sabato 17 febbraio 2018

Cup, visite e tempi di attesa: tutto quello che c'è da sapere.


Cup, visite e tempi di attesa: tutto quello che c'è da sapere

Da che cos'è il Cup alle modalità di prenotazione di una visita, fino ai tempi massimi di attesa e le priorità di prestazione. Altroconsumo, l'associazione per la tutela e difesa dei consumatori, in 'Diritti in Salute', elenca e spiega tutto ciò che è opportuno sapere per prenotare visite ed esami. Obiettivo del progetto 'Diritti in salute', nato dalla collaborazione tra Altroconsumo e Acu, associazione consumatori utenti, e finanziato dal ministero dello Sviluppo economico, è dare una risposta ai dubbi più comuni in materia sanitaria.
Ecco, in sintesi, le principali informazioni utili ai cittadini, negli approfondimenti dedicati alla prenotazione e tempi di attesa per visite ed esami con il Ssn:

- COSA E' IL CUP? E' il Centro unico di prenotazioni a cui rivolgersi per prenotare visite ed esami in diverse strutture. Il sistema accentra la prenotazione delle prestazioni ambulatoriali presso strutture pubbliche (e in alcuni casi anche le private convenzionate) di una Asl, città, provincia o Regione; indirizza il cittadino alla struttura che ha la disponibilità di un posto nel minor tempo possibile; permette al cittadino di prenotare direttamente la visita presso la struttura che gli è più comoda o che è in grado di erogare la prestazione nel minor tempo, grazie al fatto che le strutture sono collegate in rete.

- COME SI PRENOTA UNA VISITA O UN ESAME? È possibile farlo in vari modi: telefonando al numero verde dedicato; andando di persona allo sportello nei centri Cup; recandosi in una delle farmacie che offrono questo servizio; tramite il Cup online, attivo solo per alcune Regioni.

- I TEMPI DI ATTESA. Esiste un Piano nazionale di governo delle liste d’attesa, elaborato dall’intesa tra il Governo, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, che stabilisce le priorità e i tempi massimi per l’erogazione di esami, visite specialistiche, ricoveri ospedalieri e interventi chirurgici da parte del Ssn. 
Le priorità temporali previste sono quattro, contraddistinte dalle lettere U, B, D e P. Il medico compilerà l’impegnativa e indicherà nel campo 'priorità della prestazione' la lettera corrispondente all'urgenza della prestazione:
Lettera U: prestazioni 'urgenti' a cui l’utente ha diritto entro 72 ore. In questi casi, sulla prescrizione sarà apposto il 'bollino verde'. Attenzione: le prestazioni urgenti vanno prenotate entro 48 ore dalla data di prescrizione, altrimenti decade l’indicazione di urgenza.
Lettera B: prestazione da fornire in tempo 'breve' (non più di 10 giorni). Va usata in situazioni in cui è necessario intervenire in tempi rapidi per evitare l’aggravarsi delle condizioni del paziente.
Lettera D: prestazioni 'differibili', che, se fornite in tempi meno celeri, non pregiudicano la salute del paziente. Sono prestazioni di prima diagnosi, da erogare entro 30 o 60 giorni (a seconda che si tratti di visite o di esami diagnostici strumentali).
Lettera P: visite ed esami 'programmati', non urgenti. È il caso delle visite di controllo, per le quali la regola stabilisce un massimo di 180 giorni. Se nella ricetta non sono indicati il sospetto diagnostico o la classe di priorità, la richiesta è collocata in classe P. Tra tutte le prestazioni che il Ssn offre, ne sono state individuate 58 (43 a livello ambulatoriale e 15 in regime di ricovero) il cui tempo massimo d’attesa deve essere garantito al 90% dei cittadini che le richiedono.

- AREE PRIORITARIE. Le malattie del sistema cardiocircolatorio e i tumori sono le principali cause di morte in Italia, pertanto è necessario che i tempi massimi d’attesa per ciascun piano diagnostico terapeutico non siano superiori a 30 giorni per la fase diagnostica e 30 giorni per l’inizio della terapia dal momento dell’indicazione clinica. Bisogna però dire, precisa Altroconsumo, che il rispetto di questi tempi è garantito in linea teorica per il 90% dei cittadini. E' quindi possibile che a un cittadino venga offerto un appuntamento con tempi più lunghi: in questo caso Altroconsumo invita a insistere per il rispetto dei tempi scrivendo direttamente all’azienda sanitaria territoriale.

- VISITE O ESAMI IN UNA REGIONE DIVERSA DA QUELLA DI RESIDENZA. E' possibile prenotare visite ed esami in una Regione diversa da quella di residenza, poiché la ricetta per prestazioni specialistiche e diagnostiche è valida su tutto il territorio nazionale. Una volta che si ha la ricetta del proprio medico di base, è sufficiente chiamare il Cup della Regione in cui si desidera effettuare la visita.

- COSA FARE SE L'APPUNTAMENTO E' TROPPO LONTANO? Nel caso in cui il primo appuntamento disponibile, in qualunque struttura, fosse superiore a 30 giorni per le prime visite specialistiche e 60 giorni per gli esami diagnostici strumentali, il Ssn è comunque tenuto a garantire la prestazione nel rispetto dei tempi regionali previsti ricorrendo a una prestazione in regime libero-professionale (intramoenia) a spese dell’azienda sanitaria locale, riservando al cittadino solo il pagamento del ticket. Lo prevede la legge (decreto legislativo n.124 del 1998), ma questa norma, fa notare Altroconsumo, è spesso ignorata e disattesa. Per richiedere il rispetto dei tempi è possibile compilare la lettera e inviarla all’Urp dell’azienda sanitaria di residenza.

Salute tradita. - Skytg24



http://video.sky.it/news/cronaca/salute_tradita_la_nuova_inchiesta_di_sky_tg24/p3391.pls

Interessante seguirlo fino in fondo per capire come siamo messi male.
E non si tratta solo di salute tradita, ma di come viene ignorata la Costituzione che all'art. 32 recita così:

"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti."

Provate a prenotare una visita o un esame specialistico.....bene che vi vada lo otterrete dopo mesi; se non siete troppo fortunati, in un altra regione; male che vi vada, non vi rispondono o vi consigliano di prenotare una prestazione intramoenia.

giovedì 15 febbraio 2018

Grasso, futuro è abolizione del contante. Leader LeU critica flat tax, mette a rischio stato sociale.

 © ANSA

Qui il commento arguto di Luigi Pastorello. (copiato da fb dietro consenso dell'autore)

Il neo partito di Grasso è una formazione utile solo a limitare l'emorragia inevitabile di voti dal centro-sinistra. Serve per tutti coloro che hanno la fede irrazionale e incrollabile per gli ideali di sinistra, ma odiano Matteo Renzi perché sta facendo il lavoro sporco per conto dell' Elite. 
Nemmeno il centro-destra avevano attuato politiche così pesanti di macelleria sociale, il nome del neoliberismo e del turbocapitalismo globalizzante. 
Come dire, per fare un esempio, per coloro che gli piace la bevanda dolce gassata al caramello, ma odiano il marchio coca-cola! quindi i padroni della Coca Cola cosa fanno? Inventano il marchio Pepsi alternativo, fanno credere al consumatore sprovveduto che siano due bibite diverse, due proprietà e marchi diversi, così riescono a conservare il mercato e le quote di clientela. 
Sono strategie di marketing e nulla più. 
Idem la Fiat: quelli che compravano Alfa Romeo Lancia o Ferrari perché la Fiat come marchio gli stava antipatico. 
La Fiat gli ha assorbiti nella proprietà e così non perde più clienti!! 
E la gente è contenta perchè non possiede una Fiat, ma un'alternativa. 
Senza sapere che è lei la gente, quella posseduta dalla Fiat. 
Ahahahah???? Ci sarebbe da ridere per non piangere. 
Il politico di qualunque schieramento ideologico non è altro che il cameriere del banchiere. Se non si comprende questo, se non si comprendono i meccanismi finanziari di schiavizzazione e indebitamento truffa tramite signoraggio bancario saremo destinati a soffrire ed impoverirci sempre più. 
E a diventare sempre più schiavi e sottomessi.
L.P.

PS. L'articolo al quale fa riferimento il titolo è il seguente: 
http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2018/02/13/grasso-futuro-e-abolizione-del-contante_812d3d43-e327-4848-a9fc-7e69934fed0f.html

Salone del libro, Piero Fassino indagato dalla procura di Torino. Avviso di garanzia anche ad assessore regionale.

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Il filone dell'inchiesta in cui è coinvolta l'esponente della giunta di Sergio Chiamparino è quello relativo all’affidamento dell’organizzazione dell’edizione 2015 del Salone e la preparazione del bando di gara del 2016. I reati ipotizzati sono di turbativa d'asta e falso ideologico in atto pubblico. L'ex sindaco: " Sono assolutamente sereno, avendo sempre operato nell’interesse della città".


L’ex sindaco Piero Fassino è indagato dalla procura di Torino nell’inchiesta sul Salone del Libro. Si tratta della stessa indagine in cui è indagata l’assessore regionale alla Cultura, Antonella Parigi. Il filone dell’inchiesta in cui è coinvolta l’esponente della giunta di Sergio Chiamparino è quello relativo all’affidamento dell’organizzazione dell’edizione 2015 del Salone e la preparazione del bando di gara del 2016. Fassino e Parigi sono accusati di turbativa d’asta.
“Nel pomeriggio di oggi ho ricevuto dalla Procura della Repubblica di Torino un avviso di garanzia con riferimento alle indagini sul salone internazionale del libro di Torino. Sono assolutamente sereno, avendo sempre operato nell’interesse della città di Torino”, ha Fassino, confermando di essere tra le persone indagate dai pm piemontesi. Era stata invece l’assessore Parigi ad annunciare di aver ricevuto un avviso di garanzia, esprimendo “la propria fiducia nell’operato della magistratura, a cui offrirà la massima collaborazione”. Il fascicolo aperto dalla procura ipotizza anche i reati di turbativa d’astafalso ideologico e falso in bilancio.
Nel luglio del 2016, l’inchiesta – dalla quale sono poi nati diversi filoni d’indagine – aveva portato all’arresto di quattro persone. Si trattava di Regis Faure, direttore generale di Lingotto Fiere, Roberto Fantino, direttore marketing di Gl Events, e Valentino Macri, segretario della Fondazione per il Libro. Ai domiciliari era finito Antonio Bruzzone, dirigente di Bologna Eventi. Tra gli indagati, c’era anche l’ex assessore alla Cultura della giunta FassinoMaurizio Braccialarghe, deceduto sei giorni fa.  L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Gianfranco Colace, è incentrata sul modo in cui la multinazionale francese Gl Events, che gestisce Lingotto Fiere, aveva ottenuto lo scorso anno la possibilità di organizzare tra il 2016 e il 2018 il Salone, uno dei principali eventi dell’editoria italiana, con un bando i cui requisiti erano molto simili a quelli offerti dalla società francese.
Nel corso dell’inchiesta era emerso che un funzionario della Fondazione del Libro, componente della Commissione giudicatrice, veicolava informazioni coperte da segreto (quali la presentazione di manifestazioni di interesse, l’identità degli interessati, la presentazione delle offerte) a un dirigente di Lingotto Fiere, così da consentire alla multinazionale francese di modulare la propria partecipazione alle varie fasi della procedura di gara a seconda delle informazioni ricevute e di contattare uno degli altri partecipanti per concordare la sua uscita di scena. L’indagine era partita dall’ipotesi di peculato nei confronti di Rolando Picchioni, ex presidente della Fondazione per il libro, un ente che in questi giorni è tornato al centro della polemica per la volontà dell’Associazione italiana editori di lanciare una nuova fiera dell’editoria a Milano.

Iperbole in eccesso pronunciate in occasione della campagna elettorale del 2018.

Calenda contro Raggi: "Roma immobile, miliardi in fumo"


(l'articolo potrete leggerlo, se volete, su questo link:

Al quale è fin troppo facile rispondere così: 

Il parolaio di turno esprime la sua....iperbole in eccesso.
E dal suo dire si evince come e quanto sia impreparato in materia. 
Per mettere in posa nuove opere non basta avere soldi a disposizione, si deve valutare dove collocarle e se è possibile collocarle senza arrecare altri danni oltre a quelli già provocati dalle amministrazioni precedenti, vedi voragine apertasi a Roma.
Senza questi metri di misura ci si perde nei meandri della mera propaganda elettorale fine a se stessa e diretta a chi non pensa e prende per buone tutte le parole dette senza alcun senso logico solo per attirare l'attenzione.
By C.

mercoledì 14 febbraio 2018

Castellaneta, una città nascosta nelle viscere del colle Archinto. - Angelo Loreto

Castellaneta, una città nascosta nelle viscere del colle Archinto

Di origini antichissime.

CASTELLANETA - C’è un interesse crescente attorno a un aspetto ai più sconosciuti, non solo per la sua posizione logistica, ma soprattutto perché finora nessuno, prima dell’arrivo dell’associazione Amici delle Gravine, aveva mai provato a riscoprirlo. È la Castellaneta sotterranea, l’insieme di grotte, ipogei, camminamenti, fogge e cisterne per il quale appassionati, studiosi, studenti di archeologia e semplici curiosi stanno contattando e partecipando alle iniziative degli Amici delle Gravine che si sono già fatto un nome, in Puglia e non solo, per l’organizzazione di escursioni negli affascinanti canyon pugliesi. E che ora puntano alla valorizzazione prima e alla promozione poi della città che si nasconde nelle viscere del colle Archinto.
L'immagine può contenere: spazio all'aperto e spazio al chiuso
È infatti sotto l’abitato del centro storico che sorge una città dalle origini antichissime, sepolta nel mistero di una realtà che da millenni giace nel più assoluto silenzio. «Da circa due anni – raccontano da Amici delle Gravine - quelle leggende che sin da piccoli ci parlavano di un centro storico basato su una fitta rete di camminamenti sotterranei, hanno iniziato a prendere vita, quella città definita morta oggi sta tornando alla luce. Un sottosuolo prevalentemente tufaceo, cosparso quasi interamente di sotterranei naturali, in alcuni tratti fino al margine della gravina. Tante le domande che ci poniamo e che ci pongono ogni qualvolta entriamo all’interno di questi angoli di vita sotterranea. Camminamenti, cisterne per l’acqua, fogge per la conservazione del grano e derrate, antichi trappeti con le grandi macine e poi magazzini e neviere».
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Tra i più particolari oggi resi fruibili, l’esempio degli ambienti ipogei del Palazzo Viscardi, il primo caratterizzato da una grande cisterna per la raccolta delle acque piovane e varie fogge dove su una in particolare, a calce, restano ancora visibili tre croci. Scendendo nel secondo livello attraverso un scalinata scavata nel tufo, si raggiungono due ambienti, utilizzati come deposito, ed in fine il terzo livello, sicuramente il più particolare, dal quale si accede a una cava per l’estrazione del tufo. Insomma, il centro storico di Castellaneta presenta una struttura urbanistica ben organizzata con strade, scalinate, case popolari e padronali, chiese e monasteri. «Ma è dietro una vecchia porta chiusa da chissà quanto tempo – concludono dall’associazione - che si nasconde la città sotterranea: luce alla mano, si inizia a scende nel ventre del centro storico. Una meraviglia, subito risalta un’architettura “rupestre”, che ricorda quella dei villaggi ancora abitati della Cappadocia in Turchia, una stratificazione millenaria».
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Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare! - Mario Pagliaro

Ecco perché in Sicilia l’acqua delle dighe finisce in mare!

In questo articolo illustriamo il perché la Sicilia, pur avendo a disposizione 41 dighe, si ritrova senz’acqua. Tutto quello che si dovrebbe fare per scongiurare l’emergenza idrica. L’integrazione tra dighe e produzione di energia ‘pulita’. Come i Consorzi di Bonifica potrebbero abbattere i costi evitando di tartassare gli agricoltori con canoni idrici esosi. 
La questione dei dissalatori.  

La Sicilia vive una seria crisi idrica dovuta alla prolungata carenza di piogge e a storici ritardi infrastrutturali e gestionali. Che adesso, però, vanno colmati rapidamente e bene con una nuova programmazione regionale: tanto lungimirante quanto concretamente efficace.

Anno 2016: si svuota la grande diga Rosamarina di Caccamo, circa 100 milioni di metri cubi di capienza. Vengono progressivamente gettati a mare 40 milioni di metri cubi in linea ‘con una prescrizione ministeriale’ che la Regione esegue proponendosi di identificare “i punti di percolamento anomali” per poi “inviare i dati al Ministero e concordare il percorso da intraprendere”.

Quaranta milioni di metri cubi d’acqua sono 40 miliardi di litri: pari a 210 giorni di consumi domestici dei residenti della città metropolitana di Palermo, 1 milione e 266mila persone nel 2016, assumendo un consumo medio domestico pari a 150 litri al giorno per abitante (Rapporto Ecosistema Urbano 2017, Legambiente)

Lo stesso, nella splendida diga ad arco di gravità di Caccamo alimentata in gran parte dal fiume San Leonardo, era accaduto nel Marzo 2012 “per evitare esondazioni del fiume San Leonardo a seguito del nubifragio”. E poi ancora nel Marzo 2013 e nel Marzo 2015.

Idem in provincia di Caltanissetta lo scorso Novembre: le forti piogge portano il livello dell’acqua accumulata nelle dighe Comunelli (tra Gela e Butera) e Disueri al livello di guardia per cui “per motivi di sicurezza sono state avviate manovre di alleggerimento mediante lo scarico a mare dell’acqua in eccesso”.

Quale sia il motivo per cui in Sicilia si svuotino le dighe buttando l’acqua a mare lo spiegava nel 2002 l’allora presidente della Regione siciliana audito dalle Commissioni Agricoltura e Territorio del Senato riunite per un’indagine conoscitiva sulla situazione dell’approvvigionamento idrico con particolare riferimento agli usi agricoli delle acque e all’emergenza idrica nei centri urbani in Sicilia.

In Sicilia, spiegava il presidente della Regione, per il 60 per cento degli invasi non è mai stato realizzato il collaudo tecnico – ovvero un insieme di prove tecniche condotte da ingegneri specializzati attraverso specifiche prove di carico. “Non è questa la sede”, tagliava corto, “per cercare di risalire alle responsabilità, sempre difficili da ricostruire in una vicenda tanto complessa… Senza collaudi, la capacità di invasamento di queste strutture diminuisce almeno del 30 per cento, perché il Servizio nazionale dighe non autorizza l’invasamento secondo la capacità massima”.

“I collaudi”, aggiungeva, “purtroppo non si fanno. Lo so che è difficile crederlo, ma per il collaudo delle dighe la legge prevede lo svuotamento degli invasi, prima di effettuare le prove di carico. Quest’anno alcuni invasi risultano vuoti, per cui qualche collaudo probabilmente si farà”.

Inoltre, spiegava ancora l’allora presidente della Regione più grande d’Italia, la capacità degli invasi siciliani è ulteriormente ridotta a causa del progressive accumulo sul fondale dei detriti trasportati dalle acque piovane attraverso i canali di scolo:

“L’accumulo di detriti riduce almeno del 25 per cento la capacità complessiva degli invasi siciliani”.

E infatti, il maggiore quotidiano regionale riportava lo scorso Novembre come la diga Comunelli risultasse “da anni interrata per il 90% della sua capacità e l’arrivo delle piene potrebbe portare l’acqua a superare lo sbarramento artificiale, tracimando a valle in maniera incontrollata. Da qui la decisione di aprire sin da ora gli scarichi, come si fa da tempo. Stessa decisione per la diga Disueri che necessiterebbe di interventi di manutenzione e di consolidamento della struttura portante che presenta lesioni pericolose”.

Le dighe in Sicilia – La Sicilia ospita un numero sorprendente di dighe in esercizio – ben 41 – la cui capacità sfiora gli 1,13 miliardi di metri cubi (fonte: F. Greco, Servizio 4 “Gestione Infrastrutture per le Acque”, Dipartimento dell’Acqua e dei Rifiuti, Regione Siciliana, Situazione attuale e prospettive di intervento per la manutenzione delle dighe in Sicilia, 2017).

Con l’eccezione della provincial di Messina, tutte le province della Sicilia ospitano dighe e relativi bacini artificiali. Molte, ad esempio l’Ancipa a Troina e il lago Arancio a Sambuca, sono anche centrali idroelettriche.

Solo il 51% del volume complessivo di queste acque (578 milioni di metri cubi) è gestito direttamente dalla Regione; le altre, da società private che le hanno avute in concessione dalla Regione. Il 28% delle acque gestite direttamente dalla Regione – ben 161 milioni di metri cubi – però non è autorizzato.

Ciò significa che la Regione nelle dighe che gestisce direttamente può raccogliere un massimo di 417 milioni di metri cubi d’acqua. Ed ecco spiegato perché è costretta ad aprire le paratie e disperdere l’acqua, nel caso in cui l’acqua in una certa diga superi il volume autorizzato.

A prescrivere la massima capienza di una diga in Sicilia come nel resto d’Italia è l’ex Servizio nazionale dighe, oggi divenuto una specifica Direzione generale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.

La mappa (che potete visionare nella foto sotto)mostra come restino ancora da completare le dighe Blufi e Pietrarossa, cui si è aggiunta – al posto dell’Ancipa oggi regolarmente in esercizio – la diga Cannamasca al confine fra le province di Agrigento e Caltanissetta.



Il cemento, poi, con il tempo deperisce, specie quello di cinquanta anni fa, ovvero prima che venissero migliorati dai chimici gli additivi multifunzionali per cementi e calcestruzzi. E così, praticamente, tutte le dighe siciliane hanno bisogno di interventi per risolvere le criticità che determinano i bassi volume autorizzati.

In una presentazione tenuta lo scorso anno al seminario sulle dighe in Sicilia organizzato dall’Associazione idrotecnica italiana in collaborazione con l’Ordine degli ingegneri di Palermo, il dirigente del Servizio “Gestione infrastrutture per le acque” della Regione spiegava come sia necessario intervenire per migliorare la tenuta idraulica; ripristinare la piena funzionalità degli organi di scarico e delle opere funzionali (ad esempio, le vasche di dissipazione o le case di guardia); e infine per stabilizzare sponde e pendii prossimi alla diga.

Ad esempio, per stabilizzare la sponda in sinistra della diga Disueri occorrerà rivestire a sponda con un pacchetto impermeabilizzante in geomembrana per arrestare la rapida dissoluzione dei gessi abbondanti nelle rocce del Nisseno.

Attuare con urgenza gli interventi sulle dighe esistenti già identificati dalla Regione consentirà di recuperare la piena capacità degli invasi, aumentando di molto la disponibilità di acqua per gli usi civili ed agricoli.

Per uscire poi in via definitiva dal continuo ripetersi delle crisi idriche in Sicilia, la Regione dovrà innanzitutto invertire il recente approccio gestionale, e poi realizzare altri 3 interventi.

Dai tagli agli investimenti – La prima cosa da fare è invertire le politiche gestionali, sostituendo ai tagli realizzati nel corso degli ultimi anni un forte aumento degli investimenti.

Nel 2010, la Regione allocava 9,5 milioni di euro per la gestione di 17 dighe. Nel 2016, con 24 dighe da gestire, le risorse in bilancio erano pari a 3,1 milioni. In altre parole, i fondi disponibili in bilancio per gestire le dighe sono diminuiti del 78% in 7 anni, raggiungendo la cifra di 130mila euro per diga.

Analogamente, il personale della Regione nella struttura organizzativa addetta alle dighe, spiegava ancora il dirigente del Servizio nel suo intervento seminariale, solo nel 2017 ha perso 7 delle 176 unità di personale a causa dell’elevata età media lavorativa che ha portato al pensionamento di alcuni dipendenti.

Occorre quindi aumentare in modo significativo le risorse in bilancio per il Servizio, e rinforzarne lo staff con giovani ingegneri, architetti ed esperti di sostenibilità dello sviluppo, in modo da farne gli attori della nuova programmazione e gestione della risorsa idrica in Sicilia.

Completare le dighe in sospeso e migliorare le condotte mettendole in rete – Nel 2002 al Senato, il presidente pro tempore del governo regionale spiegava come ci fossero 3 invasi di completare: il Blufi, sulle Madonie, i cui lavori erano fermi da 10 anni; l’Ancipa, nell’Ennese; e Pietrarossa, nella zona di Caltagirone, che era allora “quasi totalmente completato, ma con i lavori fermi da oltre 7 anni perché nella fase di ultimazione dei lavori si sono ritrovati i resti di una villa romana”.

La sola diga Blufi, quasi al centro della Sicilia, permetterebbe di canalizzare l’acqua sia ad Est che ad Ovest. Circa metà della diga è già stata realizzata; mentre il potabilizzatore e l’acquedotto a valle sono già pressoché completi. Analogamente, completare i lavori della diga Pietrarossa offrirà alle imprese agricole del vasto territorio di Caltagirone la possibilità di incrementare qualità e quantità delle produzioni agricole locali.

La distribuzione geografica delle piogge in Sicilia presenta forti differenze zonali per cui occorre continuare a mettere in rete fra di loro gli invasi, come già avviene ad esempio con il Lago Arancio di Sambuca che è collegato alle dighe Poma e ‘Mario Francese’ (Garcia); oppure con i collegamenti tra i grandi acquedotti interconnessi fra diverse province che portano l’acqua del lago Ancipa usando le condotte Madonie Ovest per trasportare grandi volumi d’acqua verso territori carenti.

Occorre ripristinare subito le condotte degli acquedotti malfunzionanti. Ad esempio, finanziando al più presto il ripristino integrale dell’acquedotto Nuovo Scillato che, alla fine degli anni Ottanta, iniziò a portare a Palermo e a molti Comuni costieri della provincia le acque della formidabile sorgente Scillato che affiorano a quota 376 metri, a monte di Scillato, con una portata variabile tra 600 e 900 litri al secondo.

Come avviene in molte zone della sismica Sicilia, le tubazioni in acciaio dell’acquedotto iniziarono a danneggiarsi a causa dei continui movimenti franosi indotti da un sisma. Le continue rotture fra il 2009 e del 2013 portarono nel 2013 all’interruzione del servizio.

Nel 2017, con un investimento contenuto (quasi 1,6 milioni di euro), l’azienda pubblica del servizio idrico del capolouogo siciliano (AMAP) ha fatto realizzare la riparazione delle tubazioni comprese fra due contrade utilizzando l’innovativa tecnologia dell’hose lining in cui non è più necessario rimuovere le vecchie tubazioni: ma si utilizzano quelle esistenti inserendovi una tubazione polimerica flessibile costituita da fibre di Kevlar, un polimero che resiste alla trazione 5 volte più dell’acciaio, comprese fra due strati di polietilene leggero.

In questo modo è stato possible ripristinare il collegamento idrico che adesso porta nuovamente a Palermo e ai Comuni costieri alcune centinaia di litri d’acqua al secondo fino ad allora dispersi.

Recupero delle acque depurate – La seconda grande innovazione da portare a termine consiste nel realizzare le opere necessarie al riuso delle acque reflue depurate che, spiegavano i funzionari regionali nell’audizione del 2002 al Senato, “consentirebbero di recuperare per usi irrigui, nel breve periodo, ben 122.092.938 di metri cubi di acqua all’anno” liberando un’enorme quantità di acqua per uso idropotabile.

In attuazione di quanto previsto dal Decreto legislativo n. 152 del 1999 (“Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento”), la Regione già nei primi anni 2000 aveva individuato 32 interventi finalizzati, al costo di 99 milioni di euro, a realizzare le infrastrutture di collegamento tra i depuratori e le vasche di accumulo, a loro volta già collegate con le aree attrezzate per l’irrigazione.

Promozione della raccolta distribuita delle acque piovane – Il terzo intervento che la Regione deve intraprendere è quello di promuovere concretamente e ovunque nel territorio regionale, a partire dalle isole e dalle città, l’adozione diffusa dei sistemi di recupero dell’acqua piovana con cui intercettare l’acqua piovana subito dopo la sua caduta, in prossimità di dove viene poi consumata.

I sistemi hanno un costo molto contenuto, ed allocando una piccola parte delle enormi risorse comunitarie dedicate allo sviluppo sostenibile sarà possibile co-finanziarne l’acquisto da parte di famiglie, aziende ed amministrazioni pubbliche.

I serbatoi dove contenere l’acqua raccolta – invece che sui tetti come avviene in numerosi centri abitati della Sicilia – si spostano alla base degli edifici dove vengono progressivamente riempiti con l’acqua piovana. Utilizzando l’acqua piovana raccolta per tutti gli usi domestici non potabili, una famiglia può facilmente coprire il 50 per cento del proprio fabbisogno idrico. E notevolissimi vantaggi possono conseguire pure le aziende, partendo dagli hotel e dalle altre strutture ricettive.

Solarizzare i bacini – Infine, l’altra cosa da fare è coprire parte degli invasi artificiali gestiti dai Consorzi di bonifica con i sistemi fotovoltaici galleggianti come avviene ad esempio in numerosi bacini del Consorzio di bonifica “Valle del Liri” nel comprensorio di Cassino nel Lazio (foto sotto).



La tecnologia, ormai usata in tutto il mondo – dalla Cina al Regno Unito – è stata inventata proprio in Italia dove le centrali solari galleggianti sulle acque dei Consorzi di bonifica sono già una cinquantina.

In questo modo, si abbattono i costi elevati della bolletta elettrica sostenuti dai Consorzi di bonifica e dagli agricoltori che ricevono dai bacini l’acqua irrigua necessaria alle coltivazioni. E si dimezza, in corrispondenza della superficie coperta dai pannelli solari, anche la quantità di acqua perduta per evaporazione durante la prolungata stagione calda.

Dissalatori? – Nel corso degli ultimi dieci anni Israele (chi scrive si è formato scientificamente in Israele e collabora attivamente con numerosi scienziati israeliani) ha risolto i suoi cronici problemi idrici realizzando enormi dissalatori basati sulla tecnologia ad osmosi inversa, fra cui quello di Sorek, a sud di Tel Aviv, che con i suoi 627mila metri cubi di acqua prodotti ogni giorno è, attualmente, il più grande al mondo.

Ma Israele è un Paese quasi interamente pianeggiante con precipitazioni medie intorno ai 550 mm annui, e un’ampia zona desertica al suo interno (il deserto del Negev).

La Sicilia, che persino nel siccitoso 2016 ha superato i 630 mm di pioggia, ospita enormi catene montuose dove sono conservate straordinarie risorse idriche: come ben sanno le molte aziende che ne imbottigliano una piccola parte prelevandola dalle fonti dell’Etna, dei Nebrodi, o delle Madonie.

I dissalatori hanno senso economico, sociale ed ambientale in zone desertiche, semidesertiche e nelle isole, dove a fronte dei moderni di livello di consumo idrico, e ai picchi dovuti alle presenze turistiche estive, la risorsa raccolta con le piogge è insufficiente. E infatti, da Pantelleria a Lampedusa a Linosa, i vecchi dissalatori sono stati da poco sostituiti da quelli ad osmosi inversa, con un taglio dei consumi elettrici di circa due terzi.

Realizzare dissalatori di grandi dimensioni come quelli con cui Israele oggi produce poco meno del 50 per cento del proprio fabbisogno idrico richiederebbe investimenti molto elevati mentre quelli di esercizio sono calati a tal punto che in Israele producono acqua potabile dall’acqua di mare al costo di 50 centesimi di euro per metro cubo.

Investendo adesso sulle dighe e sulle loro interconnessioni; sul miglioramento delle reti idriche esistenti basato su tecnologie innovative come l’’hose lining e il relining applicate a tutte le tubazioni che in Sicilia sprecano l’incredibile percentuale del 52% dell’acqua che vi è immessa (il doppio di quanto se ne spreca in Piemonte e il triplo della Lombardia, “Giornata mondiale dell’acqua: le statistiche dell’Istat”, 2017); e sulla generazione distribuita basata sui sistemi di raccolta dell’acqua piovana, la Sicilia risolverà in pochi anni i suoi problemi idrici in via definitiva.