sabato 24 aprile 2021

Stop al vitalizio ai condannati: Senato contro Formigoni&C., il segretario generale ha impugnato la decisione in appello. - Ilaria Proietti

 

Sentenza Caliendo: il ricorso di Palazzo Madama.

Ha sfondato quota 100mila firme l’appello con cui il Fatto ha chiesto ai massimi vertici del Senato di rimediare alla decisione di ridare i vitalizi ai condannati portando la questione di fronte alla Corte costituzionale. Sì, perché a Palazzo Madama dieci giorni fa l’organo di giustizia interna presieduto da Giacomo Caliendo di Forza Italia ha cancellato le regole che il massimo organo politico dello stesso Senato si era dato nel 2015 quando aveva deciso di chiudere i rubinetti agli ex inquilini che si fossero macchiati di reati gravissimi, dalla mafia al terrorismo passando per la corruzione. In una sorte di autogolpe, che ha favorito non solo Roberto Formigoni che aveva fatto ricorso per riavere l’assegno, ma pure tutti gli altri, da Berlusconi a Dell’Utri passando per Del Turco a cui era finora rimasto negato per via del casellario giudiziale non esattamente puro come un giglio. Un conflitto tra poteri tutto interno a Palazzo consumato sulla questione dell’argent. Che conta eccome. E ieri Formigoni ha attaccato il Fatto: “Nessun altro esponente di partito si è espresso, riconoscendo la giustezza della Commissione contenziosa. È stato solo il M5S, agitato dal proprio house organ, che è il Fatto Quotidiano, alimentato dagli odiatori, ma ho pietà per loro”.

Non è una pensione.

Così, mentre si riflette sul ricorso alla Consulta, il segretario generale del Senato, Elisabetta Serafin, che guida l’amministrazione di Palazzo Madama, ha impugnato in appello la sentenza di Caliendo&C. Con un ricorso che smonta in radice il presupposto che ha consentito di riaprire i rubinetti a Roberto Formigoni e ad altri 12 condannati (o loro eredi) baciati, diciamo così dalla fortuna. Perché, checché ne dica la Contenziosa, il vitalizio non è affatto una pensione pure se lo si vuol far a tutti i costi credere. “L’affermazione della natura previdenziale dell’assegno degli ex parlamentari che sarebbe contenuta nelle ordinanze delle Sezioni unite del 2019 (ossia la novità giurisprudenziale invocata a sostegno della tesi sostenuta dalla Contenziosa, ndr) non si evince dalla portata delle ordinanze stesse” ha scritto infatti il segretario generale sottolineando come le ordinanze in questione si limitino ad affermare “che il cosiddetto vitalizio rappresenta la proiezione economica dell’indennità parlamentare per la parentesi di vita successiva allo svolgimento del mandato. Ma sulla natura previdenziale non viene specificato nulla di più”.

E non è tutto. Perché nel ricorso il segretario generale evidenzia pure che, per ridare il vitalizio a Formigoni, l’organo di giustizia interna del Senato abbia addirittura smentito se stesso. In altre pronunce precedenti aveva infatti confermato la sospensione del vitalizio ai condannati sulla base della delibera che nel 2015 ha introdotto un nuovo presupposto di onorabilità per poterne godere: ossia le condizioni di dignità e onore che l’articolo 54 della Costituzione prevede per coloro che rivestono cariche pubbliche. Ma allora perché la commissione Caliendo oggi afferma il contrario brutalizzando con l’onta dell’illegittimità la stessa delibera?

La carta: Dignità e onore.

E sì che, come ricorda anche nel ricorso la Serafin, prima di decidere lo stop degli assegni ai condannati, era stata fatta una istruttoria approfondita con la richiesta di pareri a costituzionalisti ma anche al Consiglio di Stato che aveva dato semaforo verde. Anche perché il provvedimento che stabilisce la sospensione dell’assegno al venir meno delle condizioni di dignità e onore, era stato modellato sulla legge Severino (che ha stabilito che le condanne di un certo tipo facciano venir meno il requisito soggettivo per il mantenimento delle cariche pubbliche) ritenuta perfettamente legittima dalla Corte costituzionale.

Ora grazie a Caliendo&C. si vorrebbe tornare all’antico, ma non senza conseguenze.

Perché quella decisione adottata peraltro non per il solo Formigoni ma erga omnes, espone il Senato non solo alle critiche e allo sdegno, ma pure “alla restituzione di rilevanti importi verso i dodici senatori nei confronti dei quali è cessata da anni l’erogazione del trattamento”. Con l’ulteriore complicazione che se in Appello la sentenza venisse ribaltata, l’amministrazione dovrebbe recuperare le somme provvisoriamente ripristinate. Per questo il segretario generale oltre a fare appello ha chiesto che la sentenza, immediatamente messa in esecuzione da Sua Presidenza Casellati, venga sospesa in attesa della definizione del giudizio di secondo grado.

ILFQ

Draghi presenta il Recovery. Stop a quota 100 dal 2022.

 

La bozza del piano al Cdm. Per la supervisione politica, un comitato a palazzo Chigi con ministri competenti.


Il CdM sul Piano di Ripresa e Resilienza è stato convocato per questa mattina alle 10. L'impegno di Draghi è 'consegnare alle prossime generazioni un Paese più moderno'.

Nella bozza di 318 pagine sono tratteggiate sei missioni, quattro grandi riforme, tre priorità trasversali di sostegno a giovani, donne, Sud. Previste 30 grandi infrastrutture di ricerca e uno di eccellenza per le epidemie. La stima del suo impatto sul Pil "sarà nel 2026 di almeno 3,6% più alto". Stop a quota 100, 228mila nuovi posti per gli asili, accesso snello, semplificazione e digitale per la P.A, la laurea varrà già come esame di Stato. Più gare nei servizi pubblici, 25 miliardi per i treni veloci. Non è prevista la proroga del Superbonus fino al 2023. La supervisione politica del piano sarà a Palazzo Chigi.

Ma è forse il più complicato, l'ultimo miglio che il premier deve percorrere prima dell'invio del piano all'Europa, il 30 aprile. Perché i partiti hanno le armi affilate, la discussione promette di essere puntigliosa in Consiglio dei ministri. Il Cdm che era previsto in giornata, slitta alle 10 di sabato: nessuna ragione politica, spiegano da Palazzo Chigi, ma la necessità di completare le rifiniture del piano. Intanto però la bozza del Pnrr inizia a circolare e far emergere, agli occhi, dei partiti della maggioranza, alcune criticità. Su tutte c'è la mancata proroga al 2023 del Superbonus caro al M5s, ma chiesto anche da Confindustria. Ma dalla Rete unica alle pensioni (con la fine di quota 100), fino alla composizione della cabina di regia, la vigilia del Cdm vede ancora alcuni nodi sul tavolo. La bozza prevede che il 40% delle risorse vadano al Sud, il 38% a progetti "Verdi" e il 25% a progetti digitali. Il piano è composto da 6 missioni e 4 riforme della Pubblica amministrazione, della giustizia, per la concorrenza e le semplificazioni. Dopo l'invio del piano in Europa il governo si appresta a varare tre decreti e leggi delega come quella prevista a luglio per la concorrenza. Un decreto servirà a snellire le norme (con la nascita di un apposito ufficio a Palazzo Chigi), con misure come una speciale "VIA statale" per rendere più rapide le autorizzazioni del Pnrr. Il secondo decreto servirà per le assunzioni nella P.a. che rafforzeranno l'attuazione del Recovery. E il terzo per definire la governance del piano: la cabina di regia a Palazzo Chigi (con rafforzamento degli uffici della presidenza del Consiglio) dovrebbe coinvolgere le amministrazioni coinvolte, gli enti locali, le parti sociali.

Recovery plan, il programma da 221,5 miliardi per far ripartire l'Italia.

Il grosso del piano è definito e difficilmente cambierà. Ci sono - tra le numerose misure - 6,7 miliardi per le rinnovabili, internet veloce a 8 milioni di famiglie e 9mila scuole, 25 miliardi per la rete ferroviaria veloce, 228mila nuovi posti negli asili. Ma ci sono anche alcuni temi politicamente sensibili . Sparisce dal piano (ma resta finanziato e dunque per ora in vigore) il cashback. A fine 2021 scadrà anche quota 100, cara alla Lega, e sarà sostituita da misure pensionistiche per chi svolga lavori usuranti. Non c'è la proroga al 2023 per il Superbonus: l'agevolazione al 110% per le ristrutturazioni edilizie viene confermata com'è oggi, fino al 2022, i fondi non crescono. 

Scontro nella maggioranza - "Il super bonus è una misura importante. Per noi indispensabile con adeguati finanziamenti". E' la dura reazione di FI alla notizia della mancanza, nella bozza del Pnrr, della proroga del Superbonus fino al 2023. Questa proroga - fanno sapere fonti azzurre - era tra le proposte vincolanti fatte da Fi al governo nel piano presentato nei giorni scorsi. "Avevamo chiesto la proroga di un anno - prosegue Fi - con adeguati finanziamenti ed estensione ad altre tipologie di edifici, strutture recettive turistiche e non solo, addirittura per patrimonio immobiliare di fondi". "Il superbonus al 110% è una misura creata dal Movimento, la sua proroga è indispensabile e imprescindibile per la transizione ecologica. Si ricorda che proprio la transizione ecologica è la matrice che ha fatto nascere questo governo". Lo sottolineano fonti del M5S.

ANSA

Il condannato Formigoni ha poco da festeggiare. La Corte dei Conti conferma che deve risarcire 47,5 milioni. - Clemente Pistilli

 

Due anni fa gli arresti domiciliari e poi, negli ultimi giorni, il ripristino del vitalizio, nonostante la delibera Grasso lo revochi ai condannati in via definitiva, e il successo legato al suo libro. Il peggio per l’ex governatore centrista della Lombardia, Roberto Formigoni, dopo anni di scandali, sembrava ormai consegnato al passato. Ma qualche intoppo arriva a tutti e per il Celeste è giunto sotto la forma di una sentenza d’appello della Corte dei Conti, che conferma la condanna a lui inflitta a risarcire oltre 47 milioni di euro al Pirellone.

La storiaccia dell’ormai ex uomo forte del centrodestra è iniziata nel 2012, quando sono spuntate fuori le prime accuse su un giro di mazzette con al centro Pierangelo Daccò, un suo amico. Da lì quelle sui circa 70 milioni di euro che sarebbero stati distratti dal patrimonio della fondazione Maugeri e sui milioni di fondi neri attorno all’ospedale San Raffaele. Un terremoto sulla sanità privata lombarda.

Con Formigoni ben presto a sua volta accusato di corruzione, tra vacanze da sogno, yacht e altri lussi, e infine ritenuto dalla Procura di Milano al vertice di un’organizzazione criminale. Condannato in primo grado a sei anni di reclusione, pena aumentata in appello a sette anni e mezzo, nel 2019 l’ex governatore è stato condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione a 5 anni e 10 mesi, finendo nel carcere di Bollate e ottenendo infine i domiciliari.

Sulla stessa vicenda ha indagato anche la Corte dei Conti, che due anni fa ha condannato Formigoni, gli ex vertici della Fondazione Maugeri, Umberto Maugeri e Costantino Passerino, Pierangelo Daccò e Antonio Simone, a risarcire circa 47,5 milioni di euro alla Regione Lombardia, confermando così anche il sequestro al Celeste di 5 milioni di euro. Una decisione presa dai giudici sostenendo che l’organizzazione aveva “ad oggetto il mercimonio delle funzioni politico-amministrative, in un ambito, quale quello sanitario, particolarmente rilevante per l’interesse pubblico”.

Formigoni, Maugeri, la stessa Fondazione, e Passerino hanno impugnato la sentenza, che ora i giudici contabili d’appello hanno però confermato tranne che per Simone. Bocciata dalla Corte dei Conti la tesi degli appellanti di un danno erariale ormai caduto in prescrizione e bocciata anche la richiesta dell’ex governatore di sospendere il giudizio in attesa della definizione di quello civile.

Per i giudici è stata provata “l’esistenza di un accordo finalizzato alla sottrazione dalle casse della Fondazione dell’ingente importo di 71 milioni di euro, di cui 61 destinati a finanziare la corruzione degli amministratori regionali, nonché degli intermediari”. Formigoni dovrà risarcire la Regione.

LaNotizia

venerdì 23 aprile 2021

Il piano Draghi da 221 miliardi. Dal superbonus alla banda larga. -

 

Da sciogliere i nodi della governance. Le misure valgono 3 punti di Pil.


Mario Draghi porta in Consiglio dei ministri un Piano nazionale di ripresa e resilienza da 221,5 miliardi totali, di cui 191,5 riferibili al Recovery fund e 30 miliardi per finanziare le opere "extra Recovery". La spinta stimata alla crescita è di 3 punti di Pil nel 2026.

L'obiettivo, secondo le slide inviate dal ministro Daniele Franco ai colleghi ministri, è non solo "riparare i danni della pandemia" ma affrontare anche "debolezze strutturali" dell'economia italiana. Il grosso del piano è definito, con 135 linee di investimento. E l'impianto "non cambierà", sottolineano dal governo, di fronte alla mole di richieste che emerge in queste ore dai partiti. Il M5s annuncia battaglia sul Superbonus (chiesto a gran voce anche da Confindustria), ma per ora senza ottenere modifiche. Il Pd vuole vederci chiaro sulla Rete unica, FI chiede welfare per le famiglie, la Lega annuncia che presenterà in Cdm "altri progetti da aggiungere" al Pnrr.

E resta da sciogliere il nodo della governance del piano, che agita i ministri. Tutto ciò in un clima sempre più teso in maggioranza, dopo l'astensione della Lega sul decreto per le aperture. All'indomani del netto stop al tentativo di Matteo Salvini di modificare l'accordo raggiunto nel governo sulle aperture, Draghi - che descrivono seccato per quanto accaduto - registra un clima costruttivo nella riunione della cabina di regia sul Recovery che in mattinata vede al tavolo tutti i capi delegazione, incluso il leghista Giancarlo Giorgetti. Non si parla del tema aperture, che vede forte il pressing delle Regioni sulla scuola, ma è chiaro a tutti che il premier non intende tornare indietro. E in serata il decreto bollinato non presenta modifiche sostanziali rispetto a quanto approvato in Cdm, a partire dal coprifuoco. Certo, spiegano da Palazzo Chigi, il governo darà chiarimenti ai dubbi delle Regioni e ogni quindici giorni si faranno verifiche sui dati per decidere eventuali ulteriori aperture. Dunque se i dati sul contagio e sui vaccini continueranno a migliorare, il coprifuoco alle 22 non durerà fino al 31 luglio.

Ma che ci sia un problema, è opinione unanime tra gli alleati di governo. La tensione è altissima. Dal Pd trapela irritazione per il metodo leghista, di lotta e di governo: "O dentro o fuori", è il messaggio di Enrico Letta, che rilancia la proposta di un patto modello Ciampi per la corresponsabilizzazione degli alleati di governo, per cogliere l'occasione storica del Recovery. I Dem affermano che l'uscita leghista riflette la difficoltà di Salvini rispetto a Giorgia Meloni, che guadagna consensi all'opposizione. Certo, affermano fonti parlamentari di centrosinistra, non sarebbe poi così male se la Lega decidesse di uscire dal governo, lasciando con Draghi una maggioranza "Ursula", con la sola FI. Ma la risposta leghista è netta: restiamo assolutamente nel governo. Salvini e Giancarlo Giorgetti negano anche distanze tra di loro: c'è stata, assicurano i loro staff, "sintonia totale" sull'astensione in Cdm. Il tentativo è accreditarsi come interlocutore fondamentale di Draghi in maggioranza. Il leader leghista, che tiene alti i toni, fa sapere che i suoi contatti con il premier sono diretti, annuncia una nuova telefonata (a sera non risulta avvenuta). Come si possa andare avanti con continui strappi, però, ci si interroga a vari livelli nel governo. Il precedente è "grave", ha annotato Draghi. Il rischio è che lo strappo che si ripeta presto. Perché alla vigilia dell'approdo in Cdm del Recovery plan, la Lega fa trapelare irritazione per la consegna dei documenti a ridosso dell'esame e fa sapere, dopo un vertice di Salvini con i ministri, che intende aggiungere alcuni progetti al piano, raccogliendo "richieste dai territori" in particolare sulle infrastrutture. Se si fa il paio con i toni battaglieri del M5s sulla necessità di prorogare il Superbonus fino al 2023, fino a definire l'intervento "essenziale" per sostenere il Pnrr, si concretizza il rischio di un dibattito burrascoso da qui all'invio del Pnrr in Europa il 30 aprile.

Draghi nelle prossime ore farà la sua informativa in Cdm sul Pnrr e ascolterà le proposte che verranno messe sul tavolo, ma il Piano - viene sottolineato da Palazzo Chigi - nell'impianto non è destinato a cambiare. Il via libera arriverà solo dopo un secondo Consiglio dei ministri, che si svolgerà a metà della prossima settimana, dopo l'informativa che il premier svolgerà lunedì e martedì alle Camere. Italia viva, lette le tabelle del piano, esulta: "Prima era un elenco di spese, oggi è un piano per rilanciare il Paese". Ma gli altri partiti chiedono aggiustamenti, spiegando di non aver letto ancora il testo completo del Pnrr (il primo draft sarebbe stato scritto in inglese). Ci sono per la digitalizzazione 42,5 miliardi; per il Green 57 miliardi (il 30% del totale); per infrastrutture 25,3 mld; per istruzione e ricerca 31,9 mld; per inclusione e coesione con 19,1 mld; per la salute con 15,6 mld (in totale 19,7 miliardi, sommando altri fondi). Ma il Pd, rappresentato al tavolo da Andrea Orlando, chiede "attenzione alle clausole per l'occupazione delle donne e dei giovani, al Mezzogiorno, il potenziamento del progetto per l'autosufficienza, la garanzia sulla sicurezza per il cloud dei dati pubblici, la richiesta di chiarimento sulla strategia per la rete unica". Fonti di governo di FI spingono su Sud, Pa, partecipazione degli enti locali all'attuazione del piano. Leu dice no a interventi che possono portare più inquinamento. Da 'fuori', anche Confindustria chiede la proroga del Superbonus. Il dibattito è appena agli inizi.

ANSA

“Renzi sr. mi indicò russo, ma Romeo non me lo ricordo”. - Marco Lillo e Valeria Pacelli

 

Ai magistrati. Chierichetti: “Mi sarò limitata a passare il numero a Lotti, non mi chiese di prendere contatti”.

Lunedì prossimo ci sarà l’udienza preliminare dell’indagine Consip. Il Gup Annalisa Marzano dovrà decidere se e chi dovrà andare a processo e chi dovrà essere prosciolto.

La questione più delicata dal punto di vista politico è quella di Tiziano Renzi. Insieme all’imprenditore campano, Alfredo Romeo, e ad altri rischia il processo per traffico di influenze e turbativa di gara.

Intanto però la Procura di Roma, in questi mesi – dopo la chiusura dell’inchiesta di dicembre scorso – ha svolto un’attività integrativa d’indagine. I nuovi accertamenti nascono da un’informativa depositata nel procedimento napoletano, sempre su Romeo ma per altri fatti, che riguardava i messaggi trovati nel telefonino di Carlo Russo, amico di Tiziano Renzi, anche lui indagato. Il 1° febbraio, dopo l’acquisizione dell’informativa napoletana, è stata interrogata, come persona informata sui fatti, Eleonora Chierichetti, ex collaboratrice di Matteo Renzi quando era sindaco di Firenze e poi approdata nella segreteria di Luca Lotti a Palazzo Chigi. Per capire perché la Procura ha deciso di sentire la Chierichetti, bisogna dunque tornare all’informativa dei carabinieri napoletani. Il 10 aprile 2015, secondo i carabinieri, Tiziano Renzi “comunicava a Russo il numero del cellulare di Eleonora Chierichetti”. Due ore dopo aver ricevuto il contatto da Tiziano Renzi, Russo scrive: “Eleonora buongiorno, scusa se ti disturbo. Posso chiamarti? Grazie, Carlo Russo”. Tre giorni dopo, il 13 aprile 2015, Paola Grittani, collaboratrice di Romeo, invia a Russo il numero della Romeo Gestioni. “Dr. Ecco il numero della segreteria dell’avvocato. Si preoccuperanno di passare la telefonata n. 081******* saluti”. Due minuti dopo, Russo invia quel numero al cellulare della Chierichetti: “081******* avv. Romeo”.

Questi messaggi vanno contestualizzati. Un mese prima di quegli sms, il 4 marzo 2015, Russo porta Alfredo Romeo dal tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi (non indagato, che dice di aver parlato di un finanziamento lecito al Pd, da lui rifiutato). Il 22 aprile 2015 – 8 giorni dopo l’invio del sms di Russo a Chierichetti – Russo e Tiziano Renzi incontrano l’Ad allora in carica di Consip, Domenico Casalino, in un bar di Roma.

Tre mesi dopo quell’sms, Tiziano, Russo e Romeo si incontrano il 16 luglio 2015 a Firenze. Nella settimana successiva, Tiziano organizza un incontro con ‘il colorato’, alias, secondo i pm, l’appena nominato Ad di Consip, Luigi Marroni. Poi, secondo Marroni, Tiziano gli raccomanda Russo e questi gli fa pressioni per la gara Fm4 in favore di una società. Quale? Marroni esclude Romeo ma non ricorda il nome.

Il 1° febbraio scorso la Chierichetti, sentita come testimone, ha spiegato: “Premetto di conoscere Tiziano Renzi sin da quando ero bambina perché siamo dello stesso paese. Durante il governo di cui era presidente suo figlio Matteo, in numerose occasioni(…) ho avuto modo di sentirlo telefonicamente; in particolare spesso Tiziano (…) mi chiamava per chiedere di fissare appuntamenti tra persone che lui mi segnalava e il sottosegretario e poi ministro Lotti. Normalmente non mi specificava le ragioni di questi appuntamenti, solo a volte specificava il ruolo ricoperto da queste persone”.

Tra i “nominativi” indicati da Tiziano Renzi, spiega la donna, c’era dunque Russo. “Anche in epoca successiva, sempre presentandosi come persona accreditata da Tiziano Renzi – aggiunge la donna – Russo chiese più volte, anche in modo insistente, di essere ricevuto da Luca Lotti, tanto nel periodo in cui questi era sottosegretario alla Presidenza quanto nel periodo in cui era ministro. Ricordo perfettamente, come peraltro è successo per altre persone, che Lotti mi disse di non avere interesse a incontrarlo e pertanto, come non di rado mi è accaduto in situazioni simili al fine di interrompere seppure cortesemente questa insistente richiesta di colloqui, ho provveduto a riceverlo io”.

La Chierichetti dice di averlo ricevuto due o tre volte “nell’arco di due o tre anni”, in un bar in Galleria Colonna a Roma. “(…)È possibile che in quelle circostanze, sia pure fugacemente, Russo possa avermi fatto cenno ai motivi di queste sue insistenti richieste di colloquio, ma non ne ho affatto memoria”. Per la Chierichetti, quindi, Lotti non incontrò mai Russo.

Un dato che è un po’ dissonante con una circostanza già rivelata dal Fatto: nell’ottobre 2014, Michele Emiliano chiedeva a Lotti se fosse il caso di incontrare un tal Carlo Russo che si accreditava come amico suo. E Lotti rispondeva via sms: “‘Lo conosciamo (…) Ha un buon giro ed è inserito nel mondo della farmaceutica. Se lo incontri per 10 minuti non perdi il tuo tempo’”.

Ma torniamo al verbale della Chierichetti. Pur non ricordando il contenuto delle conversazioni con Russo, la donna dice di non poter “escludere che in una di queste circostanze possa aver nominato Romeo, ma allora questo nominativo non mi diceva nulla”. “Precedentemente alla diffusione di notizie sulla stampa che legavano Alfredo Romeo a Consip – aggiunge in un altro passaggio del verbale la Chierichetti – e che hanno portato al coinvolgimento nelle indagini di Lotti non sapevo neppure chi fosse Romeo. (…) Quando ricevetti questo numero come era prassi per comunicazioni di questo tipo, mi sarò limitata a comunicarlo a Lotti (…). Dopo aver comunicato questo numero non sono stata onerata di prendere contatti né in quella circostanza né successivamente”. L’ex ministro oggi al Fatto esclude di aver ricevuto il numero di Romeo che mai ha conosciuto.

Al Fatto Romeo a gennaio ha raccontato una versione che stride con quella resa a febbraio al pm da Chierichetti. L’imprenditore ha spiegato che l’obiettivo era invitare Matteo Renzi a un convegno che stava organizzando: “Per il convegno mi aveva chiamato in aprile (2015) anche una signora della Segreteria di Palazzo Chigi. Mi aveva dato assicurazioni ma non se ne fece niente”. Romeo non fa il nome della Chierichetti ma sembra probabile che riferisca a lei.

Il punto è che, se Romeo dice il vero, non era Lotti, bensì Matteo Renzi, il suo ‘obiettivo’ quando nell’aprile 2015 cercava un contatto telefonico con Palazzo Chigi, organizzato da Carlo Russo. Dunque la domanda da fare a Eleonora Chierichetti è sempre la stessa: lei ha dato a qualcuno quel numero? A Lotti, a Renzi o a chi?

Se ci sarà un processo sarà la sede per proporla.

ILFQ

Draghi e Letta augurino lunga vita ai 5stelle. - Antonio Padellaro

 

Secondo lo stupidario politico in voga, l’autoprodotta video-catastrofe di Beppe Grillo, con successiva lapidazione del suddetto, dovrebbe comportare la rapida dissoluzione dei 5stelle, del resto giudicati in avanzato sfacelo. Oltre, di conseguenza, al fallimento di Giuseppe Conte, impegnato nella difficile rifondazione del Movimento. Con il suo definitivo ritorno all’insegnamento, e amen. Esemplare il commento soddisfatto di Matteo Renzi secondo il quale “le parole di Grillo dicono molto su cosa è diventato il Movimento 5 Stelle. O forse è sempre stato così, ma adesso se ne accorgono in tanti. Sipario”. Purtroppo per il neoimpresario di Rignano sull’Arno (con addentellati nei peggiori suq levantini) l’auspicato sipario sugli odiati grillini – ove calasse con la stessa velocità con la quale egli e Maria Elena Boschi, dopo lo storico rovescio, si rimangiarono la promessa di abbandonare per sempre la politica – comporterebbe, tanto per dirne una, l’immediata crisi del governo Draghi. Parliamo di quel capolavoro napoleonico da lui promosso grazie al quale Italia Viva, che prima poteva ricattare ogni giorno il governo Conte, oggi conta come la Superlega di Andrea Agnelli, ovvero una risata. Dalla guerra sulla piattaforma Rousseau alle polemiche sul doppio mandato alle risse tra le correnti, il M5S naviga in acque sicuramente tempestose. Ma resta pur sempre la forza politica prevalente in Parlamento, l’azionista di riferimento nell’attuale maggioranza, il contrappeso sul quale il premier può contare per arginare le nefaste incursioni del salvinismo. Quanto al Pd, è comprensibile che certi suoi illuminati esponenti gongolino nello scommettere sull’implosione grillina, e sentano l’odore del sangue (per dirla con Gad Lerner). Convinti di potersi riprendere quella quota di consensi che il Movimento acquisì a sua volta sottraendoli al Nazareno annichilito dallo choc renziano. Un calcolo del tutto sconclusionato visto che se privati sul piano delle alleanze della sponda 5stelle, con il prossimo voto autunnale nelle grandi città i pidini resterebbero come don Falcuccio, alla mercé del Salvini&Meloni. Ragion per cui fossimo in Draghi e Letta pregheremmo ogni giorno in aramaico per il rinsavimento di Grillo, per il successo di Conte, augurando lunga vita e prosperità al Movimento.

IlFQ

Bongiorno conflitti d’interesse. - Gaetano Pedullà

 

Fosse per certi leghisti dovrebbe dimettersi pure Papa Francesco. Quindi che c’è da meravigliarsi se ieri si sono svegliati con la pretesa di cacciare dal governo la sottosegretaria Macina, coriacea esponente dei 5 Stelle passata per le armi senza bisogno di processo per lesa maestà dell’esimia senatrice avvocatissima Giulia Bongiorno. Che ha fatto di così grave la Macina per meritare di dimettersi, al contrario di quello che fior di leghisti con condanne sul groppone non si sognano di fare?

Ebbene sì: la Macina ha osato mettere il dito nell’eterno conflitto d’interessi che avvolge politica e affari (leggi l’articolo), in questo caso estesi alle professioni. La Bongiorno è infatti un parlamentare – uno dei tanti – che legittimamente per quelle che sono le regole attuali ha diritto a un sontuoso stipendio pubblico e contemporaneamente continua a lavorare. I nostri deputati e senatori, d’altra parte, si sa che dispongono di poteri soprannaturali e quindi possono fare anche due o più attività insieme, tanto chi li sta a sindacare?

E poi  nella gruviera dei regolamenti tutto è permesso, compreso far retribuire da un governo straniero un legislatore nazionale, come fa alla luce del sole Renzi d’Arabia. Nella querelle tra Bongiorno e Macina c’è però di più: c’è il dubbio che il ruolo dell’avvocatessa nel partito di Salvini  possa confliggere con la difesa della presunta vittima dello stupro di cui è accusato il figlio del fondatore dei 5S, Movimento politicamente contrapposto alla Lega.

Dubbio che la Bongiorno ha tutto il diritto di considerare una grave insinuazione, ma che oggettivamente riecheggia nella testa di chi assiste alla vicenda giudiziaria di Grillo Jr, che inevitabilmente è anche una vicenda politica. Dunque, invece di chiedere dimissioni a vanvera, la Lega farebbe meglio a impegnarsi per fare approvare una legge seria sul conflitto d’interessi, e in vista del taglio dei parlamentari – che concentrerà più responsabilità in meno persone – far decidere una volta per tutte a chi è eletto dal popolo se vuole lavorare per i cittadini o per se stesso. Miliardari e professionisti non saranno più incentivati a mettersi a disposizione della Patria? Chissà che per quanto hanno dato molti di loro nessuno ne sentirà la mancanza.

La Notizia.