Concetto ribadito. La Corte di Giustizia di Lussemburgo ha sentenziato, per ben due volte, che la norma precedente fosse in contrasto col Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
Molti di coloro che vorrebbero il ritorno alla prescrizione che continua a decorrere anche dopo una condanna in primo grado si dichiarano europeisti, ma evidentemente ignorano la ben diversa posizione dell’Unione europea sulla questione.
La Corte di giustizia dell’Unione europea (grande sezione), con sentenza 8 settembre 2015, aveva ritenuto che la previgente prescrizione italiana fosse in contrasto con l’art. 325 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue).
La normativa italiana prevede un termine di prescrizione il cui decorso può essere interrotto dal compimento di determinati atti processuali. Dopo l’interruzione il termine ricomincia a decorrere, ma complessivamente non può superare un quarto del termine massimo. Ad esempio, se un reato è punito con una pena non inferiore a sei anni di reclusione, la prescrizione è di sei anni che decorrono dalla commissione del reato. Se viene compiuto un atto interruttivo (ad esempio l’interrogatorio dell’imputato) i sei anni ricominciano a decorrere da tale ultimo anno, ma il termine complessivo non può superare sette anni e sei mesi.
La Corte di giustizia Ue aveva deciso che un sistema simile pregiudicava la possibilità di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea come in materia di imposta sul valore aggiunto (Iva). Di conseguenza con la sentenza citata (chiamata Taricco) la Corte Ue aveva stabilito che i giudici nazionali dovessero disapplicare la normativa nazionale nella parte in cui poneva un limite di un quarto alla proroga del termine di prescrizione.
In alcuni casi i giudici nazionali disapplicarono tale limite, condannando anche quando, in applicazione del limite di cui all’art. 160 e 161 del codice penale, era maturata la prescrizione. Altri giudici si posero il problema che la disapplicazione loro demandata dalla Corte Ue strideva con alcuni vincoli costituzionali (divieto di retroattività di norme sfavorevoli in materia penale, riserva di legge nella stessa materia, indeterminatezza del concetto di gravi frodi) e sollevarono questioni di legittimità costituzionale.
La Corte costituzionale con ordinanza n. 24 del 2017 sollevò questione di pregiudizialità comunitaria innanzi alla Corte di giustizia Ue segnalando la possibilità di contro limiti quali la prevedibilità delle decisioni, la non retroattività e la natura sostanziale (e non processuale) della prescrizione italiana, la riserva di legge.
La Corte Ue (Grande sezione) con sentenza 5 dicembre 2017 ribadiva il contenuto della sentenza Taricco (punti 29-39), ma rilevava che – sino all’adozione della direttiva (Ue) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio – il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di Iva non era oggetto di armonizzazione da parte del legislatore Ue (punto 44), con la conseguenza che la Repubblica italiana era libera, “a tale data”, di assoggettare il regime della prescrizione “al principio di legalità dei reati e delle pene” (punto 45). Affermava poi che “il principio di legalità dei reati e delle pene, nei suoi requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale applicabile”, riflette le “tradizioni comuni agli Stati membri” e ha identica portata rispetto al corrispondente diritto garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (punti 51-55).
Spetta perciò al giudice nazionale il compito di verificare se il riferimento operato nella sentenza Taricco (punto 58) a “un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile”. Ove incertezza fosse rilevata dal giudice nazionale, essa “contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile”, con la conseguenza che “il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione” (punto 59). In ogni caso il divieto di retroattività vigente in materia penale impone di escludere che possano essere disapplicate le norme sul regime di prescrizione “interno” per i fatti commessi prima della pronuncia Taricco; altrimenti, gli accusati potrebbero essere “retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (punto 60).
Detto questo l’ordinanza di rinvio della Corte costituzionale richiamava la responsabilità del legislatore e la Corte di giustizia ha stabilito che “spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 Tfue”.
Questo significa che il ritorno puro e semplice al precedente sistema di prescrizione, invocato da alcune forze politiche anche in occasione della recente crisi di governo, porterebbe all’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia per violazione di tali obblighi.
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