Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 14 marzo 2022
Ma mi faccia il piacere. - Marco Travaglio
Scemi di guerra. “Piazza contro piazza, ‘cara Nato’ contro ‘cara Mosca’, la Bad Godesberg di Enrico Letta e del suo Pd contro la Cgil e l’Anpi ridotte a campo profughi dell’ideologia”. “L’inglese è la lingua della democrazia”. “Gli irriducibili che a San Giovanni, parlando la lingua morta dell’antiamericanismo, avevano manifestato per disarmare Zelensky”. “La piazza di Firenze è stata… il prologo della scelta definitivamente occidentale che la sinistra italiana insegue da 50 anni”. “Per la prima volta l’Europa è diventata una bandiera di piazza”. “La gloriosa Cgil ridotta a una Stalingrado del ‘come eravamo di sinistra’. Solo così si spiega che la Brigata Wagner, i mercenari scelti che Putin ha inviato a dare la caccia a Zelensky, piaccia in Italia, oltre che alle solite macchiette sopravvissute del vaffa, anche a quel gruppetto di professori… Luciano Canfora e Carlo Rovelli, nostalgici della Brigata Proust, che… si accontentano di Putin” (Francesco Merlo, Repubblica, 13.3). Votate la frase più scema, se ci riuscite: io le premierei tutte, ex aequo.
Pussy Riot. “La censura imposta a media e social fa sì che la disinformazione sia… la verità” (Gianni Riotta, Repubblica, 7.3). Ora però non esageriamo con le critiche all’Occidente.
Alexsandr Sallustov. “Perché fu un errore rompere con lo Zar” (Alessandro Sallusti, Libero, 23.2). “Gli utili idioti di Putin. Come ai tempi del terrorismo, la sinistra politica e sindacale ci mette un po’ a scegliere da che parte stare della storia. Allora era ‘né con le Br né con lo Stato’, oggi è ‘né con Putin né con la Nato’” (Sallusti, Libero, 6.3). Quindi Sallusti è di sinistra.
Sturmtruppen. “Meno fiori nei nostri cannoni”, “Mettere Putin alla canna del gas”, “Serve più energia contro Putin” (prime pagine del Foglio, 8, 9 e 11.3). Mo’ me lo segno.
Lavoratoriiiii! “Ci serve l’‘ora et labora’” (Matteo Salvini, segretario Lega, Giornale, 8.3). Ogni tanto un’esperienza del tutto inedita ci vuole.
Sinceri democratici. “Un Paese in cui parla Marcello Foa e viene censurato Dostoevskij” (Marco Damilano, direttore uscente Espresso, 6.3). Giusto, tappiamo la bocca anche a Marcello Foa.
Google Maps. “Accogliere una donna africana che scappa dall’Ucraina? Bisogna vedere se scappa veramente dall’Ucraina. Non è facile stabilirlo, se no diventa un viatico per tutti quelli che scappano dall’Africa” (Susanna Ceccardi, eurodeputata Lega, SkyTg24, 4.3). Furbi, loro: fanno il giro largo.
Affinità elettive. “Berlusconi mi teorizzò una volta il perché dell’amicizia con Putin, che poi diventò personale. Così come con Erdogan e Gheddafi: proprio perché Berlusconi li considera dei ‘pericolosi farabutti’ – queste sono parole mie – la prima cosa che devi fare è cercare di renderli amici” (Alessandro Sallusti, Ottoemezzo, La7, 26.2). E poi tra colleghi ci si intende.
Lottatori continui. “La resistenza armata è etica” (Luigi Manconi, Repubblica, 9.3). Ne sa qualcosa il commissario Luigi Calabresi.
La Nato non esiste. “Non c’è stato alcun gesto negli ultimi anni che possa essere considerato una minaccia dei nuovi Paesi entrati nella Nato nei confronti della Russia” (Luciano Fontana, direttore Corriere della sera, 7.3). Nato? Quale Nato?
Le belle famiglie. “Vedi a cosa servono i social? A scoprire che tua figlia è diretta al confine ucraino” (Carlo Calenda, leader Azione, eurodeputato Pd, Twitter, 11.3). Quindi c’è qualcosa di peggio della guerra.
Slurp. “Draghi è stato criticato… per il suo ruolo dimesso, per non dire inesistente, nei negoziati sull’Ucraina, cosa che non quadra con la leggendaria reputazione dell’uomo che ha salvato l’euro con tre parole, un raro esemplare di statista italiano capace di far calare il silenzio quando prende la parola nei consessi internazionali… C’è però un’altra spiegazione per quella che qualcuno vede come una colpevole remissività del premier: Draghi è un realista. Questa visione… che solitamente si fa risalire a Tucidide… potrebbe far rileggere le sue mosse felpate sotto la luce della saggezza realista” (Mattia Ferraresi, Domani, 11.3). Ecco perché è sparito: perché Tucidide è morto.
Regressione all’infanzia. “Il ministro Bianchi salta la fila nell’ospedale pediatrico Bambin Gesù” (Verità, 10.3). Che tenero, ha perso il primo dentino da latte.
Wilma, la clava! “Ma, mi domando, i vecchi agit-prop No Vax e i nuovi No War sono proprio le stesse persone, ammesso che siano persone?” (Concita De Gregorio, Repubblica, 12.3). Ma no, dài, è chiaro che sono le stesse bestie.
Il titolo della settimana/1. “Draghi: non siamo fessi” (Libero, 123). Ah no?
Il titolo della settimana/2. “Giudici che non sanno dire qual è la colpa di Moretti nella strage di Viareggio” (Domani, 9.3). E pensare che è semplice: i 32 morti si suicidarono bruciandosi vivi.
Il titolo della settimana/3. “Londra, quartiere di Kensington. La bella vita di Polina, figliastra di Lavrov. ‘Requisitele la casa’” (Repubblica, 12.3). Per riaffermare i valori della liberaldemocrazia.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/14/ma-mi-faccia-il-piacere-260/6524792/
Il bello, il brutto e il cattivo: tre scenari della guerra per i nostri risparmi. - Enrico Marro
Tregua, guerra di attrito o escalation? Il punto sulle conseguenze di lungo periodo del conflitto in Ucraina per azioni, obbligazioni e materie prime.
La guerra in Ucraina rappresenta uno dei maggiori shock geopolitici dell’ultimo ventennio. I suoi effetti di medio-lungo termine non sono facili da prevedere, ma nel breve stiamo già assistendo a nuovi picchi di inflazione, al rallentamento della crescita e alla possibilità di recessione e stagflazione, in particolare in Europa. Tutto comunque dipende dagli esiti della guerra.
Per questo Pictet Asset Management ha provato a delineare tre scenari sull’evoluzione del conflitto, ciascuno con le sua ricadute su azionario e obbligazionario (nello studio “The Ukraine crisis: what’s at stake for investors?”).
Primo scenario: de-esclalation con tregua.
Lo scenario base, al quale gli analisti di Pictet attribuiscono il 50% delle probabilità, è rappresentato da una de-escalation del conflitto, con Russia e Ucraina che nell’arco di alcune settimane concordano un cessate il fuoco e negoziati davvero costruttivi.
Le sanzioni più pesanti, come il congelamento delle riserve estere della Banca centrale russa o il bando di alcune banche dal sistema di pagamenti Swift, vengono cancellate. Altre restano in piedi, per esempio il blocco dei beni degli oligarchi e le restrizioni alle esportazioni.
In questo caso la traiettoria di crescita e inflazione di Stati Uniti ed Europa non si discosterebbe troppo dalle previsioni pre-belliche per il 2022. La Federal Reserve continua la sua stretta monetaria, ma senza dare spazio ai “falchi”.
In questo scenario, l’azionario globale potrebbe crescere del 15% entro la fine dell’anno rispetto ai livelli attuali, trainato da un aumento del 10% degli utili corporate, mentre i tassi dei titoli di Stato decennali statunitensi potrebbero toccare il 2,2%.
Secondo scenario: la guerra di logoramento.
Il secondo scenario immaginato da Pictet è quello di una “guerra di attrito” lunga e sanguinosa, con nuove sanzioni imposte dall’occidente a Putin. In questo caso l’Europa andrebbe incontro a una recessione, con una potenziale contrazione del Pil dell’1,5%, mentre la crescita degli Stati Uniti rallenterebbe poco sopra la sua media di lungo periodo del 2%.
L’inflazione resterebbe alta a lungo, pesando sul sentiment e ritardando la ripresa post-pandemica dei consumi. In questo caso, la Banca centrale europea non procederebbe ad alcuna stretta, mentre la Federal Reserve non rinuncerebbe a una stretta sui tassi (anche se molto più morbida del previsto). Le Borse perderebbero un 10% rispetto ai valori attuali, gli utili corporate si ridurrebbero del 10% e i tassi del Treasury decennale si attesterebbero entro fine anno intorno all’1,7%.
Un brutto scenario di possibile stagflazione, insomma, con materie prime e azionario statunitense destinati a performare meglio delle altre asset class. Ma esiste anche uno scenario peggiore.
Terzo scenario: escalation Nato-Russia
Questo è il “worst-case scenario” secondo Pictet: “sanzioni totali” da parte dell’occidente, con un isolamento economico totale della Russia e il taglio completo delle forniture di petrolio e gas da parte di Mosca.
L’impatto sarebbe durissimo: una recessione globale nella quale l’economia europea perde circa il 4% Pil (contro un calo di appena lo 0,5% di quello statunitense), perdipiù a “doppia gobba” per il Vecchio Continente, che vedrebbe la sua industria in serie difficoltà per prezzi e scarsità di energia.
L’azionario mondiale crollerebbe del 30%, gli utili societari del 25%, i tassi dei Treasury decennali statunitensi scivolerebbero intorno allo 0,8%. E gli investitori scapperebbero verso beni rifugio come oro e titoli di Stato.
domenica 13 marzo 2022
DIAMO UN OCCHIATA VERSO LA GRANDE AMERICA. - Gioacchino Musumeci
DIAMO UN OCCHIATA VERSO LA GRANDE AMERICA.
Da Bruxelles al massimo c’è l’Erasmus. - Antonio Padellaro
Immaginiamo qualcuno a cui viene promessa, e poi negata l’iscrizione a un circolo esclusivo, salvo poi garantirgli la partecipazione a qualche gita sociale. A leggere le cronache del vertice europeo di Versailles, è ciò che sarebbe accaduto a proposito della candidatura dell’Ucraina come Stato membro dell’Ue, accantonata come “una questione troppo grossa”. Mentre, stando sempre alle fonti diplomatiche, l’Europa dovrebbe concentrarsi “su cosa possiamo fare per gli ucraini nei prossimi mesi, offrendogli di entrare al limite nel programma Erasmus” (Il Foglio).
Immaginiamo che accedere ai programmi di mobilità studentesca non sia esattamente il sogno del popolo ucraino, né tantomeno quello del premier Zelensky che, in sovrappiù, ha dichiarato di “aver raffreddato molto tempo fa il suo entusiasmo per un’adesione alla Nato dopo aver capito che la Nato ha paura di uno scontro con la Russia”. E poiché l’uomo di Kiev e la sua gente “non hanno mai voluto essere un Paese che prega in ginocchio per qualcosa”, arrivederci e grazie.
Si discuterà, quando sarà il momento, sulle vere ragioni di tali attese tradite. O, se si preferisce, di tali promesse fraintese.
Infatti, può anche darsi che l’ex comico divenuto presidente abbia riposto eccessivo affidamento sulle possibili aperture politiche e militari dell’Unione. Che, tuttavia, non può essersi inventato di sana pianta, alla luce anche della insistente richiesta di una no fly zone. Di cui potrebbe aver parlato con chi a Bruxelles era legittimato a farlo, prima s’intende dell’aggressione di Putin. Con il risultato che oggi al “raffreddamento” di Kiev fa da contraltare il gelo dei 27 sul possibile ingresso di un partner accerchiato, bombardato e con sullo sfondo l’incubo nucleare. Sembra come se questi “preferirei di no”, di stampo europeo e atlantico, stessero preparando il terreno a quella neutralità dell’Ucraina da qui all’eternità, che resta per Mosca la condizione irrinunciabile per qualsiasi negoziato di pace. Zelensky (al contrario di Groucho Marx) non farebbe mai parte di un club che non accettasse tra i suoi soci uno come lui. Anche se qui c’è molto poco da ridere.
Salvare il salvabile. - Marco Travaglio
Se l’Unione europea esistesse, i suoi ridicoli e ridanciani rappresentanti non si sarebbero riuniti a Versailles, ma da due settimane (anzi da prima, quando il peggio si poteva forse evitare) farebbero la spola fra Kiev e Mosca per trascinare Putin e Zelensky a quel tavolo che, almeno a parole, nessuno dei due esclude. E proporrebbero un negoziato sui tre punti che, almeno a parole, Putin ritiene fondamentali e Zelensky ha definito trattabili: Donbass, Crimea, Nato. E, se gli Usa non fossero d’accordo, l’Ue andrebbe avanti comunque, perché dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia all’Ucraina, i loro interessi sono diametralmente opposti ai nostri. A Biden questa guerra nel cuore dell’Europa fa stracomodo: deve far dimenticare l’umiliante débâcle afghana e allevarsi il nemico ideale, il nuovo Male Assoluto, per non perdere le elezioni di mid-term, mentre la sua economia ingrassa sull’indebolimento di quella europea dissanguata dal conflitto armato, dall’instabilità politica, dalla catastrofe umanitaria dei profughi e dal boomerang economico delle sanzioni. Perciò i servi furbi dello Zio Sam, ben nascosti dietro l’eroica resistenza ucraina, soffiano sul fuoco affinché la guerra criminale di Putin duri il più possibile e faccia più morti possibili (inviando sempre più armi) e criminalizzano come quinta colonna del nuovo Hitler chiunque lavori o accenni a una via diplomatica. Che non è utopica: è pragmatica.
Le sanzioni, specie se danneggiano più il sanzionatore che il sanzionato, vanno modulate e condizionate. Se lo scopo è ricacciare Putin entro i confini russi, non c’è misura economica o invio di armi che tenga: serve la terza guerra mondiale (che però nessuno vuole). Se invece l’obiettivo è salvare il salvabile della sovranità ucraina e il maggior numero di vite, non resta che concedere alla Russia ciò che già ha – Donbass e Crimea – e rassicurarla con una nuova conferenza di Helsinki per la sicurezza europea che impegni tutti (Ue, Nato, Ucraina e Russia), parta dalla neutralità di Kiev, rimedi agli errori passati, blocchi nuove provocazioni e invasioni. Le sanzioni possono diventare un’ottima arma di ricatto se l’Ue è disposta ad attenuarle in cambio di un impegno russo a risparmiare i civili (che però, inviando armi, è molto più difficile distinguere dai militari) e a revocarle in cambio di un cessate il fuoco e di un negoziato vero. Senza chiedere il permesso a Biden, che somiglia tanto a quel personaggio del film di John Landis Ridere per ridere: il “cacciatore di pericoli” che irrompe ad Harlem, urla “Negriii!” e scappa, inseguito e menato da una gang di teppisti di colore. Con la differenza che, quando gli americani vengono a far danni in casa nostra, quelli inseguiti e menati non sono loro: siamo noi.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/13/salvare-il-salvabile/6524119/
sabato 12 marzo 2022
Hedge fund, grandi banche, big oil: ecco chi specula sui prezzi record del gas. - Sissi Bellomo e Cheo Condina
Per alcuni fondi rendimenti a tre cifre grazie alla volatilità: tra speculazioni e stoccaggi al minimo, perso ogni contatto con i fondamentali di mercato.
Le grandi banche d'affari, gli hedge fund specializzati sulle commodity – guidati da specialisti ormai capaci di muoversi a occhi chiusi sull’ottovolante dei mercati – e le principali major mondiali, che stanno macinando miliardi di profitti anche grazie alle differenze di prezzo sull’approvvigionamento di materie prime. Se l’altissima volatilità del gas, con le quotazioni che lunedì scorso hanno toccato il massimo storico di 345 euro per MWh, rischia di avere impatti devastanti su industria e bollette di mezza Europa, c’è anche chi – ormai da mesi – realizza profitti record e rendimenti a tre cifre in un contesto di assoluta incertezza.
«Per vedere movimenti simili bisogna tornare alla crisi del 1973: durante la pandemia il gas valeva 6-7 euro per MWh, oggi si oscilla di oltre 100 euro in una giornata, domina il panico», sintetizza un trader di lungo corso, che aggiunge: «Si è perso ogni contatto con i fondamentali: a febbraio avevamo ipotizzato che i prezzi potessero salire massimo oltre 80 euro, con un “premio guerra” del 25%».
Tra mercato e speculazione.
Ma qual è il confine tra la capacità di sapere leggere in anticipo il mercato e la speculazione? Nel 2015, quando diversi hedge fund specializzati sulle commodity sono andati in crisi, un certo Ron Ozer, laureato in matematica al Mit con il massimo dei voti e al tempo già trader affermato, disse che si stava creando «un’occasione unica per il mercato del gas». Oggi, con la sua Statar Capital – hedge di Miami specializzato in materie prime – Ozer è considerato un guru visti i rendimenti: da ottobre 2018 +266% contro il 66% dell’indice S&P 500. Come lui, altri gestori di fondi hanno intuito le potenzialità del settore, specie in momenti di alta volatilità. Motivo in più per cercare una spiegazione ai movimenti delle ultime settimane, legati sia a fattori di carattere finanziario sia ai fondamentali del mercato energetico.
Derivati e coperture dietro il rally. All’origine dell’estrema volatilità «ci sono margin call e mercati molto illiquidi e incerti», osserva Ole Hansen, head of commodity strategy di Saxo Bank: i margini di garanzia richiesti per operare hanno raggiunto livelli esorbitanti e spingono a liquidare posizioni, a volte in modo frettoloso, o ad acquistare future, vendendo gas anche in perdita sul mercato over-the-counter, per compensare le oscillazioni dei prezzi. In parole povere, ci sono soggetti commerciali – non certo speculatori – costretti a rincorrere la volatilità per evitare guai peggiori. La Commissione europea finora non ha puntato il dito contro nessuno e anche il regolatore dei mercati energetici (Acer) e l'Esma hanno effettuato indagini senza riscontrare irregolarità.
Non c’è dubbio comunque che oggi il mercato europeo del gas, come quello dell’elettricità e dei permessi per la CO2, è fortemente finanziarizzato. È successo con la nascita e l’enorme sviluppo degli scambi di futures e altri derivati che hanno come sottostante il gas “vero”, quello che bruciamo nelle nostre caldaie, comprato e venduto in forma fisica nei diversi hub. Il più grande e il più liquido in Europa è il TTF olandese, i cui prezzi vengono usati come riferimento nei contratti di fornitura e nelle bollette. Ormai ci sono operatori di tutto il mondo (e di tutti i generi, tra cui hedge fund ma anche grandi utilities o produttori Usa di Gnl) che intervengono sul mercato, di solito negoziando i futures quotati alla Borsa regolamentata Ice-Endex. Se hanno una view di mercato rialzista, perché si aspettano problemi di offerta fisica della commodity, comprano e fanno salire i prezzi o viceversa. Oppure, nel caso di soggetti commerciali, effettuano operazioni di copertura: ad esempio vendendo a termine la produzione di gas.
Le statistiche della borsa evidenziano che al 4 marzo c’erano 218 soggetti finanziari esposti sul gas del TTF: tra loro fondi (in tutto 164), ma anche banche e altre entità. Il numero complessivo è invariato rispetto a inizio febbraio, prima dell'invasione dell'Ucraina, e quasi doppio rispetto a quello dei soggetti commerciali che erano invece 134. Sono però questi ultimi a “controllare” il mercato, con il 75,3% delle posizioni lunghe (all’acquisto) e il 61,9% di quelle corte (alla vendita). Gli “speculatori” (classificati come fondi di investimento) hanno invece in mano il 17,8% delle posizioni lunghe e il 12,1% di quelle corte. Molto più speculativo il mercato della CO2: «Il numero di fondi di investimenti attivi ha raggiunto un picco di 373 a inizio febbraio, con un aumento del 74% nel 2021», fa notare Massimiano Capobianchi, sales manager Italia di Vertis Environmental Finance.
Una cosa è certa: chi a inizio autunno è entrato “lungo” su questi mercati ha cavalcato con profitto la spirale rialzista dei prezzi, ulteriormente accelerata dalla guerra in Ucraina e dalla paura di un blocco delle forniture russe.
I vincitori: hedge fund e major.
Chi ci ha guadagnato? Sicuramente anche i fondi: quanto meno quelli che hanno saputo districarsi in uno dei mercati più volatili di sempre, in cui anche tra i più esperti c’è chi si è fatto male. Statar Capital ad esempio nel 2021 con la sua “Natural Gas Strategy” ha registrato un +56%: solo a ottobre ha guadagnato 400 milioni (ma a settembre ne aveva persi 130). Anche Andurand Capital Management aveva puntato fin dal 2021 sul rialzo delle commodity, nel suo caso il petrolio: quest’hanno ha guadagnato il +109% dopo il +87% dell’anno scorso e il +154% del 2020 (quando invece aveva scommesso sul ribasso delle quotazioni). La texana E360 Power, focalizzata sull’elettricità, vanta una performance del 187% nel 2021 e del 32% a gennaio.
Anche le grandi banche d’affari – circolano i nomi di Goldman Sachs, BofA, Bnp Paribas e Morgan Stanley – si sono mosse sulle commodity. Tra chi ha senz’altro beneficiato dei prezzi record del petrolio e del gas ci sono poi le compagnie petrolifere: le grandi Major globali hanno registrato profitti in aumento tra le due e le sei volte rispetto al 2020. Oltre a produrre idrocarburi alcune hanno sfruttato il vantaggio offerto dai contratti di lungo termine per l’importazione di gas: i cosiddetti take-or-pay, che sono spesso diventati molto vantaggiosi rispetto al valore del gas sul mercato spot europeo, ovvero il TTF, usato come riferimento per i prezzi di vendita al consumatore finale. Secondo alcune stime, a dicembre la differenza tra il prezzo del TTF e quello delle importazioni contrattuali nella Ue era di 25 euro per MWh: forbice che saliva a 80 euro per quei take-or pay che sono rimasti indicizzati al petrolio.