venerdì 18 settembre 2015

Due buchi neri in rotta di collisione.

Rappresentazione artistica dei due buchi neri in rotta di collisione nella costellazione della Vergine (fonte: P. Marenfeld/NOAO/AURA/NSF)Rappresentazione artistica dei due buchi neri in rotta di collisione nella costellazione della Vergine (fonte: P. arenfeld/NOAO/AURA/NSF)


Accadrà fra 100.000 anni, a 3,5 miliardi di anni luce dalla Terra.


E' in uno sfarfallio di luce l'indizio dell'inevitabile scontro tra due buchi neri in 'rotta' di collisione. Di questa catastrofe cosmica che avverra' a 3,5 miliardi di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Vergine, non potremo che osservare qualche 'lampo', visto che il violentissimo scontro avverra' solo fra 100.000 anni.

La scoperta, della Columbia Univeristy di New York, e' pubblicata sulla rivista Nature e potrebbe rivelare le inafferrabili onde gravitazionali, 'increspature' dello spazio tempo previste dalla teoria della relativita' che si genererebbero in occasione di eventi molto violenti, proprio come lo scontro tra due buchi neri.
"Identificare le onde gravitazionali - ha spiegato uno dei coordinatori della ricerca, Daniel D'Orazio - permetterebbe di svelare i segreti della gravita' e di testare la validita' della teoria di Einstein".

E' ormai accertato che al centro di gran parte delle galassie si trovi un buco nero. Questi 'mostri cosmici' si alimentano inglobando tutto cio' che li circonda: polveri, gas e perfino galassie e buchi neri piu' piccoli. Tuttavia osservarli e' quasi impossibile perche' neanche la luce riesce a sfuggire dalla loro potente attrazione gravitazionale. 
E' possibile pero' riconoscere le tracce dei loro 'pasti' nei quasar, potenti emissioni di radiazioni emesse dai materiali in caduta all'interno del buco nero. Queste emissioni sono generalmente casuali, ma analizzando il segnale della quasar PG 1302-102 i ricercatori hanno osservato uno strano 'sfarfallio'.

Seguendo questo indizio hanno scoperto che PG 1302-102 e' in realta' una coppia di buchi neri molto vicini tra loro: sono distanti appena una settimana-luce, ossia circa 180.000 milioni di chilometri e il loro impatto avverra' tra circa 100.000 anni.


http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/spazioastro/2015/09/17/due-buchi-neri-in-rotta-di-collisione_a5d3c641-4d32-4841-b395-af8299529cdb.html




Due buchi neri al centro del quasar più vicino alla Terra. - Mario Di Martino


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Due buchi neri supermassicci sono stati scoperti nella regione centrale nel nucleo luminosissimo di una galassia vicina.

Un quasar (da QUASi-stellAR radio source, radiosorgente quasi stellare) non è altro che il nucleo di una galassia estremamente luminoso. Il nome deriva dal fatto che questi oggetti, la cui natura è stata controversa fino ai primi anni ‘80, furono inizialmente scoperti come potenti sorgenti radio, la cui controparte ottica risultava puntiforme e del tutto simile a quella di una stella. Si tratta di nuclei di galassie molto distanti, che emettono una quantità di energia equivalente a quella di centinaia di galassie normali.

PICCOLI MA POTENTISSIMI. Nonostante la loro enorme luminosità, le dimensioni dei quasar sono confrontabili con quelle del Sistema Solare, e comunque non sono più grandi di pochi anni luce. Un altro aspetto caratteristico di questi oggetti è che emettono grandi quantità di energia su tutte le lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, dai raggi gamma, ai raggi X, ai raggi ultravioletti, al lontano infrarosso e, per circa il 10% dei quasar noti, fino alle frequenze radio.


Immagine del quasar Markarian 231, distante dalla Terra circa 581 milioni di anni luce, ripresa dal telescopio spaziale Hubble. | STSCI/AURA

LA DANZA DEI MOSTRI. L’oggetto di cui parliamo qui non è un quasar qualunque, ma uno nella cui regione centrale sono stati scoperti due buchi neri supermassicci che orbitano attorno al comune centro di gravità. Si tratta del quasar noto come Markarian 231 (Mrk 231) ed è il più vicino alla Terra di tutti i circa 200.000 oggetti di questo tipo finora conosciuti. Dista infatti da noi “soltanto” 581 milioni di anni luce.

La scoperta è stata fatta utilizzando il telescopio spaziale Hubble e l’analisi dei dati suggerisce che questi sistemi binari potrebbero essere molto comuni nei nuclei galattici attivi, essendo il risultato di violente fusioni tra galassie. La coppia genera una grande quantità di energia che rende il nucleo della galassia ospite tanto luminoso da essere paragonabile all’energia emessa da miliardi di stelle.
UNA SCOPERTA INDIRETTA. I due buchi neri non sono stati osservati in maniera diretta, ma la loro presenza è stata dedotta grazie ai risultati di un modello messo a punto sulla base dell’analisi della radiazione ultravioletta emessa da Mrk 231.

Se nella regione centrale del quasar, infatti, esistesse un solo buco nero, l'intero disco di accrescimento circostante, costituito da gas caldo e polveri che spiraleggiano vorticosamente prima di essere fagocitati da questi “mostri celesti”, avrebbe emesso una intensa radiazione nella banda ultravioletta. L’emissione ultravioletta, invece, diminuisce bruscamente verso il centro del sistema, come se il disco fosse in realtà a forma di ciambella.
Uno spettacolare scontro tra galassie
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La migliore spiegazione per i dati rilevati, basata su modelli dinamici, suggerisce che la parte centrale del disco sia stata “scavata” dall’azione di due buchi neri che orbitano uno intorno all’altro. Il più piccolo della coppia, inoltre, sembra possedere un proprio mini-disco.

DAVIDE E GOLIA. Il buco nero centrale ha una massa stimata in circa 150 milioni di volte quella del Sole, mentre quella del compagno è pari a "soltanto" 4 milioni di masse solari. I due oggetti compiono un’orbita attorno al comune baricentro in 1,2 anni. Si ritiene che il buco nero più piccolo sia ciò che rimane di una precedente fusione tra un’altra galassia e Mrk 231, che ha trasformato quest’ultima in una “galassiastarburst”, cioè in una galassia in cui il tasso di formazione stellare è circa 100 volte superiore a quello attuale della Via Lattea.

Illusioni celesti.

UNA SEQUENZA DI FUSIONI. L’evoluzione dell’Universo è caratterizzata dalla fusione di sistemi più piccoli in sistemi più grandi e i buchi neri binari sono una conseguenze naturale di questi processi. Anche i due buchi neri appena scoperti, nel corso del tempo, si scontreranno e si fonderanno per formare un unico buco nero supermassiccio centrale.

http://www.focus.it/scienza/spazio/la-danza-di-due-buchi-neri-al-centro-del-quasar-piu-vicino-alla-terra

Scoperta negli Stati Uniti la proteina che rigenera il cuore dopo l'infarto.

Scoperta negli Stati Uniti la proteina che rigenera il cuore dopo l'infarto


I test effettuati su topi e maiali dimostrano che la follistatina-like 1 "ripara" i danni subiti da tessuti e muscolo cardiaco.

 - Esiste una proteina che ripara il cuore e rigenera i tessuti dopo un infarto: si chiama follistatina-like 1 (FSTL1) e su topi e maiali si è rivelata capace di stimolare la formazione di nuove cellule del muscolo cardiaco. La scoperta, effettuata dai ricercatori americani dell'Università di Stanford e descritta sulla rivista Nature, potrebbe aprire una nuova pagina nella cura dell'infarto e degli attacchi cardiaci.
Il cuore dei mammiferi non è infatti capace di auto-ripararsi completamente dopo una grave perdita di cellule del cuore, dette cardiomiociti, che si registra con l'insorgenza di un infarto. E fino ad oggi la comunità scientifica aveva scoperto poco o nulla sui fattori che limitano la rigenerazione delle cellule del muscolo cardiaco.

Lo studio statunitense, però, è riuscito a dare una spinta decisiva alla ricerca. Negli individui sani la proteina "miracolosa" si trova sull'epicardio, la membrana che circonda la parete del cuore. In seguito a infarto, invece, se ne perdono completamente le tracce. Utilizzando una sorta di cerotto bio-ingegnerizzato, che imita il tessuto dell'epicardio e funziona come una "riserva" di proteina FSTL1 negli animali infartuati, i ricercatori hanno osservato la crescita delle cellule del muscolo del cuore, nonché il miglioramento delle funzioni cardiache. Che tradotto significa sopravvivenza.


Leggi anche: 

Isola di Disko, Groenlandia. - Evasio Catalano



Sembra uno di quei paesini usciti da una favola ed invece esiste davvero. Siamo in #Groenlandia, precisamente nell'isola di Disko.
La conoscevate?
 


https://www.facebook.com/mondoaeroporto/photos/a.389887389423.165822.54040324423/10153576036719424/?type=1&theater

LA SEMPLIFICAZIONE CHE COMPLICA. - Francesco Pallante (*)

La semplificazione che complica

Uno dei temi che, in questi anni, ha dominato il dibattito sulle riforme è quello della semplificazione. Il nostro sistema politico, costituzionale, legislativo, amministrativo, burocratico – si dice – è troppo complicato. Occorre introdurre riforme che semplifichino.
Il tema ha una sua forza evocativa. Viviamo in un sistema viziato da duplicazioni, contraddizioni, irragionevolezze ed è difficile rimanere insensibili alle sirene di una parola come “semplificazione”, sebbene abbia risvolti demagogici (valga per tutti Calderoli che, da ministro, incendia una catasta di vecchie leggi) e ideologici (le regole intese come pericolosi limiti alla libertà naturale dell’uomo) piuttosto evidenti.
Ieri si diceva: semplifichiamo il tipo di Stato, avvicinando le istituzioni ai cittadini tramite il federalismo. Com’è andata a finire? Lasciamo perdere gli scandali; limitiamoci agli effetti istituzionali del nuovo Titolo V. Ha semplificato o complicato il sistema? Un dato vale più di molti discorsi: nel 2001, l’anno della riforma, il contenzioso tra Stato e regioni aveva originato trentatré questioni di costituzionalità; due anni dopo le contese erano salite a cinquantasette; nel 2013 erano giunte a centoquarantanove. Ancora oggi siamo ben oltre i dati del 2000. Ciò che prima era un contenzioso fisiologico, nel quadro di un riparto di competenze sostanzialmente chiaro, è diventato il patologico strumento attraverso cui chiarire chi fa cosa, in un quadro d’incertezza senza pari.
Oggi di dice: semplifichiamo la forma di governo, eliminando quell’inutile istituto che è il bicameralismo perfetto. Riduciamo le competenze del Senato – è l’argomento – e l’intero sistema ne trarrà beneficio: niente più complicazioni derivanti dalla doppia lettura, niente più rischio di incontrollati “rimbalzi” da una Camera all’altra, niente più ritardi nei processi decisionali. Si potrebbe replicare, dati alla mano, che la duplicazione del procedimento è l’eccezione, non la regola: normalmente, la seconda Camera si limita a ratificare in tempi ragionevoli le decisioni della prima. E poi, mentre una Camera lavora su un progetto di legge, non è che l’altra stia lì a far niente: nel medesimo frangente lavora su un diverso progetto e ciò assicura un’accelerazione, non un rallentamento, dei tempi (non è un sofisticato ragionamento di diritto costituzionale, così come non serve un idraulico per capire che due tubi scaricano l’acqua più in fretta di uno).
Ma, prendiamo sul serio la sfida dei riformatori e andiamo a verificare come immaginano di semplificare il sistema.
L’articolo 70 della Costituzione in vigore è lapidario: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere”. Nove parole, comprensibili da chiunque. La versione “semplificata” del nuovo testo costituzionale non è agevolmente riproducibile: ammonta a 432 parole (più o meno quante ne sono servite per arrivare fino a qui). Sorvoliamo: in fondo non è detto che quantità e qualità vadano di pari passo.
Ma, che dire dell’abuso dei rimandi interni? In molti casi, nel disciplinare la procedura di adozione di determinate leggi, anziché, per esempio, “le leggi in materia di autorizzazione alla ratifica dei trattati europei” è scritto: “le leggi di cui all’articolo 80, secondo periodo”, come se chiunque potesse agevolmente cogliere il rinvio. Si tratta di una tecnica sconsigliata da tutti i manuali di legistica, che i costituenti avevano accuratamente evitato di utilizzare. Ne va della comprensibilità del testo. La Costituzione – si diceva – non è un regolamento di condominio; tutti devono poterla leggere e capire con facilità. Del nuovo articolo 70 non si riesce nemmeno ad arrivare al primo punto fermo senza riprendere fiato, figurarsi dare un senso alla decina di rimandi che contiene. Ma, sorvoliamo ancora: magari la nuova regola è scritta male, però poi, all’atto pratico, prevede una procedura che effettivamente semplifica l’attuale bicameralismo perfetto.
Vediamone, allora, il contenuto.
Se passasse la riforma, non avremmo più un solo procedimento legislativo, ma occorrerebbe distinguere tra:
  1. leggi approvate, come oggi, da entrambe le Camere;
  2. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori trenta giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
  3. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera;
  4. leggi approvate solo dalla Camera, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare a maggioranza assoluta, entro ulteriori dieci giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera sempre a maggioranza assoluta;
  5. leggi approvate solo dalla Camera a maggioranza assoluta, salvo il Senato decida entro dieci giorni di esaminarle e di approvare, entro ulteriori quindici giorni, proposte di modifica su cui deciderà, poi, in via definitiva la Camera.
Semplificazione Da un solo procedimento, si passerebbe a cinque. E, in quasi tutti, le possibili letture parlamentari salirebbero da due a tre.
Non sembra difficile, inoltre, immaginare una nuova ondata di contenzioso costituzionale, questa volta tra Camera e Senato, in ordine al tipo di procedimento da seguire nei diversi casi (in proposito, il nuovo articolo 70 si limita a prevedere che i presidenti delle Camere decidono, di comune intesa, sui conflitti di competenza: ma, chi assicura che l’intesa sia effettivamente raggiunta?).
Vien da dire che avesse già capito tutto Montesquieu, quando scriveva che “nel momento in cui un uomo si fa signore assoluto, pensa innanzi tutto a semplificare le leggi” (Esprit des Lois, VI, II).
(*) Francesco Pallante fa parte del Consiglio di Direzione di Libertà e Giustizia

QUELLI DEL SÌ E QUELLI DEL NO. - Elisabetta Rubini

Quelli del sì e quelli del no

Negli ultimi giorni il presidente del consiglio si è (nuovamente) esibito in una serie di anatemi contro i suoi ormai usuali nemici di comodo. Davanti al blasonato pubblico dell’incontro di Cernobbio ha tuonato contro i “salotti buoni”, mentre al festival dell’Unità a Milano ha riproposto la divisione degli italiani tra i buoni – quelli del sì – e i cattivi – quelli del no.
Mentre non è chiaro ormai a cosa si riferisca la vetusta espressione “salotti buoni”, che finita l’era di Mediobanca non pare avere concreti riferimenti nel paese, è invece chiarissimo con chi se la prende Renzi nella contrapposizione tra quelli del sì e quelli del no.
I primi si identificano con coloro i quali, nell’immaginario del presidente del consiglio, aderiscono entusiasti alla via del cambiamento tracciata da lui medesimo, senza opporre inutili obiezioni o sollevare sgraditi dubbi.
I secondi, va da sé, sono invece coloro i quali obiettano, distinguono, criticano e, così facendo, dimostrano un’attitudine deplorevolmente recalcitrante rispetto alle luminose prospettive indicate dal governo.
Sono quelli che, anziché inghiottire contenti le “riforme” – qualsiasi cosa voglia dire questo termine, che ha smarrito ogni aggancio a precisi dati di realtà – pretendono di dire la loro, di suggerire alternative, di invocare (addirittura!) superiori competenze. Sono, insomma, i “gufi”, anzi meglio: i “gufi laureati”! espressione di nuovo conio varata a Milano e che avrà sicura fortuna presso gli estimatori del tirar dritto.
Nel suo evidente tentativo di ipersemplificare i conflitti e le complessità della vita associata, il presidente del consiglio sembra avviato verso l’utilizzo di un linguaggio sempre più smaccatamente populista: da un lato, i “salotti buoni”, in cui oscuri potenti tramano contro di lui, vengono evocati allo scopo di sollecitare la solidarietà del “popolo”, dei piccoli imprenditori, della classe media. Dall’altro, una falange di “sapientoni” sempre ostili, che antepongono i loro privilegi al bene del paese, sono dipinti per tirare dalla propria parte i “semplici”, per far apparire le opposizioni come minoritarie e passatiste. Alle quali si contrappongono i fiduciosi, i progressivi, i sani.
Quante volte in tragiche vicende del passato si è dovuto assistere a questo utilizzo sconsiderato del linguaggio per screditare chi la pensa diversamente, per costruire artificiose alleanze contro nemici immaginari?
E’ un linguaggio umiliante, per chi lo usa e per i cittadini che ne sono involontari destinatari; i quali vengono interpellati non come cittadini pensanti ma come “pubblico” suggestionabile mediante vaghe parole d’ordine e la creazione di barriere tra chi la pensa come il capo e chi invece no. In un mondo complesso e su temi ardui come il funzionamento della democrazia, nessuno ha la risposta giusta in tasca e tutti – “sapientoni” per primi – devono essere aperti al confronto. Ma certamente il linguaggio del populismo non è il linguaggio della democrazia.

IDEE E RAGIONI PER UN NO ALLA RIFORMA COSTITUZIONALE. - ALBERTO VANNUCCI

Idee e ragioni per un no alla riforma costituzionale

La ripresa dell’attività parlamentare dopo la pausa estiva pone al centro del dibattito pubblico la seconda lettura del disegno di legge di riforma della nostra Costituzione. Si tratta di uno snodo cruciale per il futuro della democrazia italiana: le scelte politiche operate nelle prossime settimane rischiano di inquinare in profondità il funzionamento delle nostre istituzioni rappresentative per decenni a venire. Eppure ampi settori dell’opinione pubblica sembrano vivere questa fase storica in una condizione di torpore, con un distacco misto a insofferenza. Hanno contribuito a quest’operazione di narcosi delle coscienze i toni e gli argomenti che hanno accompagnato l’iter della riforma: i media e il pubblico sembrano preoccuparsi soprattutto delle implicazioni contingenti delle votazioni parlamentari sulla stabilità dell’esecutivo o sul cangiante perimetro dei suoi sostenitori, mentre accuse di conservatorismo “reazionario” marchiano a fuoco chiunque cerchi di difendere la necessità di preservare equilibri istituzionali ed organismi politici di cui si postula invece la natura parassitaria e ridondante, opponendosi alla somma esigenza di verticalizzazione ed accelerazione dei processi decisionali dettata dal “tempo esecutivo” che stiamo vivendo.
Non ci riconosciamo in questa rappresentazione ingannevole, non è questa la natura della posta in palio. Per queste ragioni l’associazione Libertà e Giustizia, coerentemente coi suoi valori fondativi, intende moltiplicare il suo impegno per promuovere nel paese una riflessione pubblica sui rischi di un decadimento della qualità dei processi democratici indotto dall’eventuale approvazione della riforma. In coincidenza con l’avvio dell’iter di discussione del progetto di legge al Senato saranno dunque ospitate sul sito internet di LeG analisi critiche frutto della riflessione di autorevoli “maestri di pensiero”, studiosi, esperti. La nostra opposizione a questo disegno di legge, infatti, scaturisce da un insieme di idee e ragioni che possono e devono essere riaffermate con competenza e decisione nel discorso pubblico, per rianimare una discussione altrimenti sterile e dare coraggio ed argomenti alle forze politiche e sociali che ancora si frappongono alla sua definitiva approvazione parlamentare.
Si tratta di un contributo di pensiero distante anni luce della retorica della “costituzione più bella del mondo”. Nessuno reclama l’inviolabilità del nostro testo costituzionale, che ha limiti ben conosciuti. Respingiamo però radicalmente la prospettiva di questa accelerazione dissolutrice del fragile sistema di “pesi e contrappesi” istituzionali, oggi disegnato dalla nostra Costituzione, come risposta ineluttabile a una pretesa necessità di efficienza della “macchina legislativa”. Come ottenere più leggi in minor tempo e con un costo inferiore, per di più risparmiando al Paese inutili discussioni e faticosi compromessi, grazie a una nuova legge elettorale che definirà univocamente l’identità del leader – e del suo partito servente causa – cui saranno aggiudicati in esclusiva i corrispondenti poteri: questa parrebbe la stella polare che anima lo spirito riformatore dei nostri improvvisati padri costituenti.Verticalizzazione e personalizzazione del potere pubblico, accentramento di responsabilità sciolto da condizionamenti esterni, decisionismo esecutivo sono i pilastri del nuovo “ordine” istituzionale, nel quale contropoteri e vincoli fin qui efficaci fattori di reciproco bilanciamento – presidente della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura, etc. – rischiano di essere via via disinnescati, imbavagliati, posti al guinzaglio dei vertici dell’esecutivo. 
Vengono i brividi al solo pensiero delle ricadute sulle nostre istituzioni democratiche qualora un ducetto xenofobo, ovvero a un plutocrate portatore di indicibili conflitti di interesse, intercettasse incidentalmente i consensi della soglia tutto sommato modesta di elettori sufficiente a investirlo di tale autorità.
Vi sono molte valide ragioni, tanto di natura sostanziale che di ordine procedurale, per contrapporsi con fermezza a questo progetto di riforma, ostinatamente portato avanti a colpi di maggioranze risicate. Di queste idee Libertà e Giustizia vuole farsi portatrice, discutendole in modo sereno e aperto nella convinzione di essere dalla parte giusta nella salvaguardia di valori fondamentali del nostro vivere civile. Ma è soprattutto sulla diagnosi dei mali della nostra democrazia che dissentiamo irriducibilmente con i fautori della riforma, giunta ormai alla fase finale del suo iter di approvazione.
La nostra democrazia non soffre di un deficit di efficienza decisionista, quanto piuttosto di una carenza di partecipazione e coinvolgimento popolare alle scelte politiche. 
Non occorrono più leggi, ma poche leggi di migliore qualità, o almeno intellegibili e univocamente interpretabili. Non occorre accelerarne la procedura di approvazione, quanto piuttosto avvicinarne i contenuti ai bisogni pubblici, o almeno – nei casi peggiori – limitare il danno che infliggono al bene comune, gravando soprattutto sulle fasce più deboli e inascoltate della popolazione. Per le stesse ragioni la riduzione del numero di senatori, o il taglio delle loro indennità, sono un ben misero specchietto per le allodole: al cuore della “questione democratica” in Italia si trovano piuttosto i meccanismi di selezione di quella stessa classe politica, da troppo tempo tarati per premiare sopra ogni altra cosa cortigianeria, sottomissione ai potenti, corruzione, affarismo, irresponsabilità.
La proposta di riforma costituzionale non risolve alcuno dei reali problemi della democrazia italiana, al contrario rischia di aggravarli seriamente: su quali libertà democratiche, su quali garanzie di giustizia potrà contare un popolo afono, posto di fronte a un potere pubblico che si andrà facendo sempre più distante, sfrontato, impermeabile a critiche e controlli?

giovedì 17 settembre 2015

IL MESSAGGIO DELL’IMPERATRICE. - ROBERTA DE MONTICELLI

Il messaggio dell’imperatrice


“La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”, ha scritto Corrado Alvaro. Non sono d’accordo. Non è la più grande. Ancora più grande fonte di disperazione è il dubbio che nessuna istituzione, nessuna legittima autorità, nessuna giurisdizione custodisca le norme dell’onestà, difendendoci dalle loro violazioni ma soprattutto, all’occorrenza, giudicandole. Distinguendo ciò che è onesto da ciò che non lo è – che sia punibile o no. Che si sia cancellata la grammatica e la logica del parlare onesto, cioè chiaro e distinto, dalla mente di tutte le maestre di scuola. Che non ci siano più affatto giudici, né a Berlino né a Roma. Che niente e nessuno custodisca il patto fondamentale che ci lega gli uni agli altri in una società attraverso l’assunzione dei nostri doveri e dei nostri diritti, il patto fondamentale di cittadinanza. Insomma, la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che l’impero della legge sia crollato da un pezzo, e per questo il messaggio dell’imperatrice non ci è mai arrivato. Questo dubbio sta diventando certezza nell’Italia di oggi.
Forse era questo che intendeva Corrado Alvaro? Ma le parole sono importanti. Vivere onestamente è certamente inutile in moltissimi casi, anzi positivamente svantaggioso per l’onesto. Ma questa non è una buona ragione per rinunciare ad esserlo, dal momento che è ingiusto, cioè lesivo di ciò che è dovuto agli altri. Anzi: la speranza è salva ogni volta che è salva la legge, cioè la sua idealità: l’ideale non è il reale, e ogni violazione della norma, se è riconosciuta come tale, nutre la nostra riserva di idealità, cioè di speranza nella possibilità di una società più giusta. Ma ogni volta che la norma, metro di misura di ciò che è disonesto, si adatta al fare disonesto, un po’ dell’idea di giustizia si cancella dalla nostra coscienza, la nostra riserva di idealità si riduce, e la nostra speranza cala. Se l’autorizzazione a una modica quantità di frode fiscale diventa legge. Se un candidato ineleggibile a norma di legge esercita il potere con il beneplacito dell’autorità designata a far rispettare la legge. Se un decreto legislativo sulla certezza del diritto (!!) consente, purché rientri il capitale, “di mantenere la fedina penale immacolata, anche in presenza di ipotesi di reato comparabili a ricettazione e frode fiscale, con pene intorno ai 10 anni” (“Corriere della Sera”, 29 agosto 2015). Se un Presidente del consiglio irride a un’Istituzione della Repubblica, chiamata a tutelare il patrimonio artistico e paesaggistico, le Sovrintendenze. Se esprime disprezzo nei confronti dei cittadini che esercitano il loro dovere di critici nei confronti di chiunque sostituisca il proprio arbitrio al governo della legge, perché “bloccano il Paese”. In tutti questi casi e innumerevoli altri un pezzo della riserva di idealità su cui si regge il rule of law è consumato, e una congrua porzione di speranza, erosa.
Ebbene: con le riforme costituzionali in corso un enorme, ulteriore pezzo di idealità viene sacrificato a vantaggio della realtà, o della Realpolitik, o del “non ci faremo fermare da nessuno”, comunque vogliate chiamare l’espressione dell’arbitrio dell’uomo, anzi dei molti piccoli uomini interessati ai loro particolari vantaggi, invece che al bene pubblico. Attraverso una riforma del Senato che riduce a un “camerino” di interessi locali quella che la Costituzione italiana pensava come la Camera Alta (il suo Presidente è attualmente colui che esercita le funzioni di Presidente della Repubblica “in ogni caso in cui egli non possa adempierle”, Art. 86). Ma che, in combinazione con la legge elettorale approvata, riduce in modo drastico tanto la rappresentatività del Parlamento quanto la sua autonomia nei confronti dell’esecutivo, ed erode ulteriormente il fragile fondamento istituzionale della democrazia – la divisione dei poteri, il check and balance. Perché attraverso i meccanismi di elezione del Presidente della Repubblica e la riduzione di indipendenza della Corte Costituzionale rimette nelle mani dei piccoli arbitri dei piccoli uomini di fatto al potere la quasi totalità della decisione su ciò che “deve” essere. No, non ripeteremo con parole vaghe le obiezioni fulminanti e inascoltate che i migliori rappresentanti del Diritto e della sua scienza hanno rivolto al testo della riforma governativa, dove la forma è sostanza, e la forma, ahimé, è “sgrammaticata”. Ci limiteremo a concludere questa riflessione, che speriamo condivisibile dal maggior numero di cittadini.
E’ la giustizia, non l’utilità la misura della nostra disperazione. Meglio di Corrado Alvaro lo dice Kant: quando l’idea di giustizia ha finito di scomparire dalle nostre coscienze, non vale più nulla la vita di nessun uomo, su questa terra. Come appare, a chi la vive, una vita senza valore?
Guardatevi intorno o dentro. È uno stato depressivo, uno stato di assenza di speranza che, più che disperazione, si potrebbe chiamare indifferenza o apatia. Viene dall’erosione o dalla distruzione di alcuni dei più importanti beni della vita associata, come ad esempio la fiducia nelle istituzioni, la stima e il rispetto per chi esercita funzioni pubbliche, la certezza del diritto, il diffuso senso della legalità, l’esperienza dell’esistenza di un nesso fra competenze e funzioni, capacità e promozioni, crimine e pena. E, bene che li riassume tutti, il rispetto per l’Imperatrice, l’Idea o lo Spirito delle leggi – l’idealità di una Costituzione. Oggi chiamano tutti questi aspetti fiduciari della vita associata “capitale sociale”: ma si tratta delle condizioni perché sia riconosciuto il valore della vita di ognuno. La nostra Costituzione lo chiama “dignità sociale” (Art. 3).
Ma quando questo riconoscimento manca perché i legami fiduciari si spezzano, logorati dall’abuso di illegalità impunita, corruzione e menzogna, la “fede pubblica” – come la chiamava Leopardi – cala a zero, e con essa la partecipazione non solo alla vita civile e politica, ma infine alla cooperazione materiale e morale. E’ forse allora che le nazioni sono pronte a fallire, le civiltà a crollare. Perché una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, è una civiltà fondata in ragione – la ragione pratica – e non in religione. La sfiducia nella ragione pratica è la fine della democrazia.