martedì 26 febbraio 2019

SCANDALO UNICEF, SCOVATO IL CONTO MILIONARIO: non solo un villone a Cascais, adesso spunta un’intera palazzina in centro a Lisbona. - Giacomo Amadori


VILLE COMPRATE CON LE DONAZIONI PER I BAMBINI: LE CARTE INGUAIANO I CONTICINI, FAMILIARI DI RENZI – DAL CONTO SU CUI ARRIVANO I SOLDI PER L’UNICEF, PARTE UN BONIFICO PER IL PORTOGALLO, E IL COGNATO DI RENZI DIVENTA PROPRIETARIO DI UNA VILLONA A CASCAIS – NON MANCA IL PARADISO FISCALE DI GUERNSEY, ISOLA DELLA MANICA DOVE PASSA CHI VUOLE PAGARE POCHE TASSE ED ESSERE POCO TRACCIABILE.
Giacomo Amadori per la Verità.
La saga dei 6,6 milioni di dollari, che alcuni parenti di Matteo Renzi avrebbero sottratto ai fondi per i bambini africani, si arricchisce di un nuovo capitolo grazie ad alcuni documenti di cui La Verità è entrata in possesso.
Le carte sembrano dimostrare come siano stati utilizzati i soldi inviati all’ estero da un conto corrente della Cassa di risparmio di Rimini riconducibile ai Conticini e sottoposto all’ attenzione della Procura. Alessandro e Luca sono accusati di appropriazione indebita e autoriciclaggio, mentre il fratello Andrea, il cognato dell’ ex premier, è indagato per riciclaggio.
Come abbiamo già riferito, i Conticini avrebbero effettuato, via bonifico, investimenti immobiliari in Portogallo tra il 17 novembre 2015 e il 4 aprile 2017. La Procura però, negli avvisi di garanzia, non specifica quali, anche perché non ci risulta siano state effettuate rogatorie nel Paese lusitano.
Ma La Verità ha scoperto che il 23 novembre 2015, alle 17 e 18 minuti, sei giorni dopo l’ invio del bonifico del 17 novembre, nel registro immobiliare della Conservatoria di Cascais è stato annotato l’ acquisto della spettacolare «villa Pandana» in Travessa Sao Carlos, 200 metri di area coperta e 1.215 di area scoperta. Gli acquirenti sono Alessandro Conticini e la moglie francese Valérie Quéré, i quali, ci informa l’ atto, hanno scelto come regime patrimoniale la comunione dei beni.
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Cascais
A vendere sono Fernando Carlos Rodrigues Martins, un docente di storia medioevale, e la consorte Maria Helena. A quanto risulta alla Verità l’ acquisto è stato fatto «cash», cioè senza l’ accensione di mutui. Dunque parte dei soldi provenienti dall’ Italia e che, secondo la Procura, arrivavano dalle donazioni dell’ Unicef e della Fondazione Pulitzer (che ammontavano in tutto a circa 10 milioni di dollari) sarebbero serviti per acquistare una sontuosa magione divenuta la residenza dei Conticini.
Grazie a un altro documento recuperato dalla Verità in Portogallo, emerge in modo inconfutabile che un altro immobile, un’ elegante palazzina di Rua de Santa Marta 66 a Lisbona, appartiene («piena proprietà», si legge nel certificato urbanistico dell’ Autorità fiscale e doganale, la nostra Agenzia delle entrate) alla società anonima Cosmikocean che, come già raccontato, è di Alessandro Conticini, della moglie e di altri due soci italiani. L’ edificio è in via di ristrutturazione ed è suddiviso in quattro lussuosi loft di circa 150 metri quadrati l’ uno, in vendita a un prezzo complessivo di 4.360.000 euro.
Anche in questo caso, considerata l’ accuratezza delle rifiniture, l’ affare immobiliare non pare avere lo scopo di ospitare piccoli denutriti o comunque in disgrazia, ma dà più l’ idea di una speculazione immobiliare destinata a far realizzare sostanziose plusvalenze.
Tra le contestazioni dei magistrati Luca Turco e Giuseppina Mione anche la sottoscrizione di obbligazioni della società Red Friar private equity limited Guernsey per 798.000 euro. Guernsey è una delle isole della Manica che gode di una tassazione privilegiata. È un «baliato» (complicato e arcaico sistema di governo retto da un «balivo») che dipende direttamente dalla Corona britannica, e non dal Regno Unito.
Caratteristica di queste isole sono i pascoli (a Guernsey esiste anche una razza bovina autoctona) e una tassazione bassissima, in alcuni casi azzerata. Per questo aziende, imprenditori e celebrità spostano capitali sull’ isola e molti dei loro nominativi sono emersi nei Paradise paper, come quelli del cantante degli U2 Bono Vox o della Apple, che ha trasferito su questo isolotto dalla superficie di 78 chilometri quadrati diversi uffici, dopo che l’ Irlanda ha inasprito il proprio regime fiscale agevolato.
Ma perché i Conticini hanno puntato proprio su Guernsey? L’ isola deve essere ben conosciuta alla famiglia di Valérie, che è originaria della Bretagna e precisamente di Morlaix, cittadina a circa 130 chilometri a Sudovest dell’ isola. I coniugi, poi, prima di trasferirsi in Portogallo, risultavano residenti a Guimaëc, un villaggio con meno di mille abitanti, ancora più vicino in linea d’ aria a Guernsey (120 chilometri). La famigliola ha investito in una società che ha la sede a St Peter, il capoluogo dell’ isola, dove a ogni cassetta postale corrispondono numerose società.
La Red Friar fa parte di un gruppo diretto da un australiano residente a Guernsey con la passione per le moto (è l’ editore di una rivista specializzata). Il suo nome è Warren Malschinger e risiede a Guernsey. Il quartiere generale è nell’ ottocentesca Warwick House dove ha sede dal 1921 il locale Sporting club e si trova proprio di fronte all’ Elizabeth college.
Warren è l’ amministratore delegato di Equity bridge asset management e vanta «oltre 20 anni di esperienza nel campo della finanza aziendale e degli investimenti internazionali». Il manager è direttore di più fondi onshore e offshore, tra cui il Red friar («Frate rosso»).
Dalle carte apprendiamo che i Conticini non avrebbero scommesso solo su questo piccolo paradiso fiscale, ma acceso anche conti correnti in Paesi in cui il segreto bancario è abbastanza ben custodito: a Capo Verde (Banco Caboverdiano De Negòcios) e alle Seychelles (Barclays bank).
Nel 2013 l’ Unicef deve aver sentito puzza di bruciato e ha messo alla porta i Conticini e la loro Play therapy Africa. Ha, invece, continuato a finanziarli, almeno sino al 2016, Cecille Stell Eisenbeis, un’ anziana filantropa, moglie di Michael Edgar Pulitzer, la quale, dagli Stati Uniti ha preso le loro difese, sebbene dica di averne perso le tracce tre anni fa.
L’ avvocato degli indagati, Federico Bagattini, raggiunto dalla Verità, risponde dal luogo di vacanza, che accidentalmente è il Portogallo.
Scherzando gli domandiamo se sia volato a Lagos, nell’ Algarve, per cancellare le prove contro i suoi clienti, e lui sta al gioco.
Poi però precisa: «Alessandro Conticini ha usato un suo conto corrente e non deve provare che i soldi erano suoi. È la Procura che deve provare che non lo erano, e che non ne poteva disporre. Io qui ho delle persone offese che dicono che hanno fatto i controlli e che per loro è tutto regolare. Punto».
Nel frattempo Alessandro e Valérie sembrano aver cambiato decisamente vita. Per esempio nel villone di Cascais, ad aprile, la signora aveva organizzato la nuova edizione del programma Clear1, una specie di corso pratico per accrescere l’ autostima e raggiungere i propri obiettivi.
«Qualunque sia il livello di avanzamento del tuo nuovo progetto (professionale o personale), desiderio profondo, percorso o progetto appena avviato, Clear porterà chiarezza per agire concretamente nella giusta direzione» si legge nella brochure di presentazione. Lo stage, di 32 ore, aveva la finalità di «delineare l’ obiettivo; sviluppare la visione; ascoltare l’ intuizione; accedere alle risorse; superare gli ostacoli; impostare la strategia e il piano d’ azione». Una lezione che i coniugi Conticini, secondo l’ accusa, devono aver introiettato con profitto.
La signora risulta essere anche «professionista Ho’ oponopono», un’ antica pratica hawaiana di risoluzione dei problemi attraverso la riconciliazione. Letteralmente significa «metti le cose al posto giusto» e il mantra dei sacerdoti guaritori in Occidente è stato così semplificato: «Mi dispiace, ti prego perdonami, ti amo, grazie». Chissà se tanto basterà ai magistrati.

https://www.mag24.es/2018/09/04/scandalo-unicef-scovato-il-conto-milionario-del-cognato-di-renzi-non-solo-un-villone-a-cascais-adesso-spunta-unintera-palazzina-in-centro-a-lisbona/

Euro, studio tedesco: “La Germania ci ha guadagnato più di tutti. Per gli italiani perdita di 73mila euro pro capite”.




Un rapporto del Centrum für europäische Politik stima in 23mila euro pro capite l'impatto positivo della moneta unica per i tedeschi tra 1999 e 2017. Seguono gli olandesi con 21mila euro di guadagni. Roma e Parigi guidano invece la classifica dei "perdenti". I numeri sono ricavanti confrontando l'andamento del pil con quello di altri Stati che non hanno adottato l'euro e che in precedenza avevano performance economiche simili.


La Germania e i Paesi Bassi hanno tratto enormi benefici dall’euro nei vent’anni trascorsi dalla sua introduzione, mentre per quasi tutti gli altri membri la moneta unica ha rappresentato un freno alla crescita economica. E l’Italia è il Paese in cui la moneta unica ha avuto i maggiori effetti negativi: senza l’euro, tra 1999 e 2017 il pil del Paese sarebbe aumentato di 4.300 miliardi di euro in più, pari a 73.600 euro pro capite. Sono le conclusioni a cui arriva lo studio 20 years of the euro: winners and losers del think tank tedesco Centrum für europäische Politik(Cep), secondo cui i Paesi membri che hanno promosso l’ortodossia di bilancio e criticato il salvataggio dei Paesi più indebitati sono stati i maggiori beneficiari della valuta unica. Dietro l’Italia nella classifica dei più penalizzati c’è la Francia, con una perdita di 56mila euro pro capite. Al contrario, i tedeschi grazie all’ingresso nell’Eurozona si ritrovano più ricchi di 23mila euro pro capite e gli olandesi di 21mila.

Vantaggi e perdite stimati con il metodo del “controllo sintetico” – Il report, firmato da Alessandro Gasparotti e Matthias Kulas, stima i guadagni e le perdite di pil determinati dall’ingresso nell’area euro con un metodo definito “controllo sintetico“. In pratica si tratta di confrontare le performance dei Paesi che sono entrati con quelle di diversi altri Stati (gruppo di controllo) che non hanno adottato l’euro e negli anni precedenti avevano registrato trend economici molto simili a quelli del Paese considerato. Lo studio si concentra otto paesi su 19 dell’area euro, quelli in cui c’è stato un lungo gap tra ingresso nella Ue e introduzione dell’euro, perché negli altri casi il risultato avrebbe potuto essere “distorto dall’ingresso nellUe e nel suo mercato unico”. I ricercatori specificano che il metodo non tiene conto di eventuali riforme messe in campo nei Paesi considerati. 








“L’Italia non ha capito come essere competitiva” – Per l’Italia il gruppo di controllo è costituito da Gran Bretagna (con un peso del 63,2%), Australia (31%), Israele (3,8%) e Giappone (2%), scelti perché nel periodo pre euro avevano pil pro capite non troppo diversi da quelli italiani. L’economia tedesca è stata invece messa a confronto con un paniere che comprendeva il Bahrain, il Giappone e la Gran Bretagna. “In nessun altro Paese tra quelli esaminati”, si legge nella scheda sulla Penisola, “l’euro ha causato simili perdite di prosperità. Questo è dovuto al fatto che il pil pro capite italiano ha ristagnato da quando è stato introdotto l’euro. L’Italia non ha ancora trovato un modo per essere competitiva all’interno dell’Eurozona. Nei decenni prima dell’euro il Paese a questo fine svalutava la sua moneta. Dopo l’introduzione dell’euro questo non è stato più possibile. Sarebbero state necessarie riforme strutturali. La Spagna mostra come queste riforme possano ribaltare il trend negativo”.
Nel 2017 impatto positivo di 280 miliardi per la Germania– Nel solo 2017, sostiene lo studio, il fatto di far parte dell’Eurozona ha avuto un impatto positivo di 280 miliardi per la Germania e un impatto negativo di 530 miliardi per l’Italia, pari a 8.700 euro pro capite. Gli effetti cumulati sulla prosperità nel periodo 1999-2017 – il 1999 è l’anno di debutto dell’euro sui mercati finanziari, anche se come moneta sarebbe entrato in circolazione solo nel 2002 – sono calcolati sommando i dati pro capite di ogni anno e “moltiplicando i risultati per il tasso di consumo medio nazionale del Paese” nel periodo prima dell’ingresso nell’euro.
La Grecia, si legge nel rapporto, “ha guadagnato molto nei primi anni dopo l’introduzione dell’euro, ma dal 2011 ha sofferto enormi perdite. Sull’intero periodo, il bilancio è lievemente positivo, per 2 miliardi o 190 euro per abitante”.

Mondo di mezzo, Gianni Alemanno condannato a sei anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito.

Mondo di mezzo, Gianni Alemanno condannato a sei anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito

Per l'ex sindaco anche l'interdizione dai pubblici uffici. La sentenza è più pesante della richiesta dall'accusa: il pm Luca Tescaroli, infatti, aveva chiesto per l’ex sindaco cinque anni di carcere. Secondo la procura Alemanno avrebbe percepito oltre 200mila euro senza averne titolo, buona parte dei quali attraverso la fondazione Nuova Italia da lui presieduta. L'ex primo cittadino: "Sentenza sbagliata, ricorso in Appello".

Sei anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici per corruzione e finanziamento illecito. È la sentenza emessa dal tribunale di Roma per l’ex sindaco Gianni Alemanno. La decisione della seconda sezione penale del tribunale capitolino è legata a uno dei filoni dell’inchiesta Mondo di mezzo, l’indagine della Procura di piazzale Clodio che tra il dicembre 2014 e il giugno 2015 cambiò lo skyline politico della Capitale. Ed è più pesante della condanna chiesta dall’accusa: il pm Luca Tescaroli aveva chiesto per l’ex sindaco cinque anni di carcere. “Una sentenza sbagliata. Ricorreremo sicuramente in appello dopo aver letto le motivazioni. Io sono innocente l’ho detto sempre e lo ribadirò davanti ai giudici di secondo grado”, è il primo commento dell’ex esponente di Alleanza Nazionale ed ex ministro delle Politiche agricole e forestali.
Il nome dell’uomo che decise le sorti di Roma tra il 2008 e il 2013 era comparso nelle carte della prima ondata di arresti dell’inchiesta su Mafia Capitale, il 2 dicembre 2014, nel corso della quale erano finite in carcere 37 persone. I magistrati di piazzale Clodio lo accusavano di aver ricevuto oltre 200mila euro, in gran parte attraverso la fondazione Nuova Italia da lui presieduta, per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio. I pm gli contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, accusa in seguito archiviata il 7 febbraio 2017.
I fatti risalgono al periodo tra il 2012 e il 2014: l’ex ministro avrebbe ricevuto dall’imprenditore Salvatore Buzzi in accordo con Massimo Carminati223.500 euro, dei quali il pm Tescaroli ha chiesto la confisca, attraverso pagamenti alla fondazione e al suo mandatario elettorale e diecimila euro in contanti. Il tutto con l’aiuto e l’intermediazione dell’ex amministratore dell’azienda romana dei rifiuti (Ama), Franco Panzironi, suo stretto collaboratore.
Alemanno è stato “l’uomo politico di riferimento dell’organizzazione Mafia Capitale all’interno dell’amministrazione comunale – aveva sostenuto Tescaroli in dibattimento – soprattutto, in ragione del suo ruolo apicale di sindaco, nel periodo 29 aprile 2008-12 giugno 2013 (e successivamente di consigliere di minoranza in seno al Pdl)”. I suoi “uomini di fiducia – aveva insistito – indagati e alcuni anche condannati in Mafia Capitale, sono stati proiezione della persona di Alemanno, che ha impiegato per la gestione del proprio potere, e si sono interfacciati con gli esponenti apicali di Mafia Capitale, suoi corruttori (Buzzi e Carminati)”.
In che modo? Secondo le accuse pronunciate da Tescaroli durante le 6 ore di requisitoria dell’8 febbraio, Alemanno ha “venduto” la sua funzione anche con l’ausilio “del fidato Franco Panzironi, parimenti corrotto”, al “sodalizio criminale Mafia Capitale” che “è riuscito a ottenere il controllo del territorio istituzionale di Ama spa, società presieduta dal Comune di Roma, incaricata di pubblico servizio, ente aggiudicatore di appalti, target privilegiato dell’organizzazione”. E ancora: Alemanno “ha consentito di porre le strutture del suo ufficio, di Ama Spa e di Eur Spa a disposizione di Buzzi e di Carminati”.
Tra le pene accessorie, il tribunale ha stabilito anche che Alemanno per due anni non potrà contrattare con la pubblica amministrazione e deciso l’interdizione legale per tutta la durata della pena. L’ex sindaco di Roma – al quale sono stati confiscati 298mila euro – dovrà risarcire sia Ama che Roma Capitale ed è stata fissata una provvisionale di 50mila euro sia per la municipalizzata che per il Campidoglio. La sentenza – ha commentato il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra – “potrà soddisfare tanti e scontentare tanti altri, ma sentenza!” e quindi “ragioniamo insieme su come e quanto la cosa pubblica sia stata in passato asservita a logiche di mafia“.
“Provo dispiacere e amarezza”, ha commentato Marco Marsilio, neo presidente della Regione Abruzzo. “Mi auguro riesca a dimostrare la sua innocenza e totale estraneità alla vicenda”.
I 5 Stelle in Campidoglio vanno all’attacco. “Indipendentemente da quale sarà il risvolto nei successivi gradi di giudizio, questa sentenza accende per l’ennesima volta i riflettori su Mafia Capitale – scrive su Facebook il capogruppo del M5S in Campidoglio Giuliano Pacetti – Già, non dobbiamo dimenticare che la mafia ha distrutto Roma. Voglio ricordarlo, ancora una volta, a chi ci accusa di dare sempre la colpa a quelli che ci hanno preceduto. Per ripristinare la legalità siamo partiti dalle macerie. Tenetelo sempre a mente ogni volta che attaccate questa amministrazione dimenticando quello che abbiamo ereditato. #Alemanno#MafiaCapitale”, conclude.

lunedì 25 febbraio 2019

Perché l’Italia cresce poco? Molti numeri e qualche causa.

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Contributo a cura di Prometeia Associazione, think tank macro della società di consulenza Prometeia
L’economia italiana cresce poco da molto tempo e il reddito pro-capite dei cittadini italiani è tornato indietro di 20 anni, al livello del 1999 (Figura 1). Certamente è colpa della grande recessione, ma non solo.
In questa data viz scomponiamo la crescita del Pil nelle sue varie determinanti per capire cosa è successo. Infatti, la crescita del Pil può essere scomposta in tre componenti: il fattore lavoro (occupati e ore lavorate pro-capite), il fattore capitale (investimenti e il loro grado di utilizzo) e la produttività totale dei fattori (Total Factor Productivity, TFP), cioè la parte residua di output che eccede gli input di lavoro e capitale. In altri termini, la TFP è una misura del grado di efficienza del sistema economico nel suo complesso.

Dalla Figura 2 risulta chiaro che l’economia italiana non si è differenziata da quelle di Francia e Germania per i contributi di lavoro e capitale, quanto piuttosto per una riduzione della TFP. In ultima istanza, il differenziale di crescita tra Italia e Francia e Germania è lo specchio del divario tra le diverse dinamiche della produttività totale dei fattori che, da vent’anni, ogni anno, “spiegano” 0.8 decimi di minore crescita rispetto alla Germania, 0.5 decimi rispetto alla Francia. La Spagna è un caso a sé, perché ha conosciuto una crescita molto squilibrata sugli investimenti in costruzioni, in particolare prima del 2008, con un contributo elevato di lavoro e capitale e negativo della TFP.
 La TFP è una misura che fornisce indicazioni sul grado di efficienza dei fattori produttivi, lavoro e capitale. Dipende da molteplici variabili: dimensione d’impresa, managerialità, digitalizzazione, efficienza dell’amministrazione pubblica e dell’apparato legislativo-giudiziario, divario Nord-Sud, istruzione, qualità del capitale, meritocrazia, differenziazioni salariali, quantità e qualità delle infrastrutture, ecc. Gli aspetti che concorrono a definirla rappresentano altrettanti campi dove la politica economica potrebbe intervenire per togliere il freno alla crescita italiana.
Praticamente, siamo indietro in tutto, grazie ai governi che si sono succeduti negli anni ma che piacciono ancora tanto agli italiani. Un detto recita: "chi è causa del suo mal, pianga se stesso".

Formigoni resta in carcere, rigettata la richiesta di sospensione dell'ordine di carcerazione.

Roberto Formigoni © ANSA

Secondo i legali le nuove norme 'Spazzacorrotti' non hanno effetto retroattivo e quindi applicate ad una condannato per fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge.

Il sostituto procuratore generale di Milano Antonio Lamanna ha respinto la richiesta di sospensione dell'ordine di carcerazione emesso venerdì scorso nei confronti di Roberto Formigoni in seguito alla condanna definitiva a 5 anni e 10 mesi per il caso Maugeri-San Raffaele.
Il pg, contestualmente, ha trasmesso il provvedimento di rigetto dell'istanza di detenzione domiciliare della difesa alla Corte d'appello affinché, tramite un incidente di esecuzione, si esprima sulla richiesta avanzata dai legali dell'ex governatore della Lombardia.
Tre giorni fa i legali di Formigoni, prima che l'ex governatore varcasse la soglia del carcere di Bollate, avevano presentato, infatti, al sostituto pg un'istanza per chiedere la sospensione dell'ordine di carcerazione e l'applicazione della detenzione domiciliare da ultrasettantenne. Nella richiesta, in particolare, la difesa ha sostenuto che le nuove norme della 'spazzacorrotti', che ha imposto una stretta sulle misure alternative al carcere per i condannati per corruzione, non possono essere retroattive ed essere, quindi, applicate ad un condannato per fatti-reato commessi prima dell'entrata in vigore della legge. Il pg, però, nel suo provvedimento, appena depositato, respinge la tesi dei legali, spiegando che sarebbe "irragionevole" procrastinare "l'applicazione della norma" ad anni "di distanza dalla sua entrata in vigore" e, dunque, non può valere il principio dell'irretroattività e ciò anche sulla base di una recente sentenza della Cassazione. Riguardo a tutte le altre questioni evidenziate dalla difesa, poi, il sostituto pg ha chiarito che non sono prima di tutto "pertinenti" in quanto non riguardano la fase dell'esecuzione della pena, che è di sua competenza, ma quella della concessione o meno al condannato di "benefici", che è di competenza del Tribunale di Sorveglianza. La difesa, infatti, ad esempio, ha sostenuto anche che la detenzione domiciliare come ultrasettantenne (Formigoni ha 71 anni) può essere concessa all'ex presidente della Lombardia anche senza una sua collaborazione (richiesta dalle nuove norme), perché i fatti corruttivi nel processo sono stati tutti accertati, con la sentenza definitiva, e la collaborazione non è più di fatto possibile. Un argomento anche questo, secondo il pg, che non è "pertinente" con la fase dell'esecuzione della pena, ma che riguarda sempre quella dei benefici e compete alle valutazioni della Sorveglianza. Il pg stesso, assieme alla bocciatura dell'istanza, ha deciso di sollevare l'incidente di esecuzione davanti alla quarta Corte d'Appello (che dovrà fissare un'udienza), senza attendere di fatto che lo facesse la difesa. I difensori potranno anche presentare una richiesta di detenzione domiciliare alla Sorveglianza.

Sardegna, elezioni regionali.

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Un bel pugno di partitucoli per la destra, altrettanti per la sinistra e ancora non si sa chi è stato eletto in Sardegna?
Per me ha vinto il m5s che, da solo, ha ottenuto un OTTIMO risultato.
Constatare che c'è ancora chi dà il proprio appoggio a chi ha contribuito a distruggere economicamente e socialmente il nostro paese, è devastante. Siamo masochisti oppure ci piace sguazzare nel fango, noncuranti del fatto che così agendo stiamo decretando la nostra disfatta? Perché, sia ben chiaro: anche chi ha accettato un piccolo obolo in cambio del suo voto, (quando chi lo ha corrotto avrà realizzato il suo obiettivo) alla fine, sarà abbandonato a se stesso, in mezzo ad una strada e senza un centesimo. Oltretutto, da alcune "aggregazioni", una volta messa la firma di adesione, è difficile allontanarsi. Sapete perché, quando uno di loro va in prigione, tutti gli altri, facenti parte della stessa o similare aggregazione, gli manifestano solidarietà? Perché, essendo partecipi delle magagne e delle illegalità che hanno dovuto commettere per raggiungere i loro obiettivi comuni, hanno una fifa tremenda che chi viene condannato possa, per vendetta, incominciare a cantare sfoggiando un bel do di petto e spifferando tutte le porcherie della quali è a conoscenza. Personalmente, chi si piega per interesse, mi fa pena, mi suscita disgusto. Reputo che sia meglio vivere miseramente, ma con la coscienza pulita, che piegarsi al volere altrui. Alla fine, dando ancora consenso a chi ci ha disonorato, abbiamo perso tutti, anche se solo per colpa di chi non accetta lo stato di legalità e coerenza. by cetta.

Il Bruto. - Michel Onfray



Michel Onfray, filosofo e saggista francese, confronta la risposta, brutale, del regime di Macron nei confronti del movimento dei gilet gialli con l’atteggiamento tenuto da Polizia e ministero dell’Interno in occasione della rivolta delle banlieue del 2005. La strategia della repressione brutale fin qui seguita da Macron – contrapposta a quella di allora, di contenere le violenze e attenersi al mantenimento dell’ordine –  tradisce la volontà politica di fomentare i disordini per poter scatenare la violenza di Stato in difesa estrema dell’ordine liberale fortemente contestato dal popolo.   

“Io sono il frutto di una forma di brutalità della storia.” Macron, 13 febbraio 2018, di fronte alla stampa.

Certo, lo Stato incarna bene questo Moloch che ha il monopolio legittimo della forza: ma per fare cosa?

A parte l’irenismo radicale, essendo la natura umana quella che è, non si tratta di immaginare un mondo in cui non ci sia più bisogno di esercito o polizia, tribunali o prigioni, legge e giustizia. Se siamo d’accordo che il molestatore non è l’abusato, l’aggressore l’aggredito, il ladro il derubato, il rapinatore il rapinato, occorre che una serie di meccanismi sociali permettano di fermare il molestatore, l’aggressore, il ladro, il rapinatore, per portarli davanti ai tribunali che giudicano i fatti dal punto di vista della legge e del diritto, e  mandare le persone giudicate colpevoli a scontare la pena in nome della riparazione del danno subito dall’aggredito, dal derubato, dal rapinato, dal molestato, ma anche per proteggere gli altri cittadini dalla pericolosità di questi criminali. Dando per acquisito che possono esistere delle circostanze aggravanti o attenuanti, e che tutti, a prescindere dalla loro imputazione, hanno il diritto alla difesa e alla riabilitazione una volta scontata la pena.

Che l’uso legittimo della forza presupponga che essa possa essere usata per mantenere la legalità – questa dovrebbe essere una verità ovvia… Ma quando, a metà settembre 2018, i gilet gialli proclamano, all’inizio delle loro giornate di rabbia, che il loro potere d’acquisto non permetterà loro di pagare le ulteriori tasse obbligatorie per legge che aumentano il prezzo del carburante alla pompa, non mettono in pericolo la democrazia e la Repubblica, poiché fanno appello agli articoli 13 e 14 della Carta dei diritti l’uomo e, non dimentichiamo, del cittadino. Con il loro movimento, essi rivendicano uno di quei diritti che questo testo fondamentale concede loro. L’ho già menzionato, ma va ricordato che l’articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo recita: “Per il mantenimento della pubblica forza e per le spese d’amministrazione è indispensabile una comune contribuzione, la quale dev’essere ugualmente ripartita fra tutti i cittadini in ragione delle loro facoltà“. E il seguente articolo: “Tutti i cittadini hanno il diritto di comprovare o da se stessi o tramite i loro rappresentanti la necessità della pubblica contribuzione, di approvarla liberamente, di seguirne l’applicazione, di determinarne la quota, la riscossione e la durata.” I gilet gialli non hanno rifiutato l’imposta, come la propaganda dei media ripete da settimane per assimilarli al populismo fascista, ma solo dichiarato che non hanno più i mezzi finanziari per pagarla! Una risposta appropriata da parte del governo avrebbe soffocato la rabbia sul nascere. Invece, la risposta è stata immediatamente bellicosa: da qui l’origine della violenza.

Questo spirito bellicoso ha preso la forma che sappiamo; elementi del linguaggio del potere macroniano sono stati trasmessi e poi abbondantemente diffusi dalle “élite”: il movimento dei gilet gialli era una rivolta di estrema destra, una rivendicazione populista che sapeva di camicie brune, un movimento che puzzava di “fascio”. Bernard-Henri Lévy ne ha parlato da subito in questo modo, insieme a … Mélenchon e Clémentine Autain, Coquerel e la CGT (Confederazione sindacale del lavoro, ndt), che hanno partecipato al coro “populicida” insieme a tutti gli editorialisti della stampa di Maastricht.

[…]

Questa violenza simbolica, il cui braccio armato è costituito dai media del sistema, si accompagna a una violenza poliziesca. Si sa che le parole uccidono, ma, per farlo, hanno bisogno di attori violenti: il potere dispone di un certo numero di agenti di polizia e di funzionari di giustizia i quali, sapendo di beneficiare di una copertura da parte del ministro dell’Interno e quindi dell’Eliseo e di Macron, si abbandonano alla violenza.

Mi sono ritrovato in una dibattuito televisivo con Jean-Marc Michaud, l’uomo che ha perso un occhio a causa di una flash-ball. Ha espresso tutta la sua rabbia contro il tiratore, e lo posso comprendere. La prima reazione di chi ha subito violenza è di voler rispondere nello stesso modo. Si riceve un colpo, e non si ha voglia d’altro che di restituirlo moltiplicato per cento. Il cervello rettiliano comanda, quando la corteccia non fa il suo lavoro.

Ma certamente c’è una responsabilità del tiratore: se egli sa che dovrà rendere conto alla giustizia per non essersi comportato secondo le procedure – tra cui quella, fondamentale, di non mirare alla testa – allora probabilmente si comporterà diversamente.

Ma quando si sa che si può beneficiare dell’impunità del potere, allora si tira o si colpisce senza esitazione, e, come ho potuto constatare io stesso a Caen, in mezzo ad un’esaltazione non dissimulata da parte di chi assiste alle percosse, ai pestaggi, alle persone sbattute violentemente a terra, ammanettate, ma anche, in alcuni casi, denudate e palpate…

Ho già detto altrove che supponevo che alcuni agenti di polizia si stessero infiltrando tra i cosiddetti casseur per alimentare la teoria del potere secondo la quale tutti i gilet gialli sono violenti. Dopo aver dato questa informazione, alcuni gilet gialli mi hanno fatto sapere per posta che ne avevano le prove. Tornerò su questo argomento quando verrà il momento.

Ma senza concentrarsi su questo caso particolare, si può leggere quanto scrive un sindaco di destra, quindi non un gauchista, Xavier Lemoine, che fornisce un’informazione interessante. Afferma su Le Figaro che, come sindaco di Montfermeil, ha scoperto che “la polizia ha represso in minor misura le rivolte delle banlieue nel 2005 rispetto ai gilet gialli” (29 gennaio 2019). E questo dice tutto.

Il sindaco nota che nel 2005 non ci sono stati morti e solo pochi feriti tra i ribelli, anche se i rivoltosi avevano scelto la violenza come loro unico mezzo di espressione. Egli ne dà una ragione: la polizia allora aveva scelto di mantenere l’ordine e non, come Macron, una logica di repressione. Mantenere l’ordine non è reprimere. Sono due scelte politiche molto diverse ideologicamente, politicamente, strategicamente, tatticamente – e anche moralmente. Emmanuel Macron ha deliberatamente scelto di reprimere e non di mantenere l’ordine. Il capo dello Stato quindi non ha voluto contenere la violenza delle rivendicazioni, ma scatenare la violenza di Stato. È un progetto.

Xavier Lemoine osserva che la scelta di mantenere l’ordine, come indicano le parole, cerca soprattutto di mantenere l’ordine, così da evitare il disordine. Tornerò su questo: non mi si farà credere che lasciare che l’Avenue degli Champs-Elysées venga disselciata davanti agli obiettivi delle telecamere di BFMTV per quasi un’ora, non rifletta il fatto che la polizia non aveva la consegna di impedire i disordini, ma, al contrario, di favorirli, lasciando che questi ciotoli dei marciapiedi diventassero proiettili da lanciare su obiettivi umani o materiali…

Parlando della sua città, Xavier Lemoine afferma: “Nel 2005 tutte (sic) le rivendicazioni sono state espresse con la violenza. All’epoca, tuttavia, le autorità di polizia hanno adottato la modalità di intervento più appropriata per reprimere questa violenza. Da un punto di vista tecnico, il loro attacco è stato flessibile ed efficace. Anche quando erano presi di mira dai rivoltosi, i poliziotti e la gendarmeria hanno mostrato grande moderazione nell’uso della forza. Oggi, al contrario, nessuno può sostenere che tutte le rivendicazioni dei ‘gilet gialli’ siano espresse con la violenza. Inoltre, nel 2005, non c’erano donne tra i rivoltosi, mentre le donne sono massicciamente presenti nei ranghi dei ‘gilet gialli’. Non tenerne conto è privarsi di un elemento fondamentale di analisi. Contrariamente a quanto può suggerire il potere delle immagini, la maggior parte dei ‘gilet gialli’ non partecipa alle riprovevoli violenze commesse durante le manifestazioni. Tuttavia, da sabato 8 dicembre la polizia privilegia la repressione, non il mantenimento dell’ordine”. Al giornalista che gli chiede di chiarire cosa distingue l’applicazione della legge dalla repressione, Xavier Lemoine risponde: “Il mantenimento dell’ordine consiste da un lato nel permettere a una manifestazione di fluire nel modo più pacifico possibile, e dall’altro nel contenere la violenza al fine di ridurla. Questo obiettivo non impedisce alla polizia di intervenire nei confronti di persone decise ad atti di violenza “- Penso a coloro che disselciano Avenue des Champs Elysées …

Egli prosegue: “Ma ai manifestanti pacifici sono sempre lasciate delle vie d’uscita. Le persone che lo vogliono possono sempre andarsene quando la situazione degenera. La repressione, invece, consiste nel combattere contro gruppi di persone senza necessariamente distinguere tra individui violenti e manifestanti pacifici, che possono anche essere lontani tra loro. Ebbene, nella crisi attuale la polizia ricorre troppo spesso alle ‘reti’, che impediscono alle persone circondate di abbandonare i luoghi. È facile quindi fare confusione tra dimostranti molto diversi tra loro. Quanti tra coloro a cui è stato cavato un occhio avevano sfasciato vetrine, automobili, saccheggiato negozi? Allo stesso modo, la distinzione tra criminali ‘confermati’ e incensurati dovrebbe essere molto più attenta.” Per Xavier Lemoine, la polizia sta obbedendo a un potere che ha scelto la repressione e la brutalità. Obbediscono. Il primo responsabile, quindi il colpevole, è colui che dà l’ordine. E poiché non si può pensare che Castaner o Philippe prendano la decisione da soli, è il capo dello Stato a cui deve essere imputata la scelta della repressione, quindi la responsabilità di ogni ferita inflitta. Quando questo stesso capo di Stato afferma in modo insensibile in Egitto che le forze dell’ordine non hanno causato alcuna morte, se non quella della signora Redoine a Marsiglia, egli mente. Ed è personalmente responsabile di questa morte [1]. Il bruto è lui.

Leggiamo ancora Xavier Lemoine: “Non incrimino la polizia, che obbedisce, come è naturale, alle istruzioni del ministro degli Interni. Ma do la colpa a queste istruzioni, che mi sembrano tradire il desiderio di spingersi agli estremi, aumentare la violenza, per giustificare una repressione. Non ho nessuna accondiscendenza verso la violenza premeditata di rivoltosi o gruppi di estremisti. Ma responsabilità della politica è anche sapere come disinnescare un grido di angoscia, invece di alimentarlo demonizzando i ‘gilet gialli’. Nel 2005 i governanti non hanno mai fatto commenti così dispregiativi sui rivoltosi del tempo. Attualmente, una parte significativa della violenza proviene da manifestanti senza precedenti penali, disperati e infuriati. Si sentono provocati dalla rigidità della risposta della polizia. Le dinamiche della folla aiutano, ‘radicalizzano’ . Le reazioni istintive si esprimono brutalmente. Nel 2005 nessuna dimostrazione era stata autorizzata dalla prefettura e tutte erano degenerate in rivolte. Tuttavia, a quel tempo a Seine-Saint-Denis non c’è stata nessuna carica dei corpi speciali antisommossa o della polizia a cavallo. Oggi, sì. Quattordici anni fa la polizia non ha fatto ricorso a tiri ad altezza d’uomo, orizzontali, e a breve distanza. Oggi, sì. Perché questi due pesi e due misure dello Stato tra le rivolte urbane del 2005 e le manifestazioni di protesta dei ‘gilet gialli’ ? Non penso che la polizia sia stata negligente nel 2005; dico che sono troppo ‘duri’ oggi.”

Che il presidente Macron abbia scelto la linea dura della repressione contro la linea repubblicana di mantenimento dell’ordine è quindi dimostrato. Egli ha al suo servizio la stampa di Maastricht, in altre parole i media dominanti, inclusi quelli del servizio pubblico televisivo, ha al suo servizio la polizia, l’esercito, quindi le forze dell’ordine, e ha anche provato a coinvolgere la macchina della giustizia. Ciò è evidenziato da un articolo del Canard enchaîné (30 gennaio 2019) intitolato “Le incredibili istruzioni dell’ufficio del pubblico ministero sui gilet gialli”, che riporta in dettaglio come il ministero della Giustizia ha comunicato per email con i giudici della Procura di Parigi su come trattare i gilet gialli: dopo un arresto, anche se è stato commesso per errore, si deve comunque mantenere l’iscrizione nell’archivio dei precedenti penali, anche “quando i fatti non costituiscono reato“. La comunicazione specifica anche che bisogna depositare gli atti, anche se “i fatti contestati sono di lieve entità” e anche nel caso provato “di un’irregolarità della procedura“! In questi casi, arresto per errore, reati non suffragati da elementi di prova, irregolarità procedurali, è consigliabile fermare le persone e non liberarle fino a dopo le manifestazioni del sabato, per impedire che ai cittadini ingiustamente arrestati sia data la possibilità di esercitare il loro diritto di sciopero, va ricordato, un diritto garantito dalla Costituzione? Punto 7 del preambolo …

Aggiungiamo che la legge anti-casseur proposta da Macron prevede semplicemente di stabilire una presunzione di colpevolezza nei confronti di chiunque sia sospettato di essere solidale con la causa dei gilet gialli. Sospettato da chi? Dalla stessa giustizia a cui il potere chiede, in primo luogo, di tenere in custodia una persona anche arrestata per errore, in secondo luogo di rilasciarla solo dopo la fine delle dimostrazioni, in terzo luogo di seguire la stessa procedura anche nel caso di errore procedurale, in quarto luogo di non preoccuparsi che i fatti siano provati e non irrilevanti, dato che la giustizia macroniana, sostenuta dalla polizia macroniana all’ordine dell’ideologia macroniana, che è puramente e semplicemente quella dello Stato di Maastricht, ha deciso che deve essere così. Mélenchon ha parlato a questo proposito di ritorno delle lettre de cachet, e non ha torto su questo.

La violenza genealogica, che è la base delle prime rivendicazioni dei gilet gialli, è prima di tutto quella imposta dal sistema politico liberale instaurato imperativamente dallo Stato di Maastricht dal 1992. 
 Quando Macron dice che le radici del male sono antiche, lo sa fin troppo bene, perché è uno degli uomini la cui breve vita è stata interamente dedicata all’instaurazione di questo programma liberale che si rivela forte con i deboli, come vediamo nelle nostre strade da dodici settimane, e debole con i forti, come dimostrato dalla legislazione a loro favore – dalla soppressione dell’ISF (l’imposta sulle grandi fortune, ndt) al rifiuto di toccare i paradisi fiscali, alla tolleranza verso l’evasione delle imposte da parte del GAFA (Google, Apple, Facebook e Amazon,ndt) .

La violenza di questo Stato di Maastricht contro i più deboli, i più disarmati, i meno istruiti, i più lontani dalle megalopoli francesi o da Parigi; la violenza di questo Stato di Maastricht sui più precari in assoluto, sulle persone modeste che portano da sole il peso di una globalizzazione felice per gli altri; la violenza di questo Stato di Maastricht su quelli dimenticati dalle nuove compassioni del politicamente corretto; la violenza di questo Stato di Maastricht contro le donne single, le madri single, le vedove con le pensioni di vecchiaia tagliate, le donne costrette ad affittare il loro utero a uno sperma mercenario, vittime della violenza coniugale derivante dalla povertà, giovani ragazzi o ragazze che si prostituiscono per pagare i loro studi; la violenza di questo Stato di Maastricht sugli abitanti delle campagne privati giorno dopo giorno dei servizi pubblici che loro ancora finanziano con la tassazione indiretta; la violenza di questo Stato di Maastricht sui contadini che si impiccano ogni giorno perché la professione di fede ecologista dei maastrichtiani delle città non si confonde con l’ecologia quando si tratta del piatto dei francesi riempito di carni avariate, di prodotti tossici, di chimica cancerogena, di cibo che arriva dall’altra parte del pianeta senza curarsi delle tracce di CO2, anche se sono bio; la violenza di questo Stato di Maastricht sulle generazioni di bambini rincretiniti da una scuola che ha cessato di essere repubblicana e che lascia alle ragazze e ai ragazzi la possibilità di uscirne non grazie ai loro talenti, ma grazie agli appoggi delle loro famiglie ben nate; la violenza di questo Stato di Maastricht che ha proletarizzato i giovani la cui unica speranza è la sicurezza di un posto di lavoro da poliziotto, da gendarme, da soldato o da guardia carceraria e il cui compito è gestire con la violenza legale i rifiuti del sistema liberale; la violenza di questo Stato di Maastricht sui piccoli padroni, i commercianti, gli artigiani che non conoscono vacanze, svaghi, fine settimana, serate fuori – questa violenza, sì, è la prima violenza. Questi sono quelli che non hanno generato violenza, ma solo in origine una protesta contro l’aumento del carburante.

La risposta del potere, quindi di Macron, a questa ammissione di povertà dei poveri è stata immediatamente la criminalizzazione ideologica. I media, agli ordini, hanno gridato al lupo fascista. Da diversi mesi, questo è il loro pane quotidiano: secondo i ricchi che li governano, i poveri sarebbero antisemiti, razzisti, omofobi, violenti, cospirazionisti – “bastardi” ha detto Bernard Henri Lévy a Ruquier. Questa è la vecchia variazione sul tema: classi lavoratrici, classi pericolose. È l’antifona di tutti i poteri borghesi quando hanno paura.

Pertanto, il capo dello Stato mobilita i media che disinformano, la polizia che dà la caccia al manifestante, la giustizia che li schiaffa dentro, la prigione che li parcheggia quando l’ospedale non li cura dopo le percosse. Quando capiremo che questi sono i pezzi di un puzzle dispotico?

http://vocidallestero.it/2019/02/12/michel-onfray-il-bruto/ 

Condivido in toto. Macron sta dando prova della sua assoluta mancanza di democraticità e di abnegazione verso chi detiene il potere economico.
Non si venga a dire, poi, che è il governo italiano ad utilizzare metodi anti democratici quando abbiamo esempi ben più fascistoidi nella UE.