mercoledì 4 agosto 2021

Superbonus: al via da domani modulo inizio attività.

 

Ok conferenza unificata. Brunetta, avanti con semplificazione.


(ANSA) - ROMA, 04 AGO - "Un modulo unico e standard per presentare la Cila, la Comunicazione asseverata di inizio attività che, grazie al decreto semplificazioni approvato definitivamente dal Parlamento il 28 luglio, riduce drasticamente gli adempimenti per accedere al superbonus 110%.

Una rivoluzione straordinaria che porta immediatamente la semplificazione 'a casa' dei cittadini, delle imprese e di tutti i professionisti coinvolti, dagli ingegneri ai geometri".

Lo annuncia Renato Brunetta spiegando: "oggi stesso pubblichiamo il documento - approvato dalla Conferenza unificata - sul sito della Funzione pubblica. Da domani sarà operativo". 

(ANSA)

Cyberfaccedaculo. - Marco Travaglio

 

Qualcuno forse ricorderà che, tra le poderose ragioni della guerra dei renziani e del resto del centrodestra al Conte-2, insieme all’imprescindibile Mes, ai tecnici del Recovery e al Ponte sullo Stretto, c’era la fondazione o agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza, coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi. Il progetto, nato sotto il governo Gentiloni e rimasto nel cassetto sebbene finanziato con 2 miliardi di fondi europei, serviva ad attrezzare lo Stato contro gli attacchi hacker. Ma bastò che lo riproponessero Conte e il capo del Dis Vecchione per scatenare l’allarme democratico: orrore, scandalo, abominio, chissà cosa c’è sotto di losco. Il 6 dicembre, prima di bloccare il Pnrr in Consiglio dei ministri, l’italovivo Rosato tuonò: “Guai a inserire nella legge di Bilancio la cybersicurezza”. E la sua spalla dem Delrio rincarò su Rep: “Sulla cybersicurezza, senza il parere positivo del Copasir, non si deve procedere”. Il 9 dicembre, in Senato, l’Innominabile strillò: “Così si aggira il Parlamento. Se nella legge di Bilancio ci sono norme sulla governance del Recovery e sulla Fondazione per la cybersicurezza, votiamo no” (lui che nel 2016 aveva tentato di piazzare l’amico Carrai a capo di un’Unità di missione sulla cybersecurity a Palazzo Chigi, poi stoppata da Mattarella).

Il 30 dicembre Conte insisté col progetto, anche perché l’Italia rischiava di perdere i 2 miliardi Ue. Ma, oltre ai renziani, insorse pure il Pd: Linkiesta, mai smentita, scrisse che “Zingaretti, Orlando e tutto il vertice Pd hanno notificato a Conte che questa Agenzia non si farà mai”. L’8 gennaio Conte incontrò le delegazioni di M5S, Pd, Leu e Iv per chiudere l’accordo sul Pnrr. Ma il capogruppo Iv Faraone gettò subito la palla in tribuna con i soliti Mes&cybersecurity. Una settimana dopo l’Innominabile aprì la crisi ritirando le sue ministre e tacciando il premier di “vulnus per la democrazia”. Poi arrivò Draghi e il 14 aprile Gabrielli, sottosegretario ai Servizi, annunciò un’Agenzia pubblico-privata per la cybersicurezza coordinata dal Dis presso Palazzo Chigi, finanziata con 2 miliardi Ue. Applausi scroscianti da Pd, Iv e destre. L’altroieri l’attacco hacker alla Regione Lazio. Raffaella Paita (Iv): “L’agenzia per la cybersicurezza parta subito”. E i giornali che gridavano all’attentato alla democrazia quando la voleva Conte si spellano le mani. Rep: “Siamo rimasti fermi al Giorno Zero con una sovranità digitale limitata o totalmente assente”. Giornale: “Urso: siamo in ritardo, ma ok dal Senato prima delle ferie’”. Stampa: “L’Italia in ritardo ora corre ai ripari”. Fusani (Riformista): “L’Italia, con un colpevole ritardo di tre anni, ha dato il via all’agenzia”. Peggio dei cyberpirati ci sono soltanto i cyberspudorati.

ILFQ

Lotta all’evasione, ecco dove colpirà il fisco. - Marco Mobili e Giovanni Parente

 

Falsi crediti, fuga di capitali all’estero, commercio elettronico, aiuti Covid e compliance. Si possono sintetizzare così le nuove rotte dell’evasione su cui Guardia di Finanza e agenzia delle Entrate hanno concentrato una revisione congiunta delle analisi di rischio. A chiedere di intensificare il coordinamento e la complementarietà tra le componenti dell’amministrazione finanziaria è l’atto di indirizzo per gli obiettivi di politica fiscale 2021-2023, anticipato dal Sole 24 Ore e diramato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco.

L’ANDAMENTO DELLE COMPENSAZIONI


















L’ANDAMENTO DELLE COMPENSAZIONI

I crediti compensati nel modello F24. Importi in milioni di euro

Il rapporto di collaborazione si è ulteriormente consolidato durante la pandemia: l’amministrazione finanziaria si è concentrata sempre più sui contribuenti ad alta pericolosità fiscale e, in particolare, verso le frodi, l’utilizzo indebito di crediti d’imposta (ad esempio, il bonus per ricerca e sviluppo) e di altre agevolazioni, come quelle per fronteggiare il Covid.

«Queste analisi di rischio, condotte a livello centrale, consentono alle unità operative sul territorio di orientare l’attività in modo “chirurgico” e con modalità istruttorie adeguatamente calibrate al profilo di rischio dei contribuenti selezionati», sottolinea Giuseppe Arbore, capo del III reparto Operazioni del Comando generale delle Fiamme gialle. «Non di rado, costituiscono l’input anche per indagini di polizia giudiziaria riguardanti non solo i reati tributari ma anche altri fenomeni di illegalità collegati, come il riciclaggio e l’indebita percezione di finanziamenti pubblici». Ma vediamo nel dettaglio.

Indebite compensazioni.

Un primo filone di analisi (anche a tutela dei saldi di finanza pubblica) ha riguardato l’utilizzo in compensazione di debiti tributari e previdenziali con crediti d’imposta inesistenti a seguito di atti di accollo del debito, come pure la compilazione di deleghe di pagamento con un importo dovuto pari a pochi centesimi di euro. Proprio per arginare gli illeciti, il collegato fiscale alla manovra di bilancio 2020 (Dl 124/2019) ha vietato la compensazione intersoggettiva dei crediti tributari tramite l’accollo prevedendo che i versamenti effettuati in violazione di questa previsione normativa si considerano non avvenuti a tutti gli effetti di legge. Ha inoltre previsto che le compensazioni dei crediti maturati a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2019 devono transitare obbligatoriamente sui canali telematici gestiti dall’Agenzia. Questo ha consentito finora di bloccare l’utilizzo in compensazione di oltre 1,2 miliardi di euro di crediti fittizi.

Boom dei crediti d’imposta per ricerca.

Un discorso a parte va fatto sulla crescita esponenziale di crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei modelli di pagamento. Tale circostanza, da un lato, può essere spiegata da dinamiche fisiologiche, legate al legittimo utilizzo del credito a fronte di effettivi investimenti agevolabili, dall’altro, può essere attribuita alla diffusione di fenomeni evasivi e fraudolenti di varia natura, spesso ideati da società di consulenza e da pseudo-organismi di ricerca che forniscono documentazione solo formalmente corretta, la relativa certificazione e anche l’assistenza nella fase contenziosa.
Su queste premesse, il settore contrasto illeciti dell’Agenzia ha recentemente realizzato un’analisi di rischio, condivisa con la GdF, sui contribuenti che hanno utilizzato in compensazione crediti d’imposta per ricerca e sviluppo nei periodi d’imposta dal 2016 al 2021 e che risultano connotati da rilevanti indici di anomalia (ad esempio ricerca e sviluppo difficilmente compatibile con l’attività economica dichiarata, con la struttura organizzativa dell’impresa, con l’assenza di costi per l’attività interna nei bilanci depositati o negli anni precedenti all’istituzione del credito d’imposta, eccetera). Come spiega al Sole 24 Ore, Paolo Valerio Barbantini, vicedirettore e capo della divisione Contribuenti delle Entrate, «sono state selezionate circa 4mila posizioni caratterizzate da un elevato profilo di rischiosità su cui sono in corso i necessari approfondimenti degli uffici dell’Agenzia e della Guardia di Finanza».

Commercio elettronico.

Nel mirino di GdF ed Entrate è finito anche il boom registrato dall’e-commerce nel pieno della pandemia. L’incrocio dei dati commerciali comunicati all’Agenzia sui fornitori per i soggetti passivi (residenti o meno), che gestiscono interfacce elettroniche per facilitare le vendite a distanza di beni importati o di beni nella Ue tra fornitori e acquirenti, insieme ad altri dati acquisiti dalle Fiamme gialle dai principali gestori delle piattaforme, ha consentito di avviare un’analisi di rischio dedicata, rivolta sia ai soggetti passivi residenti che ai contribuenti che si sono identificati in Italia.

Vigilanza anche sui contribuenti che, pur con volumi di vendita molto rilevanti, non hanno presentato dichiarazioni dei redditi e Iva, conseguendo così un indebito vantaggio a danno degli operatori tradizionali.

Lettere di compliance.

Le analisi congiunte guardano anche i soggetti destinatari delle comunicazioni per l’adempimento spontaneo che non hanno giustificato anomalie comunicate o non hanno modificato il loro comportamento a seguito dell’invito dell’Agenzia. Particolare attenzione ai contribuenti rimasti inerti dopo le lettere di compliance fondate sulle informazioni relative ai redditi esteri arrivati grazie al Common reporting standard (Crs), o sui dati della fatturazione elettronica obbligatoria e dei corrispettivi telematici, che - come ricorda Barbantini - «sono di fondamentale importanza per le attività di controllo, in quanto consentono, oltre all’attività di promozione della compliance e la prevenzione dei fenomeni evasivi, l’immediato confronto con i dati dichiarativi permettendo di avviare, in presenza di anomalie, istruttorie più approfondite».

Contributi a fondo perduto

Non solo lotta all’evasione ma anche tutela della spesa pubblica. Con un protocollo d’intesa sottoscritto nel novembre 2020, sono state sviluppate analisi del rischio mirate sul diritto di accesso ai contributi a fondo perduto erogati con i provvedimenti emergenziali. I criteri di rischio, ad esempio, si riferiscono alla verifica della condizione dei ricavi (se prevista), della corretta indicazione della percentuale del contributo in base alla dimensione del richiedente, della congruità dell’importo delle operazioni 2019 e 2020, della ricorrenza dei firmatari e della presenza di eventuali indici di frode fiscale a loro carico.

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore

IlSole24Ore

martedì 3 agosto 2021

“Bankitalia è al vostro fianco”. Perché Draghi ha a cuore Mps. - Carlo Di Foggia

 

Nei disastri bancari è difficile trovare chi è senza peccato, si sa, ma almeno qualcuno dovrà spiegare cos’è successo. Palazzo Chigi fa filtrare che i partiti non devono ostacolare l’imminente spezzatino del Montepaschi e annessa cessione della polpa a Unicredit a carico dello Stato. Sui giornali retroscena identici narrano di un Draghi deciso a “tirare dritto” e a “mettere in sicurezza il sistema del credito”. Il premier, pare, considera Mps il tema più sensibile tra quelli che ha sul tavolo. Ecco perché.

Il disastro Mps ha un’origine. Nel 2007 il presidente Giuseppe Mussari – dalemiano, poi tremontiano, ma soprattutto caro alla massoneria senese, padrona della banca – decide di strapagare Antonveneta. Il 17 marzo 2008 il governatore di Bankitalia Mario Draghi autorizza l’operazione: “Non risulta in contrasto col principio della sana e prudente gestione”, scrive. Mussari paga 9 miliardi e se ne accolla 7,5 di debiti: 17 miliardi per un istituto che il venditore, il Santander di Emilio Botin, aveva pagato tre volte meno pochi mesi prima rilevandolo da Abn Amro. Botin, legatissimo all’Opus Dei, gliela vende a scatola chiusa. Pochi mesi prima la finanza cattolica italiana gli aveva sbarrato la strada della scalata al San Paolo Imi: i torinesi preferirono consegnarsi alla Banca Intesa di Giovanni Bazoli. Il sistema italiano ricompensa Botin girandosi dall’altra parte quando Mussari decide l’azzardo. Per quegli strani giri dei disastri italiani, a consigliarlo, per conto della banca d’affari Merryll Lynch, è Andrea Orcel, che oggi guida Unicredit destinata a prendersi Mps. Quel che avviene prima e dopo è un trionfo di irresponsabilità e silenzi.

La vigilanza sapeva che Mussari stava suicidando la banca. Pochi mesi prima, una lunga ispezione aveva trovato una situazione critica in Antonveneta. L’ispezione si chiude a dicembre 2006 con un esito “in prevalenza sfavorevole” e la richiesta di multare vertici e collegio sindacale: 64 pagine che prefigurano la futura esplosione delle sofferenze (i crediti inesigibili), pari a 4 miliardi, più un altro miliardo di incagli e la previsione di nuove perdite per 2,8 miliardi; altri 1,8 miliardi sono “a rischio di decadimento qualitativo”. La gestione dell’istituto viene fatta a pezzi con 5 voti negativi su 6: perde clienti; è ingessata; i controlli gestionali “non prevedono analisi di redditività” e la contabilità “è connotata da prassi poco efficaci e da aree di manualità”.

Perché allora Bankitalia dà l’ok? Ai magistrati senesi che indagarono sul disastro, Mussari (nel 2006 acclamato alla guida dell’Abi) spiegò di “non ricordare come si svolsero le trattative”. Non ci fu due diligence, cioè una profonda analisi dei conti di Antonveneta. Il 26 novembre 2007 i vertici di Mps vengono ricevuti da Draghi e dai vertici della Banca d’Italia. Mussari e il dg Antonio Vigni illustrano l’acquisto. Ai pm attoniti, l’allora capo della vigilanza Annamaria Tarantola racconta che governatore e soci si “raccomandarono coi vertici di Mps di ‘fare per bene’ l’acquisizione”. Vigni appunta sulla sua agenda: “Bankit sarà al vs fianco”. Chi lo ha detto? Tarantola si limita a dire che “sicuramente abbiamo detto che Banca d’Italia li avrebbe seguiti e indirizzati”. Sarà la capacità di indirizzo il motivo per cui nel 2011 Monti la vuole presidente della Rai e Draghi l’ha appena chiamata a Palazzo Chigi come consigliere economico.

Quel che succede dopo è ancor più indicativo. L’operazione si conclude nel 2008 quando la crisi mondiale è già in atto. La storia è nota. Per tamponare l’emorragia e abbellire i bilanci Mps metterà in piedi le operazioni in derivati (i famosi “Alexandria” e “Santorini”). Nell’aprile 2016, alle Camere, il governatore Ignazio Visco rivendicò di essere stato lui, appena arrivato, a chiedere a Mussari e Vigni di andarsene. Non altri. Visco li convoca a novembre 2011 e gli dice di andarsene: “Non avevo potere di farlo, ho corso un rischio personale”. In quei giorni Draghi si insedia alla Bce.

La vulgata vuole che siano stati i nuovi vertici di Mps, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, a scoprire il trucco dei derivati trovando nella cassaforte di Vigni il contratto con Nomura su Alexandria (lo rivelò il Fatto a gennaio 2013). Eppure i processi hanno mostrato anche altro. Mussari&C. sono stati assolti dall’accusa di aver ostacolato la vigilanza. Già nel 2010 le strane operazioni in liquidità avevano spinto Bankitalia a mandare gli ispettori. La situazione è così critica che ci ritornano a settembre 2011. Il team guidato da Giampaolo Scardone viene avvisato da Consob (attivata da un esposto anonimo) di indagare su Alexandria: si scopre che una serie di operazioni apparentemente scollegate prefigurano “nella sostanza, piuttosto che nella forma, un Cds”, cioè un derivato: “Era parsa l’unica soluzione plausibile”. Ma, dice Scardone al Tribunale di Siena, senza il mandate agreement è una cosa “che non ci siamo sentiti di contestare perché oggettivamente era fondata su valutazioni di tipo esperienziale”.

L’ispezione si svolge nelle settimane cruciali della caduta del governo Berlusconi, l’arrivo di Monti e, come detto, l’insediamento di Draghi alla Bce. Forse la storia sarebbe cambiata se la bomba Mps fosse esplosa prima. Fatto sta che oggi Palazzo Chigi “tira dritto”.

IlFQ

Pronti a fuggire. - Marco Travaglio

 

Giuseppe Conte, sulla Stampa, dice due cose giuste e una sbagliata. La prima giusta è che, in una maggioranza del genere, è già un miracolo se i 5Stelle – soli contro tutti – abbiano salvato il grosso dei processi dalla morte sicura prevista dalla schiforma Cartabia modello base. La seconda è che non c’è alcuna “riforma Cartabia”: solo emendamenti contro un terzo della vera riforma, quella di Bonafede, che per gli altri due terzi resta, all’insaputa di tutti i partiti che la stanno votando. Sopravvive anche la blocca-prescrizione: la Cartabia ha tentato di aggirarla aggiungendovi la prescrizione non più del reato ma del processo (“improcedibilità”), se la sentenza d’appello non arriva entro 2 anni da quella di tribunale e quella di Cassazione entro 1 anno da quella d’appello. Così i reati avrebbero continuato a non prescriversi, ma si sarebbero prescritti quasi tutti i processi: se non era zuppa era pan bagnato. Invece la cosiddetta ministra della Giustizia ha dovuto cedere alla (tardiva) resistenza del M5S: escludendo i reati di mafia, violenza sessuale e traffico di droga; e triplicando i tempi per i reati con aggravante mafiosa e raddoppiandoli per quelli “ordinari”. Risultato: diverranno improcedibili solo i processi d’appello più lunghi rispettivamente di 6 o di 4 anni, cioè pochi. Per tutti gli altri, la prescrizione del reato resterà bloccata e si arriverà a sentenza definitiva. Così il pericolo principale è stato sventato, anche se i commentatori, ignoranti e/o in malafede, dicono l’opposto.

Tutto bene, allora? Niente affatto. La riforma, nella parte degli altri emendamenti Cartabia (cioè Ghedini-Bongiorno), resta una sconcezza: ma per fortuna è solo una legge delega e per entrare in vigore necessita di appositi decreti del governo, che si spera non faccia in tempo a vararli. Nella parte (predominante) della Bonafede, invece, contiene i 2,7 miliardi di Recovery stanziati dal Conte-2 per nuovi tribunali e carceri, assunzioni, ufficio del processo, digitalizzazione, notifiche semplificate ecc. Che poi è l’unica cosa che ci chiedeva l’Ue. Si poteva ottenere di più? Difficile: il M5S è solo, ma neppure l’appoggio di Pd e Leu (spariti) avrebbe garantito i numeri per battere le destre (Iv inclusa). Però l’errore di Conte è dire: “Mai pensato a causare la crisi di governo”. Se l’avesse causata, la schiforma sarebbe passata nella prima versione: la peggiore. Ma, senza le migliorie ingoiate da Draghi, buttarlo giù sarebbe stato il minimo sindacale. Se governi coi rappresentanti della criminalità che hanno appena visto condannare per mafia in appello i loro ex uomini di governo D’Alì e Cosentino (dopo B., Previti, Dell’Utri &C. per altri gravissimi reati), meglio tenersi sempre una via di fuga.

ILFQ

Lavoro, dagli ingegneri agli esperti «green»: ecco i profili introvabili in Ue. - Cristina Casadei



 














(Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore)

In Francia l’88% delle imprese non trova le competenze di cui ha bisogno, in Italia l’85%, in Germania l’82%. In Cina e Stati Uniti la carenza esiste ma è ridotta al 28% e al 32%. L’evoluzione tecnologica allontana domanda e offerta di lavoro.

Vicino alla città di Crolles, a quasi 20 chilometri da Grenoble, nel sud est della Francia, c’è una fabbrica che produce microscopici manufatti, considerati l’oro dei nostri giorni: sono quelle piastrine di silicio, i chip, che troviamo nei sensori delle auto, negli oggetti quotidiani dell’internet of things e negli smartphone.
Fa parte del gruppo ST, leader nel mondo nella produzione di componenti elettronici. Dopo gli ampliamenti del passato, oggi ci lavorano 2.400 tecnici e 2mila ingegneri. Anche loro considerati l’oro del nostro tempo. Molto ricercati, ma introvabili e contesi. In un paese, dove, «secondo la Banca di Francia, quasi un’impresa su due non trova risposta alle sue offerte di lavoro», ha sottolineato il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, nel suo discorso alla nazione del 12 luglio. Macron ha da sempre nella sua agenda politica gli interventi per risolvere il mismatch domanda-offerta di lavoro. Un tema ancora più urgente adesso che «la nostra priorità è ritrovare non solo il livello di occupazione antecedente alla pandemia, ma di inserirci nella traiettoria del pieno impiego».

I DATORI DI LAVORO CHE HANNO DIFFICOLTÀ A TROVARE I PROFILI PER I POSTI VACANTI

Il confronto internazionale. Dato 2021, in % - Nota: Indagine Talent shortage di Manpowergroup su 42mila datori di lavoro

I DATORI DI LAVORO CHE HANNO DIFFICOLTÀ A TROVARE I PROFILI PER I POSTI VACANTI

I 22 milioni di europei verso il mercato del lavoro.

In Europa nel post pandemia ci sono «22 milioni di persone che dovranno ritrovare la strada del mercato del lavoro - spiega Stefano Scarpetta, direttore dell’area lavoro dell’Ocse. - Ci sono 8 milioni di disoccupati in più rispetto al periodo precrisi e 14 milioni di inattivi. Il disallineamento delle competenze è una tendenza di lungo periodo che si è accentuata con la pandemia in tutti i paesi».
La carenza dei talenti, di cui parliamo sempre per l’Italia, è un’emergenza internazionale e proprio per questo ancor più difficile da risolvere.
Nell’indagine Talent shortage, della multinazionale dei servizi per il lavoro ManpowerGroup, su 42mila datori di lavoro nel mondo, la percentuale di chi ha difficoltà a trovare lavoratori con le giuste competenze, nel 2021, è ai massimi da 15 anni: parliamo di quasi 7 datori di lavoro su 10. Stefano Scabbio, presidente del Sud Europa di ManpowerGroup, spiega che «in un mondo in cui i modelli di business delle aziende si stanno trasformando con grande rapidità e che ha registrato tassi di disoccupazione sempre più alti a causa della pandemia, il talent shortage si afferma con sempre maggiore forza. In Italia, quest’anno, ha raggiunto l’85%, il dato più alto di sempre, quasi raddoppiato negli ultimi 3 anni. Ma il fenomeno non è solo italiano: in Europa le aziende che riscontrano carenza di talenti sono in aumento in quasi tutti i paesi, con picchi in Francia dove raggiunge l’88%, Svizzera e Belgio con l’83%, Germania con l’82%». Diverso il discorso al di fuori dell’Europa. Nelle grandi economie, oggi trainanti, questo fenomeno è praticamente dimezzato con la Cina al 28%, gli Stati Uniti al 32% e l’India al 43%.

Gli ingegneri introvabili.

Da Crolles percorrendo 400 chilometri verso est si sconfina in Brianza dove, ad Agrate, c’è un’altra fabbrica di ST, recentemente ampliata con uno stabilimento di 65mila metri quadrati su più piani. Caratteristica dell’impianto è la lavorazione di fette di silicio da 300 mm, o dodici pollici, di diametro. È il primo impianto per fette così grandi in Italia. Qui lavorano 2mila tecnici e 2.550 ingegneri.
Preziosissimi, introvabili tanto quanto in Francia. «Per grandi realtà produttive come Agrate e Crolles le competenze più critiche da reperire sono legate alle discipline Stem - ci racconta Gualtiero Mago, group vice President human resources di ST Italia - In assoluto le posizioni più difficili sono quelle di maintenance ed equipment engineer o tecnico di manutenzione, specialisti che operano su macchinari estremamente complessi. Solo ad Agrate ne abbiamo più di 30 aperte».
Difficili da trovare? Molto, perché «purtroppo mancano percorsi formativi specifici per una professionalità in così rapida evoluzione e che evolverà ancora». ST, ad Agrate come a Crolles, ha piani di sviluppo che prevedono molti inserimenti. Per evitare che la mancanza di determinati profili e competenze possa rallentare i piani sono state avviate iniziative specifiche in Italia e in Francia per avvicinare i mondi del sapere e del fare.
Tra queste, in Italia, la collaborazione con la Fondazione ITS Lombardia Meccatronica, gli ITS, IFTS e le Università, in particolare l’università di Catania per il Master di primo livello in Smart Manufacturing Production Engineering and predictive maintenance.

La transizione green e digitale.

Per ricostruire il quadro abbiamo cercato il presidente della World Employment Confederation-Europe, Herman Nijns che, a una vista globale, ne affianca una specifica su Belgio e Lussemburgo, dove è ceo di Randstad. Nijns spiega che «i disallineamenti di competenze sono una preoccupazione crescente in molti paesi europei. Dai dati Ocse, ad esempio, Austria, Belgio, Francia, Germania e Italia. Prima della pandemia, la carenza di competenze era già ai massimi storici e recenti ricerche evidenziano che il problema non è scomparso». Anche per questo, continua Nijns «il 42% delle aziende sta dando maggiore importanza agli sforzi di riqualificazione e miglioramento delle competenze dopo l’epidemia di Coronavirus». Nell’interpretazione che ne dà Nijns «le esigenze e le discrepanze di competenze sono fortemente guidate dallo sviluppo economico e dalla struttura delle economie in Europa. Guardando ai paesi della Ue, la maggior parte sta attualmente attraversando una doppia transizione, quella verde e quella digitale. Sia la transizione digitale che quella verde richiedono nuove competenze e hanno aumentato la domanda in alcuni settori, come le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e le energie rinnovabili».

L’informatizzazione del paese a rischio.

Secondo i datori di lavoro, la carenza è particolarmente acuta in ambito digitale. Lo sa bene Rinaldo Ocleppo, il presidente del gruppo di servizi It, Dylog. Sulla crescita della società e dei progetti incombe la fatica «a trovare persone skillate sui framework più nuovi, web cloud e reti – dice Ocleppo. - L’arrivo delle ingenti risorse del Pnrr, non essendoci le persone, rischia di generare un aumento dei salari ma non delle attività di informatizzazione del paese, se non si fa un percorso efficace di formazione e orientamento dei giovani».
Al punto che il gruppo si trova a dover «rinunciare a portare avanti determinati progetti». Un esempio? «Proprio nelle scorse settimane - racconta Ocleppo - stavamo cercando 15 persone per creare un gruppo di lavoro per riscrivere un prodotto in cloud. Ne abbiamo trovate 2 a Torino, 2 a Catania, 2 a Bari, ma la realtà è che se lei vuole costruire un gruppo di lavoro di 20 persone con le competenze su web, reti e cloud a Torino non le trova». Anche perché cresce «il fenomeno di multinazionali inglesi o tedesche che assumono talenti nel nostro paese e li lasciano a lavorare in smart working in Italia, con stipendi molto più alti dei nostri».

L’invecchiamento della popolazione.

A determinare le dinamiche del mercato del lavoro non sono solo la transizione digitale e quella green, ma «anche l’invecchiamento delle società che porta ad un aumento della domanda nel settore sanitario e dell’assistenza agli anziani, professioni che sono state al centro dell’attenzione durante la pandemia di Covid-19 - dice Nijns -.Oltre a questo, vediamo molti posti vacanti per persone poco qualificate che sono anche difficili da riempire. Ciò significa che le politiche attive in molti paesi europei non sono ancora pienamente efficienti».

La formazione strategica.

Se i dati Ocse ci dicono che nel post pandemia ci sono 22 milioni di persone che dovranno reinserirsi nel mondo del lavoro, «ammesso che non tutti coloro che hanno perso il lavoro dovranno trovarne uno diverso da quello che facevano, è evidente che questa crisi ha accelerato un cambiamento già in atto: saranno creati nuovi posti e molti non esisteranno più. In questo quadro la formazione gioca un ruolo essenziale - interpreta Scarpetta -. Bisogna agire attraverso il profilaggio delle persone e delle opportunità, rivolgendosi agli intermediari come le agenzie del lavoro che conoscendo bene il mercato possono aiutare l’incrocio domanda offerta, riformando i centri per l’impiego e lavorando per mettere in relazione mondo della scuola e del lavoro. C’è molto da fare, soprattutto in un paese come l’Italia, ma la buona notizia è che forse stavolta ci sono ingenti risorse che il Pnrr ha messo a disposizione di tutti i paesi, che, seppure in maniera diversa, sono tutti coinvolti dal tema del mismatch. Queste risorse sono molto preziose e vanno investite in modo oculato».

La competizione internazionale.

In questa fase St che, secondo i dati 2020 ha un giro d’affari di 10,22 miliardi e un utile netto di 1,11 e dà lavoro a 46mila persone nel mondo, sta crescendo fortemente e deve rispettare ritmi di consegna molto sostenuti a causa della ingente richiesta mondiale di chip. Impresa non facile con posizioni aperte su diversi ruoli, soprattutto legati alla manutenzione e la fame mondiale che c’è nell’It di tecnici e ingegneri. Quello che raccontano dalla società si può considerare un po’ l’eco del sentimento espresso da migliaia e migliaia di datori di lavoro che stanno combattendo per portarsi in casa le competenze che servono in uno scenario internazionale. Scarpetta dice che stiamo parlando di tendenze che «valgono per tutti i paesi. Non c’è una specificità italiana, europea o americana. Ci sono delle tendenze di lungo periodo, iniziate già da tempo e che con la crisi pandemica si sono accentuate, con la forte pressione che c’è oggi sulle competenze digitali che si applicano a tante professioni, anche le più tradizionali. Poi è vero che ci sono anche elementi più specifici per ciascun paese».

Le risposte.

Trovare le risposte però non è semplice. «La prima poteva essere quella di affrontare il tema attraverso i flussi migratori ma è difficile farlo nel breve periodo, a maggior ragione adesso che con la crisi pandemica i flussi migratori si sono ridotti - continua Scarpetta -. La migrazione può essere una variabile di aggiustamento che può aiutare squilibri tra domanda e offerta ma il problema è che oggi tutti i paesi sono in una situazione simile. L’Italia forse è messa un po’ peggio in termini di competitività perché offre salari più bassi rispetto ad altri paesi e ha un tema di integrazione dei migranti».
Quindi? «Bisogna fare un enorme sforzo sulla formazione dei giovani e anche degli adulti per far sì che possano acquisire le competenze chieste dal mercato. L’Italia è molto indietro sulla formazione continua degli adulti - aggiunge Scarpetta -, ma, come hanno spiegato i dati Invalsi, lo è anche su una fetta significativa di giovani che rischiano di essere analfabeti funzionali che non hanno le competenze che dovrebbero avere alla loro età. Il Governo italiano sembra però aver colto questa urgenza».
Il tema è così rilevante da essere stato messo nell’agenda di governanti, a partire dal presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron e dal presidente del Consiglio italiano Mario Draghi. Tutti uniti dalla comune volontà di portare i propri paesi verso tassi di disoccupazione più bassi e stimolare un allineamento delle competenze che possa supportare la crescita generata anche grazie ai finanziamenti del Pnrr.

IlSole24Ore

Pil italiano con il turbo, ma attenzione alla quarta ondata. - Dino Pesole

 

Illustrazione di Giorgio De Marinis / Il Sole 24 Ore


Dal “lieve recupero” del primo trimestre alla crescita “molto sostenuta” del secondo trimestre. I dati diffusi dall’Istat fotografano l’atteso rimbalzo del Pil grazie alle riaperture e alla campagna vaccinale, tanto che si ipotizza un risultato a fine anno certamente superiore al 5,1%, e che potrebbe anche attestarsi nei dintorni del 6%.

Se si guarda all’andamento delle variabili del Pil, dai servizi all’industria, il risultato pare raggiungibile anche se non va dimenticato che il confronto in termini tendenziali è con l'analogo periodo del 2020, quando - come ricorda l’Istat - si è raggiunto il picco minimo, tanto che a fine anno il Pil è crollato dell'8,9%.
Poiché la variazione acquisita è al momento del 4,8% (in sostanza il risultato che si otterrebbe qualora nel terzo e quarto trimestre si registrasse una variazione pari a zero), si può essere decisamente ottimisti circa il risultato finale dell'anno in corso. È senz’altro una buona notizia per la nostra economia, che tuttavia va registrata con una certa prudenza. Pesa l'incognita dell'andamento dei contagi, spinti dalla variabile Delta, pesano le incertezze dell’autunno collegate alla riapertura dell’anno scolastico.

Pil con il turbo ma con vaccini e green pass.

Dalla Banca d’Italia alla Commissione europea e alle principali istituzioni internazionali (Ocse e Fmi) la valutazione è unanime: il green pass e il completamento della campagna vaccinale sono la precondizione essenziale per centrare il target di crescita che va configurandosi in base ai dati preliminari diffusi dall’Istat sul secondo trimestre dell’anno. Nel Documento di economia e finanza di aprile la crescita era indicata al 4,5%, e lo stesso ministro dell’Economia, Daniele Franco, in diverse occasioni ha indicato l’obiettivo del 5% come assolutamente raggiungibile.

Il caveat è ancora una volta rappresentato dalla diffusione delle varianti del Covid. Quali potrebbero essere gli effetti anche sulle altre variabili macroeconomiche, qualora la stima di un aumento del Pil attorno al 6% fosse suffragata dai dati reali nei prossimi mesi? Le previsioni relative al deficit (-11,8%) e al debito (159,8%) sono tarate su una crescita del Pil che in termini programmatici si attesta al 4,5%.
Dall’incremento del “denominatore” (la crescita, appunto) trarrebbe beneficio il numeratore dunque il deficit e il debito. Non numeri decisivi, in grado di cambiare in modo evidente il quadro delle variabili di finanza pubblica, ma pur sempre significativi. Poi va ricordato che la Commissione europea non ha inserito nelle stime sull’economia italiana l’effetto atteso dalle riforme contenute nel Piano nazionale di ripresa e resilienza.

La spinta delle riforme.

Ne consegue che al netto della variabile costituita dall’andamento dei contagi, la possibilità di conseguire tassi di crescita sostenuti, e soprattutto di far sì che il rimbalzo del Pil si trasformi in crescita stabile e strutturale, è per buona parte connessa alla capacità del nostro paese di portare a compimento il programma di riforme e investimenti contenuto nel Pnrr.

Si agirebbe in tal modo sul Pil potenziale, con effetti positivi sulla produttività totale dei fattori, che da un paio di decenni è stagnante. Ecco perché ormai unanimemente si considera l’appuntamento con i fondi del Next Generation Eu come decisivo per il futuro del Paese.
Come ha confermato il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, a breve (probabilmente entra metà agosto) sarà erogata la prima tranche pari a circa 25 miliardi, sotto la forma di un anticipo rispetto al totale dei fondi assegnati all’Italia da qui al 2026.
La previsione è che il Governo già in settembre avanzi richiesta della nuova tranche che verrebbe erogata entro fine anno, ma differentemente dall’anticipo si tratterà (come per i successivi) di finanziamenti la cui erogazione è strettamente connessa alla realizzazione del cronoprogramma inviato dal Governo a Bruxelles.
Sui passaggi relativi alla concreta attuazione delle riforme e degli investimenti si attiverà la vigilanza europea, e ancora una volta la palla tornerà nel nostro campo. Se le riforme annunciate (nel totale circa 48) e gli investimenti non verranno realizzati o lo saranno solo in parte, la corresponsione dei fondi potrà essere sospesa con evidenti conseguenze anche sul consolidamento della ripresa.

Dal rimbalzo alla crescita strutturale.

La concreta realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza è in sostanza fondamentale per trasformare il rimbalzo congiunturale in crescita strutturale. Soprattutto in un’ottica non di breve periodo. Quando la pandemia sarà definitivamente alle nostre spalle, la partita la si giocherà proprio su come saremo in grado (come sistema Paese) di porre le premesse per una crescita stabile e sostenuta, in grado di creare occupazione stabile. E di conseguenza se riusciremo a porre il debito pubblico (che comunque andrà ridotto) in una traiettoria di costante riduzione.

Crescita dell’economia e finanza pubblica pienamente sostenibile marciano dunque di pari passo, e nessun governo da qui ai prossimi decenni potrà prescinderne.

IlSole24Ore