venerdì 1 aprile 2022

Spese militari, Prodi a La7: “Dibattito surreale. Aumenti solo dopo aver fatto una politica della difesa europea comune”

 

Un “dibattito surreale”. Così a PiazzaPulita su La7, l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi, definisce il dibattito degli ultimi giorni sull’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil. Secondo Prodi “questi aumenti di spesa, che bisogna fare per avere la difesa, si debbono fare quando si è fatta un politica estera e della difesa europea comuni”. “Io sono molto preoccupato del fatto che la Germania abbia di molto aumentato il suo bilancio della difesa, che doveva fare – prosegue Prodi – Però fare prima questo e poi vedere chissà quando una politica europea comune è pericoloso perché, voglio dire, lei stanzia 100 miliardi di euro, l’industria tedesca comincia a lavorare sulle commesse, e le politiche dei diversi stati si dividono”.

Una modalità che, puntualizza il conduttore Corrado Formigli tirando le somme del ragionamento di Prodi “rafforza i nazionalismi” a scapito quindi della difesa europea comune. Questo passo, secondo Prodi va fatto ora: “Se non lo facciamo adesso non lo facciamo più”. Fare una politica di difesa comunitaria “in tutta Europa”, specifica ancora l’ex premier, “non si può perché c’è l’unanimità. Allora bisogna fare come con l’euro, una cooperazione rafforzata”. A trascinarla, secondo Prodi, i quattro Paesi più “forti” in Euoropa, Francia, Spagna, Germania e Italia, che così potranno trascinare almeno altri 10 Stati in questa politica comune.

Una posizione vicina a quella di Conte e lontana da Draghi? Per Prodi no. Che specifica: “No, su questo non si è discusso, perché se si discute su questo io voglio vedere chi è in disaccordo”

https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/04/01/spese-militari-prodi-a-la7-dibattito-surreale-aumenti-solo-dopo-aver-fatto-una-politica-della-difesa-europea-comune/6544707/?utm_content=fattoquotidiano&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0YRjPgn-Kn6CbqG88cYjZV13cm3F9I7fQdZm4B9Ik-1a1POcjWDsuTens#Echobox=1648803815

SuperPinocchio. - Marco Travaglio

 

Il 25 marzo, dopo il vertice Nato, il segretario generale Jens Stoltenberg annuncia: “I membri han concordato di raddoppiare gli sforzi per rispettare l’impegno del 2014 di portare la spesa militare ad almeno il 2% del Pil entro il 2024”. Mario Draghi conferma: “Quello del 2% è un impegno preso nel 2006, sempre confermato da tutti i governi. Ora è tornato alla ribalta perché è più urgente e c’è l’esigenza di iniziare a riarmarci”. Per l’Italia, significherebbe passare nei Def del 2022-’23 da 25 a 39-40 miliardi annui. Tutti plaudono, tranne 5Stelle, Alternativa e SI. Il 28 marzo il ministro Lorenzo Guerini scrive alla Stampa“Obiettivo 2% del Pil per le spese della Difesa entro il 2024”. Il tutto “per costruire la Difesa Ue”, che non c’entra nulla con la Nato, spende già in armi il quadruplo della Russia e, se avesse un solo esercito al posto di 27, risparmierebbe e farebbe risparmiare i suoi membri. Il 29 marzo il governo fa proprio l’odg di FdI (opposizione) che lo impegna a “incrementare le spese per la Difesa al 2% del Pil… traguardo fissato al 2024”. Il M5S protesta. La sera Conte va da Draghi e gli conferma che un conto è un ritocco progressivo della spesa militare spalmato su più anni (nel solco degli aumenti di 1,1 miliardi l’anno dei suoi tre anni di governo), fino al 2% se e quando ce lo potremo permettere, tipo fino al 2030 (così magari c’è tempo per parlare di esercito Ue); un altro è dirottare in armi 14-15 miliardi in pochi mesi. Draghi ribadisce: 2% del Pil nel 2024, poi va a piangere al Quirinale da Mattarella, minacciando la crisi di governo. Palazzo Chigi, in una dura nota, ribadisce l’obiettivo di “un continuo e progressivo aumento degli investimenti entro il 2024”. Conte replica a Dimartedì: “Mai messo in discussione il tendenziale al 2%. Ma con l’orizzonte 2024 avremo un picco notevole: 15 miliardi e i cittadini e il Paese adesso hanno altre priorità”. Tg e giornali ripetono che Draghi “tira dritto” contro il disertore Conte, presidiando militarmente la linea del Piave: 2% nel 2024, non un minuto di più!

L’altroieri, tomo tomo cacchio cacchio, Guerini parla all’Agi del 2% “entro il 2028”. E ieri Draghi dice che il dogma del 2024 è solo “un’indicazione di tendenza, non un obiettivo”, infatti “molti governi l’han disatteso”, ergo “si fa quel che il ministro Guerini ha deciso per il 2028”. Ma allora perché spalmare quei 14-15 miliardi solo su 6 anni e non su 10 per allontanare l’amaro calice? E perché, se la sua linea del Piave era sempre stata il 2028, aveva sempre detto 2024, scordandosi di avvertire Mieli, Polito, Merlo, Sallusti&C.? Perché adora le sorprese? Per destabilizzare inutilmente il governo? Per far incazzare milioni di italiani distrutti dal caro- bollette? Per regalare un po’ di voti a Conte? O solo perché è un bugiardo?

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/01/superpinocchio/6544411/

Gas, inciucio sui rubli fra l’Europa e Putin. - Francesco Lenzi

 

IL MECCANISMO - Il gioco delle parti fra l’Ue (soprattutto Scholz e Draghi) e il russo, che incassa euro, ma li cambia nella sua moneta.

Ieri mattina, Mario Draghi, a domanda precisa sul pagamento in rubli del gas russo, ha risposto che “le aziende europee continueranno a pagare in euro o dollari”. Nel pomeriggio, Vladimir Putin ha firmato il decreto che da aprile modifica i termini di pagamento per le esportazioni di gas verso i Paesi cosiddetti “ostili” (tra cui tutti quelli Ue), scatenando le proteste. Chi sta bluffando? In attesa delle tecnicalità, si può dire nessuno dei due. Per capirlo occorre spiegare come il sistema finanziario russo sta evitando di collassare.

Dopo le sanzioni occidentali la Banca centrale russa non aveva più riserve valutarie per sostenere il cambio del rublo. Mosca ha replicato obbligando gli esportatori russi a convertire in rubli l’80% dei ricavi e limitando il ritiro di valuta estera, misure che stanno operando in sostituzione della Banca centrale. Così gli esportatori devono cedere valuta estera al mercato russo, rendendola disponibile per le istituzioni che devono finanziare le importazioni o il pagamento dei debiti in valuta estera. Se la valuta fosse invece conservata, rimarrebbe troppo scarsa sul mercato russo e la sua domanda ne farebbe crescere il valore, deprezzando il cambio del rublo come è avvenuto dopo le sanzioni. La valuta russa non è più convertibile liberamente, il suo mercato è confinato alla Russia, ma il crollo dei primi giorni dell’invasione dell’Ucraina è stato ormai riassorbito: il suo valore è tornato al livello pre-guerra. Questo recupero era essenziale per la Banca centrale, che da settimane lotta contro un’inflazione al 2% settimanale. Solo stabilizzando il cambio può sperare di evitare un devastante scenario iperinflattivo. Questo impianto opera negli spazi lasciati liberi dalle sanzioni ma può reggere solo se la valuta estera ottenuta con le esportazioni rimane libera, cioè accessibile al mercato russo. Se non fosse più trasferibile una volta che l’esportatore russo ha ricevuto il pagamento, si blocca tutto. Questo è lo scenario che Putin vuole evitare con la decisione di far pagare il suo gas in rubli.

Lo scenario potrebbe presto materializzarsi. Le banche russe non sono escluse dalle transazioni in euro. Solo sette, tra cui non compare GazpromBank, sono fuori dal sistema Swift. Gli Stati Uniti però, con l’entrata in vigore delle sanzioni sui regolamenti in dollari, hanno escluso varie banche russe tra cui la Sberbank, la più grande della Russia, dal poter trasferire i dollari se non per operazioni consentite dalle licenze. In sostanza, da sabato scorso, un esportatore di gas russo può ricevere dollari sul conto della Sberbank, ma poi quei dollari non sono più trasferibili. Non possono cioè essere riportati in Russia per convertirli in rubli e aiutare il sistema finanziario russo. Ieri, Putin, illustrando il decreto, si è infatti giustificato spiegando che “loro stanno ricevendo gas, pagano in euro e poi congelano questo pagamento”. A questo serve il provvedimento, che nella sostanza sposta l’onere di convertire euro e dollari in rubli e rende molto più complicato scindere il legame tra l’approvvigionamento di gas e il libero uso della valuta estera ottenuta come corrispettivo. Euro e dollaro non saranno più convertiti in rubli dall’esportatore, ma indirettamente da chi acquista il gas russo. Questo però non significa che il pagamento debba avvenire in rubli. È una sottigliezza che però conferma la linea di Draghi e Putin.

Nel decreto si legge che l’importatore “ostile”, per esempio Eni, deve aprire un conto in valuta estera presso la GazpromBank, alimentandolo con la valuta estera usata per pagare la fornitura e che viene poi utilizzata da GazpromBank per essere convertita in rubli sul mercato russo. Una volta realizzata la conversione, il corrispondente valore in rubli è accreditato su un altro conto in Gazprombank, questa volta denominato in valuta russa, e quindi trasferito all’esportatore di gas russo. Il pagamento è in euro o dollari, ma viene eseguito in rubli e solo quando questi vengono depositati sul conto dell’esportatore di gas l’operazione è completata e la fornitura può aver luogo. Lo schema regge a una condizione essenziale: GazpromBank non può esser oggetto di sanzioni che ne limitino la capacità di scambiare la valuta estera degli importatori di gas con i rubli delle istituzioni presenti sul mercato russo. A questo punto la decisione di colpire queste transazioni equivarrebbe alla decisione di terminare gli acquisti di gas dalla Russia, mettendo in ginocchio i Paesi Ue più esposti.

Ieri i ministri di Francia e Germania hanno detto di esser pronti a terminare l’approvvigionamento di gas russo se non potranno pagarlo in euro o dollari. Quello che pare di capire dal decreto è che questo resta così. Nella sostanza non cambia nulla, se non per il fatto, non trascurabile, che congelare i pagamenti sarebbe molto complicato. A quel punto resta solo di chiudere il gas. Ma su questo, a livello europeo, pare non esserci ancora molto accordo.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/04/01/incassa-euro-ma-ottiene-rubli-cosi-mosca-prova-a-resistere/6544347/

Cos'è il battaglione Azov e perché Putin parla di denazificazione dell’Ucraina. - Biagio Simonetta

 

La notte del 21 novembre 2013, il destino dell'Ucraina cambia per sempre. A Kiev esplode la protesta filo-europeista più grande della storia. Una protesta che andrà avanti per qualche mese, portando in piazza centinaia di migliaia di persone. E che costringerà il presidente filorusso, Viktor Janukovic, ad abbandonare il Paese.

È in quelle settimane di inferno che a Urzuf, una cittadina a una quarantina di chilometri da Mariupol, nasce il battaglione Azov. Il nome deriva dal mare che bagna quella costa, il mar d'Azov appunto. Siamo nell'Oblast’ di Donec’k, territorio conteso e maledetto, dove ormai da anni la Russia dà sostegno ai separatisti. E dove il battaglione Azov, che dell'invasore russo è nemico, si è fatto conoscere per le sue atrocità e le sue posizioni discutibili. Come la strage di Odessa, con un raid all'interno della Casa del Sindacato nel quale vennero barbaramente uccisi almeno 48 manifestanti filo-russi.

Il casus belli di Putin.

È il battaglione Azov la ragione per la quale Putin parla di denazificazione dell'Ucraina. Sono gli uomini di Andriy Biletsky - leader della destra ultranazionalista ucraina, con una storia legata ai gruppi estremisti che sfoggiano simboli nazisti – ad essere considerati, almeno ufficialmente, il casus belli dell'invasione russa in Ucraina. Un gruppo nato nei mesi caldi della Maidan Revolution del 2014, che successivamente ha trovato una specie di nulla osta da parte del governo di Kiev. Perché mentre Janukovic scappa dal Paese, i governi successivi non prenderanno mai le distanze da questo gruppo militare, che anzi sarà inquadrato nelle forze armate nazionali. Una scelta discutibile, che ha spianato la strada a Putin. La propaganda del Cremlino, in questi anni, ha sfruttato ampiamente le posizioni politiche di questo gruppo militare per calcare la mano sul giudizio di un'Ucraina nazista, da liberare. Ed è per questo che l'offensiva russa è fortemente concentrata su Mariupol, città nido degli uomini di Biletsky.

Chi sono quelli del battaglione Azov.

Il battaglione Azov è fatto più che altro da soldati volontari, provenienti da gruppi e movimenti politici legati all'estrema destra. Ucraini, ma non solo. Perché nelle sue fila conta volontari, nostalgici del nazifascismo, provenienti da diversi Paesi europei. Circa duemila uomini (numeri non ufficiali, ci sono rapporti che parlano addirittura di 17mila uomini ndr), famigerati per addestramenti molto duri ma anche perché accusati di aver commesso crimini di guerra.

Il gruppo, come detto, è nato durante la Rivoluzione ucraina del 2014, quando le truppe ufficiali di Kiev si scoprirono palesemente impreparate a intraprendere una guerra, e cittadini di ogni genere presero le armi e si recarono a est. A combattere.

Nel conflitto in Donbass, il battaglione Azov è stato accusato di aver massacrato, stuprato e assassinato civili, secondo l'Alto Commissariato per i diritti umani dell'ONU. Accuse sostenute anche dalla Human Rights Watch, organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani.

Il battaglione, che negli anni si è nutrito delle frange più estreme dei gruppi ultras del calcio, non ha mai nascosto le sue radici, adottando il Wolfsangel nazista come simbolo.

I suprematisti bianchi.

Andriy Biletsky, è il leader del battaglione Azov, ma è noto anche come il leader bianco. Sui social media ha condotto una vera e propria campagna di reclutamento e propaganda. Ha inondato Internet di immagini delle sue truppe che marciano per le strade, di slogan e incitamenti.

È nato a Kharkiv, città a maggioranza russa. E lui stesso è di madrelingua russa. Biletsky ha sempre rifiutato di identificarsi come un neonazista preferendo invece definirsi un nazionalista ucraino, ma alcune delle sue dichiarazioni pubbliche parlano da sole. Nella sua intervista probabilmente più celebre ha parlato di «missione storica dell’Ucraina in questo secolo per guidare i popoli bianchi del mondo nella loro ultima crociata contro l'Untermensch guidata dagli ebrei». È noto anche il suo legame, e quello dell'intero battaglione, coi suprematisti bianchi americani, quelli resi celebri dall'attacco a Capitol Hill di gennaio 2021.

Gli oligarchi e la propaganda di Putin.

Il battaglione ha goduto del patrocinio del controverso ministro ucraino Arsen Avakov e di diversi oligarchi ucraini, alcuni dei quali di origine ebraica, che sembrano aver messo da parte i loro scrupoli sull’ideologia del gruppo per assicurarsi la sovranità ucraina nel sud-est del Paese. Tutte situazioni perfette per la propaganda di Putin. Negli ultimi anni, infatti, il battaglione Azov ha prodotto – soprattutto sui social network - contenuti ideali per la televisione di Stato russa, dando un volto reale alle affermazioni del Cremlino sull’ascesa dell’estrema destra in Ucraina.

Non c'è dubbio, allora, che questa frangia di estrema destra, e la presunta impunità di cui gode, abbia danneggiato in modo significativo la reputazione internazionale dell’Ucraina, lasciando il Paese vulnerabile dinanzi alle narrazioni ostili.

Gli uomini di Biletsky, tuttavia, in Ucraina sono una netta minoranza. Non rappresentano minimamente l'intero esercito, né le posizioni di un Paese sempre più europeista. Il presidente Zelensky, del resto, è di origini ebree, e sembra difficile poterlo accusare di essere un leader neonazista. È chiaro, insomma, che il Battaglione Azov sia più che altro un pretesto. L'errore ucraino è lampante: aver concesso a questo reggimento un nulla osta per lavorare al fianco dell'esercito ufficiale. Un errore che Putin non si è fatto sfuggire.

Nella foto: Membri del battaglione Azov pregano nei boschi fuori Kharkiv (Afp)

https://24plus.ilsole24ore.com/art/cos-e-battaglione-azov-e-perche-putin-parla-denazificazione-dell-ucraina-AEE5tfLB?s=hpl

giovedì 31 marzo 2022

Batteria termofotovoltaica: una novità assoluta per l’energia rinnovabile. - Federica Pichierri

 

La batteria termofotovoltaica è la nuova frontiera dell’energia rinnovabile. Scopriamo di cosa si tratta e perchè ognuno di noi dovrebbe averne una.

L’energia rinnovabile è sempre più in crescita nel nostro paese. Gli ultimi rincari sul carburante, così come la troppa dipendenza da pesi esteri per il rifornimento di gas stanno facendo si che il nostro governo spinga sempre Pianta sulle fonti di energia rinnovabile già presenti nel nostro paese.

Nell’ultimo periodo infatti la ricerca nel settore energetico sta andando sempre più avanti. Un esempio è il progetto di sviluppo di una forma di intelligenza artificiale applicata all’energia eolica, ma i progetti sono ogni giorno sempre di più.

In questo momento la richiesta maggiore riguarda la necessità di maggiore spazio per accumulare grandi quantità di energia rinnovabile.

I ricercatori sono già al lavoro da tempo per trovare una soluzione e questa volta qualcuno sembra averla trovata davvero. La risposta a questa esigenza sarebbe una batteria termofotovoltaica, capace di immagazzinare grandi quantità di energia elettrica nel lungo termine.

Il progetto è tutto spagnolo e più precisamente è stato ideato dall’Istituto per l’energia solare del Politecnico di Madrid. I ricercatori avrebbero trovato in modo di sopperire all’esigenza di raccogliere energia e conservarla per lungo tempo. Hanno ideato un sistema capace di immagazzinare l’elettricità nel lungo termine ma soprattutto a costi decisamente ridotti.

In sostanza hanno realizzato una batteria molto speciale, una batteria termofotovoltaica a calore latente. Utilizzando la fusione di alcuni materiali metallici, quali alcune leghe di ferro e silicio, questa batteria riesce a immagazzinare l’elettricità come calore latente.

Questo è reso possibile grazie alle elevate temperature di fusione che toccano i 1000 gradi centigradi. Una volta fuso il silicio, il calore irradiato da esso può essere riconvertito in elettricità permettendo così un notevole risparmio di energia elettrica ad un costo minimo.

Grazie a questa batteria, infatti, si potranno produrre quantità di energia 100 volte maggiori rispetto alle normali quantità di energia elettrica prodotte da dei normali impianti solari.

https://www.orizzontenergia.it/2022/03/29/batteria-termofotovoltaica-novita-energia-rinnovabile/

mercoledì 30 marzo 2022

Sanità, scuola, ricerca, fisco e molto altro. Ecco cosa si potrebbe fare con i 13 miliardi che il Governo vuole buttare in spese militari. - Stefano Iannaccone

 

I 13 miliardi di euro previsti per l’aumento delle spese militari sono l’equivalente di una manovra correttiva, anche con un bel peso specifico. I numeri, del resto, parlano chiaro: la somma è un terzo dell’ultima Legge di Bilancio approvata, che – dati alla mano – ha avuto una movimentazione di 40 miliardi di euro complessivi.

Spese militari, mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza strumenti per lavorare

Si parla dunque di un gruzzolo di risorse che potrebbe avere numerose destinazioni. Quali? L’elenco è lungo: dalla Sanità al fisco, dalla scuola al welfare. Per non dimenticare le misure contro l’aumento delle bollette che sta funestando i bilanci delle famiglie. Le risorse in più che il governo dei Migliori vuole prevedere per l’acquisto di nuove armi, facendo passare la cifra da 25 a 38 miliardi, sono insomma un tesoretto prezioso.

Per rendere l’idea delle proporzioni: è sei volte e mezzo più grande del fondo previsto, ogni anno, per finanziare degli enti di ricerca, tra cui il Cnr. Ma questo è solo un esempio tra i tanti. Eppure il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che pure di professione è economista e sicuramente capace con i numeri, è fermamente intenzionato ad accontentare la Nato, portando le spese militari al 2 per cento del Pil. Un progetto che lo vede andare in tandem, con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E in pochi sono davvero pronti a dire no, come fa il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte.

Mentre l’esercito viene armato fino ai denti, la Sanità viene lasciata senza le armi per lavorare al meglio. Il sistema, negli ultimi due anni di pandemia, ha mostrato tutti i suoi limiti. La tenuta è stata possibile solo grazie all’impegno eroico di medici e infermieri. Il Piano nazionale di riprese e resilienza investe sulla salute 15 miliardi e 600 milioni di euro. In pratica l’incremento dei fondi per le spese militari sarebbe equiparabile alle risorse messe a disposizione dal Recovery plan su uno dei capitoli ritenuti fondamentali, specie dopo la tragedia del Covid-19.

Peraltro, già attualmente, per avere una macchina pienamente efficiente, occorrerebbero – stando alle stime della Fnopi (Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche), oltre 63mila infermieri. Ma all’appello mancano già più di 1.300 medici e per il 2027 la prospettiva è quella di 35mila pensionamenti totali, che potranno essere rimpiazzati solo per metà, nella migliore delle ipotesi. Servono dunque forze fresche e per immetterle è fondamentale fornire risorse strutturali. Altrimenti sono dolori, nel vero senso della parola.

Nell’ultima Legge di Bilancio il governo ha realizzato una riforma dell’Irpef. In totale ha speso 7 miliardi di euro per rivedere le aliquote, peraltro avvantaggiando in maniera palese i redditi più alti. Un esempio è arrivato dai dati, forniti dal Mef, sulle pensioni. Su questo specifico capitolo la spesa è stata di 2 miliardi 100 milioni. Per i redditi fino a 15mila euro, praticamente nella soglia di povertà, la riforma ha portato un “guadagno” di 177 euro all’anno, pari a 14,75 euro al mese. Chi ha fatto una dichiarazione tra 50mila e 55mila euro, può contare su un incremento di 744 euro annui.

Rinunciando alle armi si potrebbe prevedere un intervento molto più incisivo sulla tassazione

Un calcolo semplice che dimostra come la rinuncia all’acquisto di bombe potrebbe determinare un intervento molto più incisivo sulla tassazione, magari a sostegno dei più poveri. E che dire poi della delega fiscale, che al di là dell’Irpef è chiamata a ridisegnare l’architrave dell’imposizione sui contribuenti, a cui sono stati destinati solo 8 miliardi? Il lavoro in Parlamento è portato avanti con il bilancino per evitare che qualsiasi misura introdotta dai deputati possa avere un costo per le casse pubbliche. Il mantra, in questo caso, è che non ci sono soldi a sufficienza, così come mancano, a parole, quando si tratta di misure che potrebbero sostenere i redditi bassi.

La questione energetica è esplosa con la guerra in Ucraina. Il governo è intervenuto in due tempi, prima con il decreto bollette, da 7 miliardi di euro, e poi con il decreto energia, da 4 e passa miliardi. Messi insieme non arrivano alla fatidica cifra dei 13 miliardi. Ed è sotto gli occhi di tutti come l’intervento sulla riduzione dei costi del carburante di 25 centesimi sia da considerare alla stregua di una mancetta. Peraltro con l’aggravante che la misura ha un carattere molto limitato nel tempo: il 30 aprile 2022 si torna punto e daccapo.

Bisognerà inevitabilmente reperire nuove risorse, a meno di non dover sottoporre gli italiani a una risalita improvvisa dei costi per fare il pieno di benzina. Perché difficilmente nel prossimo mese la situazione potrà tornare sotto controllo in termini di approvvigionamenti energetici. Anzi l’ipotetico distacco dal gas russo imporrebbe un intervento statale ancora più significativo.

Il caro-energia, con tutti gli annessi, è solo uno dei problemi scoppiati con il conflitto in Ucraina. Le sanzioni inflitte al governo di Mosca hanno messo in affanno intere filiere finite.“La guerra commerciale mette in pericolo le esportazioni agroalimentari Made in Italy in Russia e in Ucraina per un valore che nel 2021 ha superato il miliardo di euro”, ha riferito la Coldiretti. Una contrazione che colpisce in maniera particolare il settore enologico: secondo una stima di Nomisma, nello scorso anno sono stati esportati in Russia vini per 340 milioni di euro, una somma che cresce di altri 60 milioni considerando il mercato ucraino.

Non va poi dimenticato l’export di olio, caffè e pasta. E ancora: la filiera del legno perde qualcosa come 400 milioni di euro con la chiusura dello sbocco russo. Un business che viene a mancare per le aziende italiane e a cui bisogna sopperire in qualche modo. Così come si dovrebbe far riflettere il rincaro delle materie prime per le costruzioni. L’Ance ha evidenziato che il prezzo dell’acciaio “tra novembre 2020 e febbraio 2021 ha registrato un aumento eccezionale pari a circa il 130%”. A rischio ci sono i lavori pubblici, senza un supporto.

Un altro eterno problema italiano riguarda la scuola. Basti pensare all’edilizia scolastica. Secondo quanto riferito da un dossier della Camera, il fondo unico prevede uno stanziamento ulteriore di 500 milioni di euro per gli interventi sugli edifici. Una cifra che è insufficiente rispetto a quanto effettivamente potrebbe servire per garantire una maggiore sicurezza agli studenti. Una ricerca della fondazione Agnelli indica che sarebbero addirittura necessari 200 miliardi di euro per un piano di effettivo ammodernamento. Certo, sarà una stima al rialzo.

Ma un elemento risulta certo: per il triennio 2018-2020, l’investimento sull’edilizia scolastica è stato di 10 miliardi in totale. Non va meglio, poi, se si parla di ricerca. Il Foe (il fondo assegnato agli enti controllati dal Ministero dell’università e della ricerca) è cresciuto nel 2021, ma è fermo a un miliardo e 900 milioni di euro. In confronto al 2011 l’incremento è stato di appena 200 milioni. Per superare la soglia ormai “mitica” dei 13 miliardi che il governo intende investire in spese militari, bisogna mettere insieme le risorse date ai ricercatori in 8 anni.

https://www.lanotiziagiornale.it/sanita-scuola-ricerca-fisco-e-molto-altro-ecco-cosa-si-potrebbe-fare-con-i-13-miliardi-che-il-governo-vuole-buttare-in-spese-militari/?fbclid=IwAR1rfvkKYafVKbMvqS5bEfrHNE74C3FZk_ctzUyiEmYFg1Uz0VZqJRi1_L0

Riarmo, lo “sgambetto” di Giorgia a M5S e LeU: l’ordine del giorno non si vota. - De Carolis, Salvini

 

GUERRIGLIA DI PALAZZO - Il governo accoglie l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia al decreto Ucraina per aumentare le spese militari fino al 2% del Pil. Ma i meloniani chiedono di non mettere ai voti i documento. Protestano M5S e LeU: così è vietato il dissenso.

Alle quattro del pomeriggio, nella sala Koch del Senato, la maggioranza implode. Urla, accuse, fascicoli agitati come drappi in commissione. Il governo, per bocca del ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, ha appena accolto l’ordine del giorno di Fratelli d’Italia al decreto Ucraina per aumentare le spese militari fino al 2 per cento del Pil, senza modifiche. Ma, a sorpresa, i senatori meloniani guidati da Luca Ciriani e Isabella Rauti decidono di non strafare: FdI non chiede di mettere ai voti l’ordine del giorno e quindi di non obbligare la maggioranza a una sanguinosa conta. “Abbiamo vinto, non volevamo fare un dispettuccio di maggioranza” sorride la senatrice Rauti. A quel punto, succede di tutto. Perché sia i senatori del M5S che quelli di LeU, rappresentati da Loredana De Petris, non ci stanno. Vogliono che sia messo ai voti il loro dissenso dalla scelta del governo sul riarmo. Ma non è possibile: una volta accolto l’odg, se i firmatari non chiedono di metterlo ai voti lo stesso, non si tiene alcuno scrutinio. Così la spaccatura nella maggioranza, dall’interpretazione del regolamento, tracima sul piano politico. La mossa dei meloniani fa andare in mille pezzi l’asse giallorosa. Il senatore 5S Gianluca Ferrara accusa i colleghi di voler fare “gli interessi dell’industria della Difesa”, Paola Taverna parla di “propaganda becera” di FdI, Andrea Cioffi attacca: “Il governo si trincera dietro fratelli d’Italia”. De Petris fa asse con i pentastellati sostenendo che l’atteggiamento del governo è “inaccettabile” e la decisione di alzare le spese militari è “sbagliata e dannosa”.

Da fuori anche Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana spara: “È un favore alla lobby industriale bellica, un colpo serio alle ragioni della pace – attacca – da oggi il governo Draghi ha ampliato la sua maggioranza ancora più a destra con FdI”. Ma l’accusa più rumorosa è quella del M5S nei confronti della presidente della commissione Difesa del Pd, Roberta Pinotti, rea di non aver voluto mettere ai voti l’odg. Vito Crimi riassume così: “Con il nostro Petrocelli le cose sarebbero andate diversamente”. Ma dicono che non la pensi proprio così Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri, ieri assente. Ma comunque voglioso di annunciare che non voterà il decreto che invia armi all’Ucraina, ossia il testo a cui è collegato anche l’odg di FdI. “Partiti guerrafondai, politici decotti e presunti servitori dello Stato si fanno interpreti del Paese reale e ci fanno diventare co-belligeranti” attacca. Il Pd, a cui era stato offerto un punto di caduta (mandare direttamente il decreto in Aula senza relatore, così da non dover votare sugli odg) prova a rispondere con Alessandro Alfieri: “Va bene le esigenze dei partiti, ma non si metta in difficoltà il governo”.

Oggi pomeriggio il decreto arriva in Aula, per essere votato già domani. Con o senza fiducia, non è ancora chiaro. “Se FdI non ripresenta in Aula l’odg non servirebbe” spiegano fonti di governo. Oppure se i meloniani confermeranno la scelta di non metterlo ai voti. Ma si deciderà nelle prossime ore. A occhio lunghissime, per la maggioranza.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/30/riarmo-lo-sgambetto-di-giorgia-a-m5s-e-leu-l-ordine-del-giorno-non-si-vota/6541822/