Concessionaria di auto. Con il caso di scuola per chi fattura fino a 5 milioni di euro: una concessionaria d’auto. Esclusa dal Ristori e dal Ristori bis per il limite di fatturato, ha ottenuto 50 mila euro sia a maggio scorso sia ora con il dl Sostegni. Ma sono le imprese più grandi a rifiatare di più con l’aumento del tetto di fatturato da 5 a 10 milioni di euro: così oggi a richiedere i ristori, 66 mila euro, potrà essere per la prima volta anche un’azienda che produce plastiche.

IlFattoQuotidiano

venerdì 8 febbraio 2019

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’.

Taglio parlamentari, primo ok Senato. Pd invoca ‘resistenza civile’. M5s: ‘Volevano lo Stato su misura, non meno costi’

Il disegno di legge di riforma costituzionale ha superato il primo esame a Palazzo Madama (mancano ora altre tre letture). Il M5s auspicava l'accordo di tutte le forze politiche, ma i democratici hanno deciso di opporsi definendo il provvedimento "un attacco alla democrazia". In Aula si è presentato anche Luigi Di Maio: "Volevo godermi la scena. Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi della politica, ma avere uno Stato su misura in cui fare l'imperatore". A favore Fdi e Forza Italia.

Il Senato ha dato il primo via libera a “tagliare se stesso”, ovvero a ridurre i parlamentari da 945 a 600. Ma nonostante sulla carta ci si aspettasse il voto unanime da parte dei partiti, che da sempre (chi più chi meno) si sono schierati per rivedere le composizioni delle Camere, ci sono stati 54 no e 4 astenuti. Hanno votato contro il ddl di riforma costituzionale i senatori di Leu e Pd. In Aula anche Luigi Di Maio: “Volevo godermi la scena”, ha scritto poi su Facebook. “Renzi dimostra che non voleva tagliare i costi, ma farsi uno Stato su misura in cui fare l’imperatore”. I democratici, che in un primo momento sembrava si dovessero astenere, hanno scelto di opporsi alla riforma che, hanno dichiarato, secondo loro “è un taglio alla democrazia”. La senatrice Simona Malpezzi su Twitter ha invocato “la resistenza civile”: “Volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno”, ha scritto, “invece lo stanno chiudendo per buttare via le chiavi e con esse la nostra democrazia. Altro che taglia poltrone al Senato, oggi hanno incominciato a tagliare la libertà dei cittadini. Vergogna, resistenza civile“. Il gruppo Pd al Senato sta anche valutando di fare ricorso alla Corte costituzionale dopo che sono stati dichiarati inammissibili gli emendamenti al ddl. I democratici avevano proposto di legare il taglio dei parlamentari alla trasformazione del Senato in una Camera delle Autonomie, ma la proposta è stata dichiarata inammissibile dalla presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati. Di qui il loro no. In favore della legge hanno votato M5s e Lega, promotori del testo, ma anche Forza Italia e Fratelli d’Italia, che hanno motivato la scelta come “apertura di credito” alla maggioranza sul tema delle riforma, specificando che si richiederà una verifica nei passaggi successivi. Del gruppo delle Autonomie, a differenza di quanto sembrava in un primo momento, hanno votato contro Bressa e Casini. La Lega, con Calderoli, ha sottolineato piuttosto la maggior efficienza per due Camere più snelle: lo dimostra il fatto, ha detto, che già oggi il Senato fa le stesse cose della Camera con la metà degli eletti. “Il cavallo più magro corre di più”, ha affermato. Ma a parte un battagliero Calderoli la Lega è stata silente e non ha mandato nessuno dei suoi ministri in Aula.
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In Aula per l’occasione, in sostegno di quella che da sempre è una delle leggi bandiera dei 5 stelle, si è presentato Luigi Di Maio. Il vicepremier M5s ha poi scritto su Facebook: “Servono altri tre passaggi per farla diventare legge”, ha detto. “Il Pd ha votato contro, dopo che per tre anni quel signore che non è neppure il caso di nominare (Renzi ndr.) ci ha trascinato in quella riforma dimostrando così che non gliene fregava niente di tagliare i costi della politica. Gli fregava solo una cosa: di costruirsi un modello di Stato su misura in cui lui poteva fare l’imperatore senza neanche andare a votare perché non aboliva il Senato ma aboliva il voto per i senatori, aboliva la possibilità di eleggere i nostro senatori”. Quindi ha concluso: “Oggi sono andato al Senato e mi sono voluto godere la scena, ho visto i senatori tagliare se stessi e ho visto quelli di Fi e Fdi dire ‘non siamo d’accordo però la votiamo’ dimostrando un minimo di sensibilità con il popolo italiano. Ma come al solito, allo stupore non c’è mai fine, ho visto il Pd votare contro”.
Sulla carta ci si aspettava che fossero tutti d’accordo. Come oggi questa maggioranza, in passato anche Partito democratico e prima ancora Forza Italia avevano proposto di ridurre il numero degli eletti se non di abolire proprio l’elezione del Senato. Ma, come emerso già chiaramente nelle scorse ore con le proteste del Pd che ha parlato di “assassinio della democrazia”, il voto unanime sul disegno di legge di riforma costituzionale auspicato dal ministro Riccardo Fraccaro resta un miraggio. La conferma è arrivata nella tarda serata di mercoledì 6 febbraio, quando i senatori democratici si sono incontrati e hanno ribadito la linea del no al provvedimento. L’approvazione all’unanimità avrebbe evitato il passaggio del referendum, non previsto in caso di consenso di due terzi dell’Aula in seconda lettura. Anche oggi il Partito democratico ha ribadito la contrarietà al provvedimento: “Di Maio annuncia una festa per la prima lettura del ddl che chiama taglia poltrone”, ha scritto su Twitter il capogruppo al Senato Andrea Marcucci. “State attenti perché non riducono il numero dei parlamentari, ma cominciano a tagliare la democrazia. E poi ultima festa del M5s è stata per legge bilancio, e poi il Pil è crollato”.
Hanno invece votato con la maggioranza Forza Italia e Fratelli d’Italia. Anche se non sono mancati i dissidenti. L’unico del gruppo a votare contro il ddl è stato l’azzurro Raffaele Fantetti. Il senatore, eletto all’estero, ha sottolineato che il taglio comporterebbe una sottorappresentazione dei cittadini italiani residenti all’estero. Si sono invece astenuti gli “azzurri” Sandro Biasotti, Stefania Craxi e Sandra Lonardo, nonché Isabella Rauti di Fdi. Non hanno invece preso parte al voto, annunciandolo in aula, Andrea Cangini (Fi) e Andrea De Bertoldi (Fdi). Hanno spiegato di essere contrari al testo, ma anche di evitare il “no” anche perché i loro gruppi hanno votato per il ddl come gesto di “apertura di credito” verso la maggioranza sul tema più ampio delle riforme, da verificare nei successivi passaggi.
Cosa prevede il ddl: confronto con le altre democrazie. Il provvedimento prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e del numero dei senatori eletti da 315 a 200: in totale da 945 a 600. Inoltre il numero dei senatori di nomina presidenziale non potrebbe essere superiore a cinque. La modifica costituzionale si applica dal primo scioglimento o cessazione delle Camere, ma non prima di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge. Il Pd ha parlato di “taglio della democrazia” mentre per Fi “serve solo a distruggere il Parlamento”. Negli Stati Uniti la Camera dei rappresentanti è composta da 435 membri e il Senato da 100. In Spagna i cittadini eleggono i membri del Congresso dei deputati (350) e 208 senatori su 266 totali. I francesi eleggono i membri dell’Assemblea nazionale, 577 deputati, mentre il Senato (che non vota la fiducia) ha 348 grandi elettori. Sistema simile in Germania, dove il Bundestag conta ben 709 eletti (ma è un numero variabile), mentre la Camera Alta, il Bundesrat, appena 69. Nel Regno Unito la Camera dei comuni, ramo dominante rispetto a quella dei Lord, conta 650 parlamentari.
E con il taglio parte la riforma per adeguare il Rosatellum. Dopo l’approvazione della riforma che taglia il numero di senatori e deputati, il Senato ha iniziato l’esame della legge elettorale che dovrebbe essere applicata in conseguenza della riduzione dei parlamentari, il cosiddetto Rosatellum ter. Il testo, presentato da M5s e Calderoli, prevede infatti di applicare l’attuale sistema elettorale – il Rosatellum – anche al caso di un minor numero di eletti nei due rami del Parlamento. Il disegno di legge contiene una delega al governo a ridisegnare i collegi che, ovviamente saranno meno numerosi e più grandi. La delega riguarda sia i collegi uninominali che quelli plurinominali proporzionali. Nella seduta odierna si svolgerà solo la discussione generale.