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lunedì 28 marzo 2022

I nazi-illuminati dell’Azov: prima le torture, ora Kant. - Daniela Ranieri

 

Dopo la foto glamour della bambina-soldato con fucile e lecca-lecca, il Gruppo Gedi, non insensibile al valore (simbolico e pecuniario) delle armi, ci regala un’altra piccola, romantica epopea.

Repubblica intervista Dmytro Kuharchuck, 31 anni, comandante del battaglione Azov, un’unità della Guardia nazionale ucraina esplicitamente nazista, almeno a voler prender sul serio le svastiche, i simboli runici, i tatuaggi delle SS dei suoi componenti.

Titolo dell’intervista: “Non sono nazista, ai soldati leggo Kant. Il reggimento Azov lotta per la nazione”. Accipicchia: Kant, il padre dell’Illuminismo tedesco, uno dei pilastri del pensiero filosofico europeo. “Dmytro”, si legge, “non è il tipo di combattente che ti aspetti di trovare nell’Azov. Misura le risposte, legge Kant e argomenta non solo col bazooka”. Un moderato, un centrista liberale.

Ma vediamo chi sono, questi ragazzoni che alla sera leggono la Critica della ragion pura alla luce dei fuochi da campo sotto le bombe russe. Soprannominati anche “Uomini in nero”, o “Corpo Nero” (sicuramente per l’eleganza dei loro outfit), dopo diverse denunce di Amnesty International nel 2016 sono indicati in un rapporto dell’OSCE come “responsabili dell’uccisione di massa di prigionieri, di occultamento di cadaveri nelle fosse comuni e dell’uso sistematico di tecniche di tortura fisica e psicologica”. “Il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me”, cita Dmytro sognante, dimenticando le fosse comuni sotto di lui.

Dmytro, dice Rep, “conferisce direttamente col capo, Andrij Biletsky, che nel 2014 formò il Reggimento mettendo insieme gruppi di ultranazionalisti ucraini e attivisti di Maidan”. Wow! E vediamo chi è questo capo: membro del Parlamento ucraino dal 2014 al 2019, Biletsky è cofondatore dell’Assemblea Social-nazionale, in cui obiettivi sono “la protezione della razza bianca” mediante un sistema di “nazionecrazia antidemocratica e anticapitalista” e l’eradicazione di “capitale speculativo sionista internazionale” (Wikipedia). Come si vede, gente illuminata, idealista, cosmopolita. “Costruiamo relazioni che non si basano solo sul curriculum militare ma anche su principi morali universali”, dice Dmytro. Quali principi? Nel 2010, Biletsky disse che la missione dell’Ucraina era “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro gli Untermenschen (popoli inferiori, ndr) guidati dai semiti” (ibidem). Qui praticamente c’è tutto Kant, ma pure un po’ di Hegel, Voltaire, Spinoza e Hume.

Certo l’Ucraina non è, come dice Putin, una nazione di nazisti. Ciò nondimeno il 19 marzo il presidente Zelensky ha dichiarato “eroe dell’Ucraina” il maggiore Prokopenko, comandante di un distaccamento speciale di Azov. E dal 2010 è eroe nazionale Stepan Bandera, collaborazionista dei nazisti durante la Seconda guerra Mondiale e uccisore di migliaia di ebrei e polacchi, il cui compleanno è festa comandata.

Così succede che per giustificare l’impegno bellicista del nostro governo, che trova 13 miliardi sull’unghia per le spese militari mentre per la Sanità e 6 milioni di poveri non scuce che spiccioli (e le due diverse destre di Italia viva e Fratelli d’Italia vogliono eliminare anche il reddito di cittadinanza), si costruisca una narrazione in cui il governo ucraino è l’incarnazione del bene, al punto che le sue milizie naziste finiscono ritratte sul quotidiano progressista fondato da Scalfari. (Orsini no, il capitano del Battaglione Azov sì. Avercene. Capito come siamo messi?).

Commovente lo sforzo di romanticizzare la guerra, come fossero, i soldati dell’Azov, giovani intellettuali idealisti europeisti alla Byron, di quelli che negli anni venti dell’Ottocento andarono a combattere in Grecia contro l’Impero Ottomano. Nazionalismo e vitalismo, da sempre marchi del fascismo, presentati come esuberanza giovanile e amore per la democrazia, una specie di requisiti per l’Erasmus, via.

Che aspettiamo a invitare Dmytro al Festival del cinema di Roma, intervistato da Antonio Monda quale virgulto della gioventù liberale e riformista che sconfigge i populisti filo-russi (magari gasandoli)? Sempre che i pacifisti, ancora fermi al vetero-intellettualismo marxista e ignari delle potenzialità democratiche delle bombe, non si mettano di mezzo con la loro smania di censura.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/27/i-nazi-illuminati-dellazov-prima-le-torture-ora-kant/6538796/

mercoledì 22 luglio 2020

“Botte coi guanti ai detenuti. Celle speciali per le torture”. - Elisa Sola

“Botte coi guanti ai detenuti. Celle speciali per le torture”

Torino. Le accuse del pm Pelosi ai 21 agenti penitenziari “Pestaggi” e lesioni documentate. Contestato ai vertici il favoreggiamento.
Le celle delle torture erano quattro, nella Decima sezione: qui, secondo l’accusa, gli agenti portavano i detenuti “che davano segno di scompensi psichici”. Poi c’era la stanza al piano terra dove all’improvviso il carcerato da punire, preso da tre o quattro poliziotti dalla propria cella, veniva colpito con calci e pugni. Di solito due picchiavano, gli altri due guardavano. Ma le violenze, all’interno del carcere delle Vallette di Torino, avvenivano anche nei luoghi teoricamente pensati per la cura della persona. Come, sostiene il pm, l’infermeria. È qui che due poliziotti, tre anni fa, portano un detenuto, e gli sputano addosso mentre gli dicono “Figlio di puttana, ti devi impiccare”. Poi lo colpiscono con pugni al volto. Il carcerato uscirà da quel calvario con “un ematoma al volto, epistassi dal naso e lesione al dente incisivo superiore che ne provocherà la caduta”. E gli aguzzini lo minacceranno: “Devi dire che è stato un altro detenuto a picchiarti, se no lo rifacciamo”.
È soltanto uno dei numerosi episodi di violenza che il pm Francesco Saverio Pelosi contesta a 21 poliziotti penitenziari del carcere Lorusso e Cutugno, 17 dei quali sono accusati del reato di tortura. L’avviso di chiusura delle indagini, iniziate due anni fa, è stato notificato ieri agli agenti e due giorni fa ai vertici del carcere, indagati invece per favoreggiamento: il direttore Domenico Minervini (che risponde anche di omessa denuncia) e il comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza. Secondo quanto accertato dal Nucleo investigativo regionale della polizia penitenziaria, che ha svolto le indagini coordinato dalla procura, Minervini e Alberotanza sarebbero stati consapevoli delle “crudeltà” che avvenivano dietro alle sbarre, ma avrebbero coperto i poliziotti, senza denunciare i fatti all’autorità giudiziaria. Le vittime delle sevizie sono almeno dieci: carcerati condannati per reati sessuali o pedofilia.
Agire con “crudeltà”, per il pm Pelosi, così scrive nella descrizione dei capi di imputazione, significa provocare “acute sofferenze fisiche e psichiche” ai detenuti ledendo la loro “dignità”. L’elenco degli abusi di potere e delle violenze mostra uno spaccato da incubo.
Il 17 novembre 2018 tre poliziotti portano una vittima in una stanza in cui non c’è nessuno. “Per quale reato sei detenuto?”, è la domanda che dà il via alle botte. Secondo l’accusa, il primo agente dà al detenuto uno schiaffo al volto. Il secondo mette i guanti, così può picchiarlo senza lasciare troppi segni: infierisce in pieno volto e sulla testa. Il terzo lo riempie di pugni alla schiena. Quando, dopo il pestaggio, il carcerato viene riportato nella sua cella, non è finita. Viene obbligato a stare in piedi contro il muro, di modo che lo vedano tutti i compagni che stanno per tornare dall’ora d’aria.
Le presunte torture sarebbero avvenute anche nei confronti dei malati. Come a un detenuto colpito da “una crisi psicomotoria e legato in barella”. Mentre era immobile, un agente “lo colpiva ripetutamente al volto facendogli sanguinare il naso”. Un altro carcerato, a terra sofferente in attesa del Tso, veniva invece “colpito ripetutamente con violenti pugni al costato”. Lui urlava, “i poliziotti ridevano”, scrive il pm. Sul perché avvenissero i pestaggi, non ci sarebbero molte spiegazioni. Se non la volontà di “punire” persone condannate per reati consideranti infamanti, come la violenza sessuale. La rabbia di volere attuare una sorta di perversa giustizia fai da te trapela dalle parole di un agente indagato, che dopo aver buttato giù dalle scale a calci un uomo, urla: “Ti ammazzerei, invece devo tutelarti”. O ancora: “Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare, ti faremo passare la voglia di stare qui”. L’accoglienza riservata a chi metteva piede per la prima volta nel carcere, è spiegata nella descrizione dei reati contestati a tre agenti. Al nuovo arrivato, ricostruisce il pm, consegnano il kit con le lenzuola, poi lo accompagnano in cella. Mentre sale le scale, lo atterrano con un calcio a gamba tesa: le ferite riportate lo faranno zoppicare per tre mesi. Il “neo giunto” sarà costretto a dormire sulla lastra di metallo del materasso. Lo priveranno, sempre secondo l’accusa, dell’ora d’aria e della possibilità di vedere un medico.

giovedì 22 marzo 2018

Perché Franco Gabrielli sbaglia a difendere chi ha coperto i torturatori di Genova. - Giovanni Drogo


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Il sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca accusa i vertici della Polizia di difendere chi coprì i torturatori del G8 di Genova, il capo della Polizia risponde che non ci sono torturatori nella Polizia e che le parole di Zucca sono oltraggiose. Gabrielli però dimentica troppe evidenze per potersi offendere.


«Chi ha coperto i nostri torturatori ora è al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?» così aveva commentato il caso di Giulio Regeni il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. Il riferimento era evidentemente alla decisione di nominare Gilberto Caldarozzi ai vertici dell’Antimafia (e di promuovere a questore il vicequestore Adriano Lauro). La tesi è semplice: Caldarozzi è stato condannato a tre anni e otto mesi per falso (mai scontati) con sospensione per cinque anni dai pubblici uffici per aver collaborato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare chi venne pestato dagli agenti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001.
Genova nel 2001 ci fu tortura.
Ma che c’entra Regeni? Il parallellismo tra i torturatori di Regeni e le violenze compiute dalla polizia durante il G8 di Genova riguarda proprio la tortura. Per quello che è successo alla Diaz l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per violazione delle norme sulla tortura. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato l’Italia per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz e le violenze commesse dagli ufficiali di polizia a Bolzanato. Ed è per questo che Zucca ha detto che «Noi violiamo le convenzioni è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici». Secondo Zucca infatti «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza».
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Nella sentenza la Cassazione scrisse che a Caldarozzi e gli altri condannati “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Successivamente il Ministro dell’Interno Marco Minniti  ha nominato Caldarozzi Vice direttore tecnico operativo della Direzione Investigativa Antimafia. Sempre secondo la Cassazione l’ex capo del Servizio centrale operativo della polizia (SCO) si «è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici». Quando qualche mese fa esplose la polemica per la scelta di nominare Cadarozzi all’Antimafia i vertici della Polizia si giustificarono dicendo che non si trattava di una promozione e che non era stato possibile “procedere ad alcuna forma di destituzione”. La sentenza dice che il comportamento di Caldarozzi fu degno dei peggiori regimi, non è un mistero che in molti considerino l’Egitto un regime antidemocratico. Il parallelismo, con tutti i limiti del caso, è lecito.

Quando Gabrielli diceva che se fosse stato il capo della Polizia durante il G8 di Genova si sarebbe dimesso per il bene della Polizia.

Franco Gabrielli non ha gradito l’uscita di Zucca definendole “parole oltraggiose”: «mi risuonano ancora più oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della Polizia ci sono dei torturatori». In realtà Zucca ha detto che ai vertici ci sono persone che “hanno coperto i torturatori” e la sentenza a carico di Caldarozzi parla chiaro. Ogni giorno – prosegue Gabrielli – «i nostri uomini e le nostre donne garantiscono serenità, sicurezza e tranquillità. Ed in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse, qualificano soltanto chi li proferisce». Nel frattempo il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ha avviato accertamenti preliminari sul sostituto procuratore generale di Genova. E il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha dichiarato che quella di Zucca «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata».

"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso" - Carlo Bonini
"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso"

Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato".

ROMA - Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura.

La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli.

"La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".

Vuole metterlo lei "il punto"?
"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".

Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?
"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".

Dunque?
"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".

Perché?
"Perché sono libero".

Libero? Da cosa? Da chi?
"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".

E da uomo libero cosa vede dunque?
"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".

CRONOLOGIA FATTI G8

Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?
"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".

"La Macelleria messicana".
"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".

Perché?
"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summum ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".

Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.
"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".

Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.
"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".

Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?
"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".

Come la immagina?
"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".

È una promessa?
"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".

venerdì 23 giugno 2017

G8: Italia nuovamente condannata da Strasburgo per violenze Diaz.

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La Corte ha anche condannato il Paese per non aver punito in modo adeguato i responsabili.

Le leggi italiane sono inadeguate a punire e quindi prevenire gli atti di tortura commessi dalle forze dell'ordine. L'ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato ancora una volta l'Italia per gli atti di tortura perpetrati dalle forze dell' ordine nella notte tra il 20 e 21 luglio 2001 nella scuola Diaz, ai margini del G8 di Genova, ai danni di diverse persone. La Corte ha anche condannato l'Italia per non aver punito in modo adeguato i responsabili di quanto accaduto a Genova.
Ieri il Consiglio d'Europa ha invitato la Camera dei Deputati a modificare il testo della legge contro la tortura che sta discutendo e che dovrebbe andare in Aula il 29 perché nella sua forma attuale contiene una definizione del reato e diversi elementi in disaccordo con quanto prescritto dagli standard internazionali
E' quanto sostiene Nils Miuznieks, commissario dei diritti umani del Consiglio d'Europa, in una lettera inviata tra gli altri ai Presidenti dei due rami del Parlamento, Laura Boldrini e Pietro Grasso. Il commissario punta il dito in particolare sul fatto che la legge prevede che affinché si possa accusare qualcuno di tortura occorre che la persona abbia compiuto gli atti di grave violenza, o minacce o crudeltà diverse volte, o abbia sottoposto la vittima a trattamenti inumani e degradanti. Inoltre, scrive Muiznieks, la legge prevede che la tortura psicologica esista solo nei casi in cui si possa stabilire che la vittima ha subito un trauma psicologico. "Osservando che il testo sembra divergere dalla definizione contenuta nella Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite, anche sotto altri aspetti", il commissario afferma di essere preoccupato che se la legge sarà approvata così com'è, certi casi di tortura o trattamenti o punizioni degradanti o inumani non potranno essere perseguiti "creando quindi delle potenziali scappatoie per l'impunità". Il commissario evidenzia inoltre l'importanza di assicurare che "l'ampia definizione di tortura, che ricomprende gli atti commessi da privati cittadini, non si traduca in un indebolimento della protezione contro la tortura commessa da funzionari dello Stato, data la particolare gravità di questa violazione dei diritti umani".

domenica 19 marzo 2017

Torturava e violentava migranti in Libia: rischia linciaggio dalle sue vittime a Lampedusa. - Alessandra Ziniti

Torturava e violentava migranti in Libia: rischia linciaggio dalle sue vittime a Lampedusa
Nel riquadro l'arrestato Eric Sam Ackom 

I racconti dei testimoni: "Scariche elettriche e ustioni con acqua bollente". Ghanese individuato e arrestato dalla polizia, dopo la denuncia degli immigrati.

La peggiore delle torture. Telefonare a casa, ai propri cari, urlando di dolore e supplicando di mandare altri soldi ai trafficanti di uomini. “Ogni volta che dovevo telefonare a casa, lui mi legava e mi faceva sdraiare per terra con i piedi in sospensione e cosi, immobilizzato, mi colpiva ripetutamente e violentemente con un tubo di gomma in tutte le parti del corpo e in special modo nelle piante dei piedi tanto da rendermi poi impossibile camminare".

E ancora elettrodi collegati alla lingua per scuotere con scariche elettriche, pentole di acqua bollente tali da provocare ustioni gravissime e naturalmente stupri di gruppo. Un campionario dell’orrore quello che la Procura di Palermo contesta ad un ventenne ghanese sbarcato nei giorni scorsi a Lampedusa e arrestato dopo che alcune delle vittime da lui torturate in Libia prima della partenza si sono fatte coraggio, lo hanno riconosciuto e accusato alla polizia di Agrigento che lo ha arrestato. I poliziotti della squadra mobile di Agrigento, diretta da Giovanni Minardi, lo hanno sottratto ad un vero e proprio linciaggio nel centro di accoglienza di Lampedusa.

Associazione per delinquere finalizzata alla tratta, sequestro di persona, violenza sessuale, omicidio aggravato e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina i reati contestati.
Agghiaccianti le testimonianze raccolte dagli agenti della Mobile di Agrigento: “Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricare addosso la corrente elettrica” o “Porto ancora addosso i segni delle violenze fisiche subite, in particolare delle ustioni dovute a dell’acqua bollente che mi veniva versata addosso”.

"Ricordo le torture subite da tutti i miei carcerieri e, in maniera particolare, quelle che mi furono inflitte dal ghanese 'Fanti' che era quello che, in maniera spregiudicata e imperterrita, picchiava più degli altri carcerieri". Inizia così il racconto di Vadro, nigeriano di 21 anni, una delle vittime torturate mentre i familiari ascoltavano al telefono. "Ho anche assistito ad analoghe torture poste da Fanti ad altri migranti - racconta ancora l'uomo - Ho, inoltre, visto trattamenti anche peggiori, come le torture esplicitate mediante utilizzo di cavi alimentati con la corrente elettrica. Tale trattamento, però, veniva riservati ai migranti ritenuti ribelli". Ma non solo torture. "Durante la mia permanenza - spiega il testimone - ho sentito che l'uomo che si faceva chiamare 'Rambo' ha ucciso un migrante. So che mio cugino e altri hanno provato a scappare e che sono stati ripresi e ridotti in fin di vita, a causa delle sevizie cui sono stati sottoposti. Temo che anche lui sia stato ucciso". Alcune volte, per intimorire, i poveri migranti, i loro torturatori usavano anche le armi "sparavano in aria per farci intimorire", raccontano.

Un altro migrante, Victory, giovane nigeriano, anche lui vittima di 'Fanti', sentito dai pm Gery Ferrara e Giorgia Spiri, racconta della casa-ghetto: "Eravamo in mezzo al deserto, era una grande struttura, recintata con dei grossi e alti muri in pietra, che era costantemente vigilata da diverse persone, di varie etnie, armati di fucili e pistole". E parlando di Fanti, l'arrestato, racconta: "Era uno che spesso, in modo sistematico picchiava e torturava noi migranti. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti al cui vertice c'era Alì, il libico". Anche Victory ha dovuto pagare dei soldi per essere rilasciato e proseguire la sua rotta verso l'Italia. "Ogni giorno telefonavano alla mia famiglia - racconta tra le lacrime - e mentre avanzavano a mio fratello le loro richieste estorsive, consistenti nella richiesta di denaro, mi torturavano e mi seviziavano, in maniera tale da fargli sentire le mie urla strazianti. Dopo cinque mesi di lunga prigionia e sistematiche violenze subite , mio fratello gli fece pervenire 200 mila cfa (la moneta del posto) a fronte delle 300 mila richieste".


http://palermo.repubblica.it/cronaca/2017/03/18/news/torturava_e_violentava_migranti_in_libia_rischia_linciaggio_dalle_sue_vittime_a_lampedusa-160819522/

giovedì 9 aprile 2015

Mai dire regime. - Marco Travaglio.




Dice bene Concita De Gregorio: “Bisogna essere molto longevi, in questo Paese”. 

Molto longevi per avere giustizia almeno in EuropaMa anche per ricordare a chi non c’era, a chi ha dimenticato, a chi ha visto solo la tv tanti fatti gravissimi, e chiamarli con il loro nome.
Ora che l’ha messa nero su bianco la Corte di Strasburgo, molti scoprono che l’Italia ha conosciuto la tortura


Non nelle galere nazifasciste nel 1943-45Ma in una scuola di Genova, 14 anni fa, in piena “democrazia”

Negli stessi mesi l’Italia conosceva anche la censura. Ma era vietato parlare di regime e quei pochi che si azzardavano a farlo venivano scomunicati. Non solo dal regime, ma anche dalla stampa “indipendente”, e persino dalla cosiddetta opposizioneNon è acqua passata, perché con quella stagione nefasta non abbiamo mai fatto i conti. “Voltiamo pagina”, si diceTroppo comodo il revisionismo di opinionisti e intellettuali “di sinistra”, che confondono la “normalità” con l’amnesia.

E non s’accorgono che il berlusconismo non finirà con Berlusconi (ammesso che sia giunta la sua ora): finirà quando si chiameranno finalmente le cose con il loro nome (non solo a Strasburgo, ma anche in Italia), e il virus che ha contagiato tutto e tutti, a destra e a sinistra, sarà sradicato dalle nostre teste e viscere fino all’ultimo sintomo


Berlusconismo è “politica del fare” purchessia, leggi per favorire i pochi contro i molti, collusione fra arbitri e giocatori, disprezzo per la Costituzione camuffato da “riforme istituzionali”, Parlamento controllato da due o tre boss con legge elettorale ad hoc, insofferenza alle critiche della libera stampa, allergia a un’opposizione forte e radicale (l’unica possibile nelle vere democrazie), ostracismo ai controlli terzi (magistratura, informazione e opinione pubblica), orrore per la “piazza”, occupazione partitocratica della tv, trasformazione della stampa in megafono del potere, cupidigia di servilismo ai piedi dei potenti, impunità per la classe dirigente gabellata per “primato della politica”. 

Tutte tossine letali che tuttora ammorbano l’ItaliaI “fatti di Genova”, come pudicamente la vaselina della stampa di regime ha sempre chiamato le torture del G8 2001, non spuntarono dal nulla come un fungo raro

Furono la prova generale di un’operazione studiata a tavolino, e perfettamente riuscita, per abituarci alle maniere spicce e sfigurare i fondamentali della democrazia liberale e dello Stato di diritto. Chi nel 2001 non era nato o andava all’asilo non ha mai avuto la fortuna di vederli. Così non ne sente neppure la mancanza.

Montanelli l’aveva già capito il 17 marzo 2001, nel pieno delle polemiche sulla mia intervista al Satyricon di Luttazzi sui rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e la mafia: “Questa non è la destra, questo è il manganello”E così altri tre vegliardi Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini che raccolsero l’appello di Flores d’Arcais su Micromega contro B. “pericolo per la democrazia”Il 13 maggio Berlusconi non vinse, stravinse le elezioniPrimo atto: la mattanza di Genova. Rai e Mediaset censurarono le scene più crude, salvo il Tg5 di Mentana e il Tg3Un cineoperatore del Tg2 riuscì a riprendere 20 minuti di pestaggi ai manifestantiSi vedeva un gruppo di ragazzine che urlavano “Siamo delle Acli!”, mentre la polizia le massacrava di botteMa il filmato non fu trasmessoLo utilizzò un inviato del Tg1, Bruno Luverà, per un reportage che gli valse il premio Saint Vincent


Dieci giorni dopo anche La7, unica alternativa al monopolio televisivo, fu normalizzata col passaggio di Telecom a Tronchetti Provera, che subito smantellò il palinsesto già pronto con Lerner direttore del tg e i programmi di Fazio e dei Guzzanti. 

A settembre, dopo la strage delle Torri Gemelle, l’Italia entrò in guerra contro l’Afghanistan. Il 12 gennaio 2002 Borrelli aprì l’anno giudiziario col celebre “resistere, resistere, resistere”

Subito dopo partirono i girotondi. 

Intanto B. si pappava la Rai con un Cda di stretta osservanza e un dg, Agostino Saccà, che aveva appena dichiarato: “Voto Forza Italia con tutta la mia famiglia”. 

E Violante ricordava a B. le benemerenze del centrosinistra: “Nel ‘94 gli è stata data la garanzia piena che non gli sarebbero state toccate le tvLo sa lui e lo sa Gianni Letta”Il premier, da Sofia, ordinò alla sua Rai di cacciare Biagi, Santoro e Luttazzi. 

Detto, fattoIl 9 luglio il Cda bloccò pure la messa in onda del documentario Bella ciao di Freccero (appena rimpiazzato a Rai2 col leghista Marano), Marco Giusti e Roberto Torelli sulla macelleria di Genova, appena applaudito al Festival di Cannes, ma proibito in Italia

Poi, nell’estate 2004, i vertici Ds pensarono bene di invitare alla Festa nazionale dell’Unità in programma a Genova l’ex ministro dell’Interno Scajola, responsabile politico della repressione. 

Padellaro, condirettore dell’Unità, scrisse un editoriale dal titolo sarcastico: “I testimoni di Genova”: “È possibile che Scajola ci racconti finalmente chi diede l’ordine dei pestaggi al G8? No, il massimo che possiamo attenderci è qualche cautissima, genericissima, fumosissima apertura al dialogo destinata a evaporare con la fine dell’estate, quando riapriranno il Parlamento e Porta a Porta”

Rispose tal Paganelli, responsabile della Festa: “Appare perlomeno singolare la scelta dell’Unità (giornale) di dedicare all’Unità (festa) un editoriale di critica alla vigilia dell’apertura”. E Vannino Chiti: “La gente non vuole una contrapposizione frontale permanente”. Colombo e Padellaro, nella serata inaugurale della Festa, furono accolti da un lungo applauso della folla in piediPochi mesi dopo, fu cacciato ColomboPoi anche PadellaroChiamare regime il regime non portava buonoNemmeno a sinistra.

Il Fatto Quotidiano - Giovedì 9 aprile 2015