Un articolo di oggi del «New York Times» racconta l’ascesa e caduta di un avvocato di grido dell’Oregon (uno degli stati americani più ricchi e in impetuosa crescita), eletto sindaco della sua città prima di precipitare nella miseria assoluta sino a morire di freddo e stenti un paio di mesi fa. La sua caduta è così sintetizzata dal giornalista: «Era stato risucchiato in un vortice consueto in tante ricche città del West degli Stati Uniti: malattie mentali, tossicodipendenza diffusa, rapido aumento dei costi delle case e scomparsa di un senso di comunità».
In realtà non succede solo sulla costa del Pacifico; in tutta l’America, Boston inclusa, le patologie sociali sono evidenti e spesso epidemiche: i giornali (le televisioni e i social molto meno) ne parlano e le descrivono. Ma solo come effetti collaterali e inevitabili di un progresso, quello verso il consumismo fine a se stesso (caro ai liberisti della nuova destra) e verso la piena realizzazione dell’individualismo fine a se stesso (caro ai liberal della nuova sinistra), che non solo non si può fermare me neppure mettere in discussione.
Non c’è bisogno di fare riferimento al bispensiero orwelliano; molto più semplicemente si tratta di utilitarismo (tipico della mentalità anglosassone ma prossimamente planetaria), ossia della convinzione che la realtà sia totalmente determinata dalla mano invisibile del Mercato, non solo a livello economico ma anche culturale (nelle scuole e università si insegna ciò che piace agli studenti/clienti, non ciò che si consideri educativo; e non parliamo dei media), contro qualsiasi tentativo, anzi, qualsiasi ipotesi di pianificazione. Una specie di divina Provvidenza, il Mercato; con la significativa differenza che la prima agiva, almeno in teoria, a fini di bene (e dunque se il bene non accadeva c’era un problema), mentre il secondo considera bene qualunque risultato ottenga e pertanto è inattaccabile.
La depressione di massa, l’abuso di oppiacei e di droghe pesanti, l’obesità epidemica, le paranoie che sfociano in quotidiane sparatorie in scuole o uffici, l'alcolismo, il disfacimento delle famiglie e il disinteresse dei genitori per i figli e viceversa, i conseguenti disturbi da iperattività e insufficienza di attenzione che affliggono bambini e ragazzi che passano metà della giornata interagendo con uno schermo; in sostanza l’incapacità di distinguere realtà e virtualità e il rifiuto di qualsiasi forma di disciplinamento, sono tutt’al più problemi da risolvere (possibilmente con medicine prodotte dalle multinazionali farmaceutiche) ma in nessun caso da eliminare alla radice. Perché il disfacimento delle comunità e la mobilità compulsiva sono le condizioni necessarie e sufficienti del neoliberismo.
L’ho dichiarato altre volte ma giustamente non tanti leggono tutti i miei interventi per cui mi ripeto: vivo negli Stati Uniti da parecchi anni ma mi considero un ospite; per cui non mi sognerei di criticarli per quello che avviene nel loro territorio: sono fatti loro e se gli piace il tipo di vita che conducono non so a che titolo potrei sostenere che sbagliano. Li critico perché il loro modo di vivere lo vogliono esportare ovunque e a me, invece, piace la diversità. Non quella fasulla dei globalisti e dei multiculturalisti, ampia ma limitata e identica ovunque, in sostanza una opulenta omologazione da centro commerciale, meglio se in rete; la diversità che intendo difendere è conflittuale, una diversità che divide, separa, rivela reciproche incompatibilità e va dunque accettata con tolleranza, non con un’imperialistica ambizione all’universalità. Se mi occupo dell’America (rigorosamente in italiano) è perché tanti italiani, pur sospettosi nei confronti del mito americano (quelli che non lo sono li considero irrecuperabili), lo subiscono come un destino manifesto o come una necessità storica. Ecco, lo scopo di questo mio breve articolo è mostrare che tale attitudine rinunciataria (spacciata come pragmatica) è già una forma di americanizzazione, la più subdola in quanto esprime una rinuncia preventiva a quella graduale costruzione di valori condivisi (non necessariamente realizzata) che ha caratterizzato in profondità, nei secoli e sino a tempi recenti, la cultura italiana (e non solo italiana ma non quella americana). Se non ci si comincia a opporre adesso, si diventa come l'Oregon.
Francesco Esparmer
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Non si pensa più e, se lo si fa, non si comunica con gli altri per paura di essere contestati. Il dividi et impera si è ampliato con i mezzi di informazione pilotati dal potere economico. Questo mezzo di comunicazione, fb, dovrebbe essere, invece, tra i pochi mezzi che abbiamo a nostra disposizione per contestare il pensiero unico che vogliono imporci, continuando a contestare come fai tu, senza tregua e remore, da eroe di nuova generazione, quello che non combatte con le armi, ma con il pensiero libero.Grazie, Francesco, io sono con te.
cetta.