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sabato 17 luglio 2021

Violenze al G8: con la “Cartabia” zero condanne. - Marco Grasso e Alessandro Mantovani

 

Il massacro della scuola Diaz, i depistaggi e i verbali falsi firmati da funzionari ai vertici della polizia italiana, secondo Amnesty International “la più grave violazione dei diritti umani in un Paese democratico avvenuta nel Dopoguerra”. Gli orrori della caserma di Bolzaneto, dove vennero portati i manifestanti arrestati illegalmente, torturati per giorni, umiliati, costretti a ripetere slogan fascisti e nazisti da uomini (e donne) delle forze dell’ordine. E ancora: ricordate Alessandro Perugini, l’esperto vicecapo della Digos in jeans e maglietta gialla che tira un calcio a un ragazzino allora minorenne, che poi compare insanguinato e con un occhio tumefatto? O l’ex questore di Genova, Francesco Colucci, processato per falsa testimonianza per aver tentato di proteggere gli imputati della Diaz e l’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro? Tutti e due prescritti.

Nei giorni in cui si celebra il ventennale del G8 di Genova del 2001, la riforma della Giustizia del ministro Marta Cartabia sta per approdare in Parlamento. La norma cancella la legge dell’ex guardasigilli M5S Alfonso Bonafede, che per i fatti successivi al gennaio 2020 sospende la prescrizione dopo la condanna in primo grado. E di fatto la reintroduce, chiamandola però “improcedibilità”: i processi si fermano se durano più di due anni in appello e uno in Cassazione. Che ne sarebbe stato dei processi per il G8? Nessuno, con quelle regole, sarebbe arrivato in fondo.

La “macelleria messicana”.

Il copyright è di Michelangelo Fournier, uno dei funzionari finiti a processo. Coniò anche la grottesca definizione di “colluttazioni unilaterali”. In altre parole: le botte le avevano date solo i poliziotti a 93 persone indifese e inermi, arrestate per reati inventati. La ciliegina sulla torta furono due bottiglie Molotov, portate nella scuola proprio dai poliziotti (e incredibilmente sparite durante il processo: le custodiva la polizia). Sono state la chiave di un processo terribile, condotto da due pm, Enrico Zucca e Francesco Cardona, trattati con sufficienza da gran parte dei media e dalla politica, osteggiati dalla polizia (molti degli agenti picchiatori non sono mai stati identificati) e poco sostenuti anche dal capo della Procura.

Di tutte le accuse di lesioni personali rivolte a pubblici ufficiali per il G8 di Genova la prescrizione non ne ha lasciata in piedi neanche una. Si sono prescritte perfino le lesioni gravi contestate ai capisquadra del reparto ex Celere di Roma, gli uomini di Vincenzo Canterini e di Fournier. Prescritte le calunnie e gli arresti illegali. Furono condannati solo i responsabili del gigantesco depistaggio, cioè coloro che firmarono (o da capi ispirarono) i falsi verbali della Diaz. Non proprio tutti: il quindicesimo firmatario non fu mai identificato, nessuno ne fece il nome, un caso limite di ufficiale di polizia giudiziaria rimasto anonimo… Però il processo è finito con la condanna a quattro anni di un dirigente come Francesco Gratteri, che 20 anni fa guidava lo Sco – il Servizio centrale operativo, l’élite investigativa della polizia –, era stato promosso prefetto da imputato e studiava da capo della polizia. Tre anni e otto mesi al suo vice Gilberto Caldarozzi e a diversi dirigenti e funzionari delle Squadre mobili.

Cosa sarebbe accaduto con la riforma Cartabia? L’appello (2010) si è tenuto entro due anni dal primo grado (2008). Ma la durata del processo di Cassazione (arrivato nel 2012, dopo 1 anno e 11 mesi) avrebbe fatto saltare in aria ciò che ne rimaneva. Con la riforma di Bonafede, invece, le condanne di primo grado per lesioni sarebbero potute diventare definitive.

Le sevizie nella caserma.

I manifestanti arrestati alla scuola Diaz furono trasferiti alla caserma di Bolzaneto, l’altro grande black-out costituzionale di quei giorni. Persone sotto custodia dello Stato subirono abusi e vessazioni terrificanti: costretti a stare in piedi per ore, nella posizione del cigno o della ballerina, picchiati e umiliati, seviziati, costretti a ripetere slogan antisemiti o inneggianti alla dittatura di Pinochet, detenute denudate e oggetto di insulti a sfondo sessuale. Come nel caso Diaz il processo, condotto dai pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello, scontava l’assenza, in Italia, di una legge sulla tortura. E come nel processo Diaz, la sentenza di primo grado (il 14 luglio 2008) fu complessivamente più favorevole agli imputati (agenti, funzionari e medici di polizia penitenziaria, più carabinieri e poliziotti): 16 condannati, 29 assolti; riconosciuti solo una trentina dei 120 capi di imputazione. In secondo grado la sentenza fu pronunciata il 5 marzo 2010 (meno di due anni dopo): quasi tutti colpevoli. Ma la maggior parte dei reati erano ormai prescritti. Particolare non trascurabile: chi viene condannato per reati prescritti è comunque responsabile in sede civile, infatti stanno versando i risarcimenti anticipati dai ministeri dell’Interno e della Giustizia. Con la riforma Cartabia, su questo punto, non si sa ancora: cosa accadrà alle vittime quando una condanna di primo grado finirà nella tagliola dell’improcedibilità?

Nel caso Bolzaneto, però, nemmeno la legge Bonafede avrebbe evitato le prescrizioni: la stesura finale non sospende la prescrizione in caso di assoluzione in primo grado. Se invece fosse stata in vigore la riforma Cartabia, il processo sarebbe stato dichiarato improcedibile in Cassazione, con l’azzeramento anche delle sette condanne rimaste in piedi. La più alta al poliziotto Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi), responsabile della divaricazione fino all’osso della mano di un giovane manifestante. Nessuna prescrizione, invece, per le accuse di devastazione e saccheggio che hanno portato a condanne fino a 15 anni per una decina di manifestanti.

La ferita alla democrazia italiana, invece, è stata certificata da due condanne della Corte europea per i diritti umani: era stata tortura, sia a Bolzaneto che alla Diaz. E così, solo nel 2017, l’Italia si è dotata di una legge in materia, per quanto discutibile nel merito. Mancano tuttora, però, le norme necessarie ad allontanare i responsabili dai corpi di appartenenza e a rendere riconoscibili gli agenti attraverso codici alfanumerici, come reclama la stessa Corte europea. Per i giudici di Strasburgo non c’è dubbio: la tortura non deve andare in prescrizione, è un reato troppo grave che giustifica anche lunghi processi. L’Italia per ora ha fatto solo il minimo.

ILFQ

giovedì 22 marzo 2018

Perché Franco Gabrielli sbaglia a difendere chi ha coperto i torturatori di Genova. - Giovanni Drogo


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Il sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca accusa i vertici della Polizia di difendere chi coprì i torturatori del G8 di Genova, il capo della Polizia risponde che non ci sono torturatori nella Polizia e che le parole di Zucca sono oltraggiose. Gabrielli però dimentica troppe evidenze per potersi offendere.


«Chi ha coperto i nostri torturatori ora è al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?» così aveva commentato il caso di Giulio Regeni il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. Il riferimento era evidentemente alla decisione di nominare Gilberto Caldarozzi ai vertici dell’Antimafia (e di promuovere a questore il vicequestore Adriano Lauro). La tesi è semplice: Caldarozzi è stato condannato a tre anni e otto mesi per falso (mai scontati) con sospensione per cinque anni dai pubblici uffici per aver collaborato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare chi venne pestato dagli agenti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001.
Genova nel 2001 ci fu tortura.
Ma che c’entra Regeni? Il parallellismo tra i torturatori di Regeni e le violenze compiute dalla polizia durante il G8 di Genova riguarda proprio la tortura. Per quello che è successo alla Diaz l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per violazione delle norme sulla tortura. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato l’Italia per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz e le violenze commesse dagli ufficiali di polizia a Bolzanato. Ed è per questo che Zucca ha detto che «Noi violiamo le convenzioni è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici». Secondo Zucca infatti «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza».
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Nella sentenza la Cassazione scrisse che a Caldarozzi e gli altri condannati “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Successivamente il Ministro dell’Interno Marco Minniti  ha nominato Caldarozzi Vice direttore tecnico operativo della Direzione Investigativa Antimafia. Sempre secondo la Cassazione l’ex capo del Servizio centrale operativo della polizia (SCO) si «è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici». Quando qualche mese fa esplose la polemica per la scelta di nominare Cadarozzi all’Antimafia i vertici della Polizia si giustificarono dicendo che non si trattava di una promozione e che non era stato possibile “procedere ad alcuna forma di destituzione”. La sentenza dice che il comportamento di Caldarozzi fu degno dei peggiori regimi, non è un mistero che in molti considerino l’Egitto un regime antidemocratico. Il parallelismo, con tutti i limiti del caso, è lecito.

Quando Gabrielli diceva che se fosse stato il capo della Polizia durante il G8 di Genova si sarebbe dimesso per il bene della Polizia.

Franco Gabrielli non ha gradito l’uscita di Zucca definendole “parole oltraggiose”: «mi risuonano ancora più oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della Polizia ci sono dei torturatori». In realtà Zucca ha detto che ai vertici ci sono persone che “hanno coperto i torturatori” e la sentenza a carico di Caldarozzi parla chiaro. Ogni giorno – prosegue Gabrielli – «i nostri uomini e le nostre donne garantiscono serenità, sicurezza e tranquillità. Ed in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse, qualificano soltanto chi li proferisce». Nel frattempo il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ha avviato accertamenti preliminari sul sostituto procuratore generale di Genova. E il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha dichiarato che quella di Zucca «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata».

"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso" - Carlo Bonini
"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso"

Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato".

ROMA - Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura.

La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli.

"La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".

Vuole metterlo lei "il punto"?
"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".

Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?
"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".

Dunque?
"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".

Perché?
"Perché sono libero".

Libero? Da cosa? Da chi?
"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".

E da uomo libero cosa vede dunque?
"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".

CRONOLOGIA FATTI G8

Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?
"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".

"La Macelleria messicana".
"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".

Perché?
"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summum ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".

Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.
"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".

Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.
"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".

Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?
"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".

Come la immagina?
"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".

È una promessa?
"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".

giovedì 26 ottobre 2017

G8 Genova, Strasburgo condanna Italia: "A Bolzaneto fu tortura".

G8 Genova, Strasburgo condanna Italia: "A Bolzaneto fu tortura"

La sentenza per le azioni dei componenti delle forze dell'ordine e perché lo Stato non ha condotto un'indagine efficace. Fiano (Pd) e Fratoianni (Si): "Pagina orribile della nostra storia". Tortura anche in carcere ad Asti.

STRASBURGO - Gli atti commessi dalle forze dell'ordine a Bolzaneto nei giorni del G8 del 2001 sono atti di tortura. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia per le azioni dei membri delle forze dell'ordine, e perché lo Stato non ha condotto un'indagine efficace. Parti civili una quindicina di persone di 8 diverse nazionalità, riconosciute come vittime di torture da parte delle forze dell'ordine durante i giorni del G8 a Genova, nel luglio del 2001. Si tratta in particolare di persone che furono rinchiuse fra il 20 e il 22 luglio nel carcere di Bolzaneto. I giudici hanno riconosciuto ai ricorrenti il diritto a ricevere tra 10mila e 85mila euro a testa per i danni morali.

Nella stessa sentenza l'Italia è stata condannata anche perchè alcuni agenti di polizia penitenziaria di Asti nel 2004 hanno torturato due detenutiAndrea Cirino e Claudio Renne. "Oggi contro fatti così gravi abbiamo la legge che punisce il reato di tortura", scrive su Twitter la ministra dei Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro.

• FIANO (PD) E FRATOIANNI (SI): "BOLZANETO PAGINA ORRIBILE".
"Bolzaneto è stata una pagina orribile della nostra storia - commenta il responsabile Sicurezza del Pd, Emanuele Fiano - non ci possono essere giudizi diversi, questa sentenza lo conferma, ancora una volta". "Ci fu tortura - dichiara Nicola Fratoianni, Sinistra italiana - noi lo sapevamo. Amareggiati per aver atteso quasi 20 anni. Ora mai più quelle scene e quelle infamie". "L'amarezza - aggiunge Fratoianni - è che i responsabili di quelle atrocità siano stati coperti prima e poi tra indulti, falle legislative abbiano avuto punizioni ridicole". "Questa sentenza rappresenta un risarcimento politico-istituzionale per il movimento no global che in quei giorni si mobilitò a genova contro il G8", afferma Paolo Cento (Si).

• STRASBURGO: "TRATTATI COME OGGETTI DEL POTERE PUBBLICO".
"I ricorrenti, trattati come oggetti per mano del potere pubblico, hanno vissuto durante tutta la durata della loro detenzione in un luogo 'di non diritto' dove le garanzie più elementari erano state sospese". Così i giudici di Strasburgo definiscono, nella sentenza di condanna dell'Italia, la situazione vissuta da 48 persone a Bolzaneto. I togati evidenziano inoltre che "l'insieme dei fatti emersi dimostra che i membri della polizia presenti, gli agenti semplici, e per estensione, la catena di comando, hanno gravemente contravvenuto al loro dovere deontologico primario di proteggere le persone poste sotto la loro sorveglianza".


Nella sentenza è anche messo in risalto il fatto che "nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti". E la Corte osserva che questo è stato causato principalmente da due elementi. Il primo, dicono i giudici, è stata l'impossibilità di identificare gli agenti coinvolti, sia perché a Bolzaneto non portavano segni distintivi sulle uniformi, che per la mancanza di cooperazione della polizia con la magistratura. Il secondo fattore invece "sono le lacune strutturali dell'ordine giuridico italiano" al tempo dei fatti. Nella sentenza la Corte afferma di "aver preso nota della nuova legge sulla tortura entrata in vigore il 18 luglio di quest'anno, ma che le nuove disposizioni non possono essere applicate a questo caso".

• A FARE RICORSO CINQUANTANOVE VITTIME.
A fare ricorso a Strasburgo sono state 59 persone tutte condotte a Bolzaneto tra il 20 e il 22 luglio 2001. Alcuni di loro provenivano dalla scuola Diaz, dove avevano già subito numerose violenze che la Corte di Strasburgo ha definito come torture in una sentenza di condanna dell' Italia emessa lo scorso giugno. Tutti i ricorrenti affermano di aver subito violenze. Alcuni sono stati picchiati più volte, sono stati fatti spogliare davanti ad agenti del sesso opposto, a molte delle ragazze sono stati fatti togliere anche gli assorbenti ed è stato poi negato l'uso di salviette igieniche.

Ad altre persone gli agenti hanno sottratto, a volte strappandoli via, gli oggetti personali, mai restituiti. 


Altri hanno dovuto gridare "viva il duce, viva il fascismo, viva la polizia penitenziaria". 

Le celle in cui erano una parte dei ricorrenti sono state spruzzate con gas urticanti

Tutti si sono visti negare la possibilità di contattare un avvocato, la famiglia, o per gli stranieri i loro consolati.

Undici dei 59 ricorrenti hanno accettato un accordo con il governo italiano che si è impegnato a versargli 45mila euro per danni morali e materiali e le spese legali sostenute.

Agli altri la Corte, avendo stabilito che sono stati vittime di tortura e che "nonostante gli eccezionali sforzi dei magistrati italiani" nessuno ha passato un solo giorno in carcere per quanto inflitto ai ricorrenti, ha riconosciuto risarcimenti per danni morali che variano tra i 10 e gli 85 mila euro. La differenza nelle somme dipende da due fattori: la gravità delle torture subite, e il fatto se lo Stato ha già versato oppure no gli indennizzi accordati dai tribunali nazionali.

• G8 2001, IL PROCESSO: 300 PERSONE PICCHIATE E MINACCIATE
Nei giorni del G8 del 2001, secondo quanto ricostruito dal processo sulla base anche delle testimonianze di decine di vittime, oltre 300 persone vennero private della possibilità di incontrare i loro legali, umiliate, picchiate, minacciate. Tra le mura della caserma risuonarono a più ripresa inni fascisti, molti dei ragazzi vennero costretti a rimanere immobili per ore, le donne subirono violenze fisiche e morali.

Il processo in Cassazione per le violenze di Bolzaneto si era concluso, nel giugno 2013, con  sette condanne e quattro assoluzioni. Per una decina di imputati erano scattate la prescrizione in sede penale ma non in quella civile:
tra questi anche i medici che torturarono i pazienti detenuti. La quinta sezione penale della Corte aveva assolto Oronzo Doria, all’epoca colonnello del corpo degli agenti di custodia, e gli agenti FrancoTrascio Talu. Erano invece state confermate  le 7 condanne che erano state inflitte dalla Corte d’Appello di Genova il 5 marzo 2010 nei confronti dell’assistente capo di Pubblica sicurezza Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi) - che divaricò le dita della mano di un detenuto fino a strappargli la carne - degli agenti di polizia penitenziaria Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e del medico Sonia Sciandra.

Per quest’ultima la Cassazione aveva ridotto la pena, assolvendola solo dal reato di minaccia. Pene confermate a un anno per gli ispettori della polizia Matilde AreccoMario Turco e Paolo Ubaldi che avevano rinunciato alla prescrizione. La pene erano però quasi integralmente coperte da indulto.

La Cassazione aveva anche bocciato il ricorso della procura di Genova che chiedeva di contestare il reato di tortura, cosa che appunto avrebbe evitato l’estinzione del reato. Reato che come già era stato evidenziato nella sentenza Diaz non è contemplato dal nostro ordinamento.

• IL GOVERNO HA GIÁ RICONOSCIUTO I PROPRI TORTI
Nell'aprile scorso il governo italiano aveva riconosciuto i propri torti nei confronti di sei cittadini per quanto subito nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio 2001, ai margini del G8 di Genova, e gli verserà 45 mila euro ciascuno per danni morali e materiali e spese processuali. Lo rende noto la Corte europea dei diritti umani in due decisioni in cui "prende atto della risoluzione amichevole tra le parti" e stabilisce di chiudere questi casi.

Il governo italiano, secondo quanto reso noto a Strasburgo, ha raggiunto una 'risoluzione amichevole' con sei dei 65 cittadini - tra italiani e stranieri - che hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ricorsi in cui si sostiene che lo Stato italiano ha violato il loro diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e si denuncia l'inefficacia dell'inchiesta penale sui fatti di Bolzaneto. I sei ricorrenti che hanno accettato l'accordo sono Mauro AlfaranoAlessandra BattistaMarco BistacchiaAnna De FlorioGabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari.


http://www.repubblica.it/cronaca/2017/10/26/news/a_bolzaneto_fu_tortura_strasburgo_condanna_italia-179372767/?ref=twhr&timestamp=1509006897000&utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

martedì 10 settembre 2013

G8 Genova, Cassazione: “A Bolzaneto accantonato lo Stato di diritto”.

G8 Genova, Cassazione: “A Bolzaneto accantonato lo Stato di diritto”


La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle".

Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati.
La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”.
Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo.
I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”.
Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale