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giovedì 22 marzo 2018

Perché Franco Gabrielli sbaglia a difendere chi ha coperto i torturatori di Genova. - Giovanni Drogo


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Il sostituto procuratore di Genova Enrico Zucca accusa i vertici della Polizia di difendere chi coprì i torturatori del G8 di Genova, il capo della Polizia risponde che non ci sono torturatori nella Polizia e che le parole di Zucca sono oltraggiose. Gabrielli però dimentica troppe evidenze per potersi offendere.


«Chi ha coperto i nostri torturatori ora è al vertice della polizia, come possiamo chiedere all’Egitto di consegnarci i loro torturatori?» così aveva commentato il caso di Giulio Regeni il sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca. Il riferimento era evidentemente alla decisione di nominare Gilberto Caldarozzi ai vertici dell’Antimafia (e di promuovere a questore il vicequestore Adriano Lauro). La tesi è semplice: Caldarozzi è stato condannato a tre anni e otto mesi per falso (mai scontati) con sospensione per cinque anni dai pubblici uffici per aver collaborato alla creazione di false prove finalizzate ad accusare chi venne pestato dagli agenti alla scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001.
Genova nel 2001 ci fu tortura.
Ma che c’entra Regeni? Il parallellismo tra i torturatori di Regeni e le violenze compiute dalla polizia durante il G8 di Genova riguarda proprio la tortura. Per quello che è successo alla Diaz l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo per violazione delle norme sulla tortura. I giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo hanno condannato l’Italia per le torture perpetrate dalle forze dell’ordine nella scuola Diaz e le violenze commesse dagli ufficiali di polizia a Bolzanato. Ed è per questo che Zucca ha detto che «Noi violiamo le convenzioni è difficile farle rispettare ai Paesi non democratici». Secondo Zucca infatti «La rimozione del funzionario condannato è un obbligo convenzionale, non una scelta politica, e queste cose le ho dette e scritte anche in passato. Il Governo deve spiegare perché ha tenuto ai vertici operativi dei condannati. Fa parte dell’esecuzione di una sentenza».
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Nella sentenza la Cassazione scrisse che a Caldarozzi e gli altri condannati “hanno gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero”. Successivamente il Ministro dell’Interno Marco Minniti  ha nominato Caldarozzi Vice direttore tecnico operativo della Direzione Investigativa Antimafia. Sempre secondo la Cassazione l’ex capo del Servizio centrale operativo della polizia (SCO) si «è prestato a comportamenti illegali di copertura poliziesca propri dei peggiori regimi antidemocratici». Quando qualche mese fa esplose la polemica per la scelta di nominare Cadarozzi all’Antimafia i vertici della Polizia si giustificarono dicendo che non si trattava di una promozione e che non era stato possibile “procedere ad alcuna forma di destituzione”. La sentenza dice che il comportamento di Caldarozzi fu degno dei peggiori regimi, non è un mistero che in molti considerino l’Egitto un regime antidemocratico. Il parallelismo, con tutti i limiti del caso, è lecito.

Quando Gabrielli diceva che se fosse stato il capo della Polizia durante il G8 di Genova si sarebbe dimesso per il bene della Polizia.

Franco Gabrielli non ha gradito l’uscita di Zucca definendole “parole oltraggiose”: «mi risuonano ancora più oltraggiose le parole di chi non più tardi di ieri ha detto che ai vertici della Polizia ci sono dei torturatori». In realtà Zucca ha detto che ai vertici ci sono persone che “hanno coperto i torturatori” e la sentenza a carico di Caldarozzi parla chiaro. Ogni giorno – prosegue Gabrielli – «i nostri uomini e le nostre donne garantiscono serenità, sicurezza e tranquillità. Ed in nome di chi ha dato il sangue, di chi ha dato la vita, chiediamo rispetto. Gli arditi parallelismi e le infamanti accuse, qualificano soltanto chi li proferisce». Nel frattempo il procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio, ha avviato accertamenti preliminari sul sostituto procuratore generale di Genova. E il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha dichiarato che quella di Zucca «è stata una dichiarazione impegnativa con qualche parola inappropriata».

"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso" - Carlo Bonini
"Il G8 di Genova fu una catastrofe": Gabrielli e le responsabilità di quei giorni. "Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso"

Il capo della Polizia: "Un'infinità di persone subirono violenze che hanno segnato le loro vite. In questi 16 anni non si è riflettuto a sufficienza. E chiedere scusa a posteriori non è bastato".

ROMA - Si dice che non ci sia ferita, per quanto profonda, che il tempo non aiuti a cicatrizzare. Ma il tempo del G8 di Genova è come fosse rimasto ibernato a quei giorni di luglio di sedici anni fa. Lasciando che la ferita torni a sanguinare ogni volta che la cronaca, con la forza della proprietà transitiva, finisce con il riesumarne la memoria: il caso Cucchi, il caso Aldrovandi, il dibattito che ha accompagnato l'approvazione della legge sulla tortura.

La Diaz, Bolzaneto, la morte di Carlo Giuliani sono una scimmia assisa sulla cattiva coscienza del Parlamento, che sui fatti e sulle responsabilità di quei giorni rinunciò a indagare con i poteri della commissione di inchiesta in due successive legislature preferendo pavidamente "attendere" il corso della giustizia penale. Sono un fantasma che non ha mai smesso di abitare il secondo piano della palazzina del Dipartimento della Pubblica sicurezza, gli uffici del capo della Polizia. Dove, in quei giorni di luglio del 2001, era Gianni De Gennaro. E dove è oggi Franco Gabrielli.

"La nottata non è mai passata - dice - A Genova morì un ragazzo. Ed era la prima volta dopo gli anni della notte della Repubblica che si tornava ad essere uccisi in piazza. A Genova, un'infinità di persone, incolpevoli, subirono violenze fisiche e psicologiche che hanno segnato le loro vite. E se tutto questo, ancora oggi, è motivo di dolore, rancore, diffidenza, beh, allora vuol dire che, in questi sedici anni, la riflessione non è stata sufficiente. Né è stato sufficiente chiedere scusa a posteriori. Dopo dieci anni e dopo le sentenze di condanna definitive per la Diaz e Bolzaneto. Se infatti ciclicamente e invariabilmente si viene risucchiati a quei giorni, se il G8 di Genova è diventato un benchmark cui si è condannati a restare crocefissi, questo vuol dire non solo che non è stato messo un punto. Ma, soprattutto, che il momento di mettere questo punto è arrivato. Per non continuare a dover camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro".

Vuole metterlo lei "il punto"?
"Diciamo che vorrei provare a dare un contributo. Che, quantomeno, aiuti a creare le migliori condizioni perché questo diventi finalmente possibile".

Magari non è mai stato messo un punto, perché la storia, per diventare tale ed essere consegnata al passato, richiede una memoria condivisa e uno sguardo obiettivo. E il racconto del G8 di Genova non ha né l'una, né l'altro. Non trova?
"Spero non suoni ruffiano, ma il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari, ebbe a scrivere un qualche tempo fa che l'obiettività, in quanto tale, non esiste. Perché neanche una fotografia riesce ad essere testimone imparziale di un evento".

Dunque?
"Dunque, da capo della Polizia, la sola strada che posso percorrere, la sola obiettività che posso riconoscermi, è dichiarare senza ipocrisie cosa penso di ciò che è accaduto nel luglio del 2001 a Genova e di cosa è accaduto nei sedici anni che sono seguiti. Non fosse altro perché sono nella migliore condizione per farlo".

Perché?
"Perché sono libero".

Libero? Da cosa? Da chi?
"Nella vita non basta essere capaci. Spesso ci vuole fortuna. La mia fortuna di poliziotto è che al G8 di Genova non c'ero. Da dirigente della Digos di Roma, quale ero nel 2001, sarei dovuto essere lì. E dico di più. Sarei molto probabilmente finito nel cortile della scuola Diaz. Ma non andò così. L'Ucigos stabilì che io rimanessi a Roma per lavorare al dispositivo di sicurezza che doveva garantire la visita di Bush subito dopo il G8 di Genova. Questo significa che, oggi, non ho niente o nessuno da difendere. Che ho la stessa libertà, e spero che il paragone non suoni sproporzionato, che avvertii la mattina del 7 aprile 2009 quando da neonominato prefetto dell'Aquila mi trovai a gestire la catastrofe del terremoto. Avevo testa e sguardo limpido. Non avevo un passato che mi zavorrava".

E da uomo libero cosa vede dunque?
"Se dovessi dare un giudizio lapidario, direi che a impedire quella che lei definiva la "costruzione della memoria condivisa" è stata la rappresentazione abnorme e strumentale, spesso speculare e contrapposta, di quanto è accaduto. Le faccio due esempi, tra i molti che potrei fare. È falso - e sottolineo falso - che nell'accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata. La Polizia italiana non è stata perseguitata dal procuratore Enrico Zucca per motivi ideologici. Non solo perché non è vero. Ma perché i magistrati che si sono occupati nella fase delle indagini e in quella del giudizio di merito di quanto accaduto in quei giorni sono stati decine. E hanno lavorato con imparzialità. Del resto, cosa avrebbe dovuto pensare un pm che, di fronte ad un verbale firmato da 14 poliziotti, scopriva che ad essere identificabili erano solo in 13? Non poteva che pensare che non avesse di fronte funzionari dello Stato ma una consorteria. Detto questo, è altrettanto falso che Genova fu la prova generale di una nuova gestione politica dell'ordine pubblico, orientata alla nuova Italia del nascente berlusconismo. Ricordo a tutti, infatti, che Genova 2001 fu preceduta, in marzo, dai fatti di Napoli in piazza Plebiscito. Dalle retate negli ospedali alla ricerca dei feriti in piazza. Governava il centro-sinistra. Quindi, il problema, non era politico. Ma di una cultura dell'ordine pubblico che scommetteva sul "pattuglione". Una modalità di polizia transitata dalla stagione del centro-sinistra a quella del centro-destra".

CRONOLOGIA FATTI G8

Ma della gestione dell'ordine pubblico a Genova che giudizio dà?
"Fu semplicemente una catastrofe. E per una somma di fattori, se vogliamo dirla tutta. Innanzitutto per la scelta sciagurata da parte del vertice del Dipartimento di pubblica sicurezza di esautorare la struttura locale, la Questura di Genova, dalla gestione dell'ordine pubblico. Quindi, per la scelta infelice della città, che per struttura urbanistica rendeva tutto più complicato. E, da ultimo, perché si scommise sulla capacità dei "Disobbedienti" di Casarini e Agnoletto di poter in qualche modo governare e garantire per l'intera piazza. Capacità che dimostrarono purtroppo di non avere. Insomma, la dico in una battuta. A Genova saltò tutto. E saltò tutto da subito. Fino alla scelta esiziale dell'irruzione nella Diaz".

"La Macelleria messicana".
"Si ritenne, sciaguratamente, con la stessa logica cui prima facevo cenno, quella del "pattuglione", che il contrappeso alla devastazione di quei giorni potesse essere un significativo numero di arresti. Illudendosi, per giunta, che un'irruzione di quel genere, con quelle modalità, avrebbe garantito di acquisire anche "prove" per processare le responsabilità dei disordini di piazza. Peccato che il codice di procedura penale avrebbe reso quell'operazione, ancorché non fosse finita come è finita, carta straccia. Ma, soprattutto, peccato che i processi penali non abbiano potuto scrivere una parola decisiva. Né sulla Diaz, né su quanto accaduto complessivamente in quei giorni".

Perché?
"Perché, per sua natura, viva Dio, il processo penale accerta singoli fatti e gli attribuisce singole responsabilità. Al processo penale sfuggono quelle che a me piace definire responsabilità sistemiche. Con un effetto paradossale. Che i latini definivano "summum ius, summa inuria": "massima giustizia per una massima ingiustizia". Vale a dire, che per il G8 di Genova abbiamo assistito a condanne esemplari per la Diaz e a condanne modeste per Bolzaneto, dove l'assenza di una norma che configurasse il reato di tortura e l'improvviso evaporare della catena di comando e di responsabilità che aveva posto le premesse per cui una caserma del reparto mobile della polizia si trasformasse in un "garage Olimpo" ha fatto sì che oggi si continui a parlare di Diaz e pochi ricordino Bolzaneto. Dove, lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. Per altro, parlando di Bolzaneto, il destino è curioso. Quella caserma, molti anni fa, fu la mia prima destinazione da poliziotto".

Se capisco bene, lei sostiene che la dinamica processuale ha finito inevitabilmente per trasformare la ricerca delle responsabilità per i fatti di Genova in un'italianissima fiera del "capro espiatorio". Sono volati gli stracci, insomma.
"È così. Ma non lo dico - e lo ripeto a scanso di equivoci - per censurare quelle sentenze o il lavoro della magistratura inquirente che sono arrivati dove potevano arrivare e dove la fisiologia del processo penale gli ha consentito di arrivare. Lo dico perché, a proposito di responsabilità sistemiche, da capo della Polizia, penso sempre che quando in una piazza viene fatto un uso abnorme della forza da parte di un reparto mobile la responsabilità vada cercata non soltanto e non tanto a partire dal singolo poliziotto che ha abusato del suo manganello ma, al contrario, dal funzionario o dal dirigente che ha ordinato una carica che non andava ordinata. Ecco, se parliamo di responsabilità sistemiche e dunque vogliamo storicizzare finalmente il G8 di Genova, io non penso che il singolo agente o funzionario possano funzionare da fusibile del sistema. E che, dunque, in caso di corto circuito, si possa semplicemente sostituire quei fusibili che si sono bruciati e poi serenamente dire "andiamo avanti". Lo ripeto. Se vogliamo costruire una memoria condivisa su Genova, se vogliamo mettere un punto, va colmato lo spread fra responsabilità sistemica e responsabilità penale. Quello che ha fatto sì che alcuni abbiano pagato e altri no".

Magari facendo il nome del convitato di pietra di questa conversazione. Gianni De Gennaro, allora capo della Polizia.
"Non ho nessuna difficoltà a farlo, anche se ci lega un antico rapporto personale. E tuttavia con una premessa, che non è necessariamente una clausola di stile. È sempre complicato e soprattutto rischia di suonare supponente dire quello che qualcun altro avrebbe dovuto fare. Anche perché non sempre si conoscono il contesto e gli equilibri in cui determinate decisioni sono state prese. Detto questo, siccome non ho nessuna intenzione di sottrarmi, perché sono un uomo e un capo della Polizia libero, le dico che se io fossi stato Gianni De Gennaro mi sarei assunto le mie responsabilità senza se e senza ma. Mi sarei dimesso. Per il bene della Polizia. Perché ci sono dei momenti in cui è giusto che il vertice compia un gesto necessario a restituire la necessaria fiducia che un cittadino deve avere nell'istituzione cui è affidato in via esclusiva il monopolio legittimo della forza. E, contemporaneamente, a non far sentire le migliaia di donne e uomini poliziotto dei "fusibili" sacrificabili per la difesa di dinamiche e assetti interni all'apparato".

Quanto hanno contribuito l'arrocco di Gianni De Gennaro e le sue mancate dimissioni a quanto è accaduto negli anni successivi? A quel clima di omertà, di dissimulazione nel percorso di accertamento della verità sul G8, che ha allargato il solco tra la Polizia e una parte significativa dell'opinione pubblica?
"Direi in modo importante. E con effetti di lungo termine. Hanno finito con l'imprigionare il dibattito pubblico in un'irricevibile rappresentazione per cui il Paese sarebbe diviso tra un partito della Polizia e un partito dell'anti- Polizia. Facendo perdere di vista la verità. Che la Polizia italiana è sana. Che lo è oggi come lo era in quel luglio del 2001. E lo posso dire perché io sono cresciuto in questa Polizia. Ne sono figlio. Vede, la maledizione di Genova sta proprio qui. Quel che è accaduto dopo Genova, la mancata risposta alla ricerca delle responsabilità sistemiche ha insieme perpetuato il senso di oltraggio nell'opinione pubblica e alimentato le pulsioni che percorrono ogni apparato di Polizia, a qualsiasi latitudine. Il riflesso istintivo a rifiutare di farsi processare, a immaginarsi o peggio viversi come un "corpo separato". È un livello di "tossicità" assolutamente governabile, proprio di ogni polizia democratica e che, come ripeto in ogni occasione ai miei poliziotti, va sorvegliato. Continuamente. E che, proprio per questo, ha assoluto bisogno che questo perverso incantesimo durato sedici anni si spezzi. A maggior ragione alla vigilia di mesi in cui una parte di quei poliziotti che hanno scontato le loro condanne, penali o disciplinari, chiederanno di essere reintegrati e si consumerà l'iter del risarcimento dei danni alle vittime delle violenze del G8. A maggior ragione, aggiungo, per come io penso e immagino la Polizia che ho il privilegio di guidare".

Come la immagina?
"Una Polizia che non ha e non deve avere paura degli identificativi nei servizi di ordine pubblico, di una legge, buona o meno che sia, sulla tortura, dello scrutinio legittimo dell'opinione pubblica o di quello della magistratura. Una polizia che non deve vivere la mortificazione o lo stillicidio delle sentenze della Corte europea per i diritti dell'Uomo su quei fatti di sedici anni fa. Perché questa è la Polizia che ho conosciuto e che conosco. Io posso solo dire al Paese e alla mia gente, donne e uomini poliziotto, che del lavoro della Polizia sarò io il primo a rispondere. L'ho fatto in questi anni da direttore dell'Aisi, da prefetto dell'Aquila, da capo della Protezione civile e non vedo una sola ragione per non continuare a farlo. Anche perché non ci sarà una nuova Genova".

È una promessa?
"È un fatto. Perché questi sedici anni non sono passati inutilmente. Prima dicevo che la polizia del 2001 era una polizia democratica esattamente come lo è quella di oggi. Ma sono cambiate molte cose nelle nostre routine, nella formazione delle nostre donne e dei nostri uomini, nella gestione dell'ordine pubblico. Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c'è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano. Non per mettere una toppa quando il danno è fatto. Ecco perché dico che dobbiamo liberarci dalla maledizione di camminare in avanti con lo sguardo rivolto all'indietro. Consegniamo quel G8 di Genova alla Storia. Perché questo ci renderà tutti più liberi. E quando dico tutti, penso al Paese e alla Polizia che di questo Paese è figlia".

martedì 12 aprile 2016

Regeni a Londra lavorò per un’azienda d’intelligence. - Alessandra Rizzo




È stata fondata da un ex funzionario Usa implicato nel Watergate.

La storia di Giulio Regeni porta stranamente alla porta di un vecchio scandalo, quello di Nixon. Mentre viveva in Gran Bretagna, lo studente friulano aveva lavorato per un anno presso un’azienda d’intelligence fondata da un ex funzionario americano implicato nello scandalo Watergate. Oggi, i suoi ex colleghi e amici presso la compagnia, la Oxford Analytica, sono tra i promotori di una petizione che chiede al governo britannico di fare pressione sulle autorità egiziane che indagano sulla vicenda. «Giulio era un collega fantastico, socievole, divertente. Ci manca molto», ricorda Ram Mashru, altro giovane talento che con Giulio divideva la stanza presso la Oxford Analytica. «Era estremamente cauto nel condurre il suo lavoro – aggiunge - Certo, c’è sempre la possibilità che abbia attirato l’attenzione di qualche gruppo pericoloso, ma da quanto sappiamo Giulio non si comportava in maniera avventata o negligente».  

Oxford Analytica è un ulteriore tassello nella storia di Giulio, un altro pezzo dei dieci anni trascorsi dal ricercatore di Cambridge nel Regno Unito, e potrebbe, forse, fornire qualche dettaglio per spiegare la sua morte. Il gruppo analizza tendenze politiche ed economiche su scala globale per enti privati, agenzie e ben cinquanta governi, una specie di privatizzazione di altissimo livello della raccolta di intelligence. Ha uffici, oltre che a Oxford, a New York, Washington e Parigi, e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence”, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche. 


Dal settembre 2013 al settembre 2014, Giulio ha lavorato alla produzione del “Daily Brief”, una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d’elite. E’ uno dei prodotti di punta del gruppo, modellato sui briefing che Kissinger preparava per Nixon. Già, perché la storia del fondatore di Oxford Analytica, David Young, passa anche per uno dei capitoli più sinistri della storia USA. Young era, nella Casa Bianca di Nixon, tra i dirigenti dei cosiddetti “idraulici”, il gruppo che doveva “tappare” le fughe di notizie e di cui facevano parte anche G. Gordon Liddy e Howard Hunt, entrambi finiti dietro le sbarre per il Watergate. Dopo lo scandalo, Young lasciò l’America per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali ad Oxford (leggenda vuole che la sua tesi fosse tenuta sotto chiave perché conteneva informazioni riservate), e nel 1975 fondò la Oxford Analytica. Nel cui board figurano anche John Negroponte, ex direttore della United States Intelligence Community e Sir Colin McColl, ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese. Mashru spiega che i rapporti speciali del gruppo, che tipicamente comportano da uno a sei mesi di lavoro, restano confidenziali. Certamente l’azienda sta tenendo un basso profilo. Ha mandato un messaggio in forma privata alla famiglia di Giulio, e per il resto è «no comment».  

Da Cambridge si fa vivo il professore Glen Rangwala, con cui Regeni avrebbe dovuto collaborare per un corso non appena rientrato dall’Egitto. Rangwala smentisce l’ipotesi che dall’Università qualcuno possa aver passato i report del ragazzo agli 007: «Per nessun motivo al mondo gli accademici di Cambridge diffondono le ricerche degli studenti ai servizi segreti».  

I suoi ex colleghi e amici stanno tentando un’azione pubblica, con la petizione che chiede al governo britannico di assicurare una “credibile” indagine sulla morte di Giulio La petizione ha raccolto finora circa 4,500 firme, ma ce ne vogliono dieci mila per forzare una risposta del governo. Il quale, per ora tace. “L’indagine è nelle mani delle autorità egiziane”, dicono. 

CAIRO-ROMA: COME TAGLIARSI LE PALLE E VIVERE FELICI. - Fulvio Grimaldi

alsisis

“Poi gli uomini di Stato inventeranno basse bugie e daranno la colpa alla nazione sotto attacco e tutti saranno soddisfatti di queste falsità che placano la coscienza e le ripeteranno diligentemente e rifiuteranno di prendere in considerazione qualsiasi refutazione. E così si convinceranno un po’ per volta che l’aggressione è giusta e ringrazieranno il Signore per il buon sonno di cui godono grazie a questo processo di grottesco auto-inganno.” (Mark Twain)

E così, dopo la Jugoslavia delle nostre più belle vacanze e di una speranza di non finire mangiati vivi dal Moloch finanzcapitalista e dalle sue guerre infinite; dopo l’Iraq che ci comprava le navi, che faceva lavorare alla grande la Saipem e ci forniva ottimo petrolio; dopo la Libia che ci accendeva i fornelli, le lampadine, i caloriferi, ci rendeva amica l’Africa, e salvava dalla bancarotta le nostre migliori aziende; dopo la Siria, di cui eravamo il terzo partner commerciale; dopo l’Iran per ora non ancora ricuperato al ruolo di nostro secondo fornitore di idrocarburi e primo acquirente di prodotti, ci siamo giocati anche l’Egitto insieme al quale avremmo dato scacco matto a tutti i concorrenti mediterranei ed europei. E avremmo evitato di impelagarci in una guerra in Libia.

A Parigi, Londra, Washington, Tel Aviv, Ankara, dove fino a ieri si infilavano spilli nella coppia di pupazzetti Al Sisi-Renzi e se ne bruciavano le effigi con le formule di rito, in tutti i comandi Nato, dal comandante in capo all’ultimo maresciallo di fureria, da quando si è saputo dell’esito dell’incontro inquirenti egiziani-inquirenti romani e del ritiro del nostro ambasciatore al Cairo, sono in corso baccanali a base di caviale e champagne. Il che non impedisce che si elevino inni ai Fratelli Musulmani, ai loro operativi bombaroli e alla liberazione dell’uomo nel nome della Sharìa. 
Prossime mosse: Egitto fuori dalle palle in Libia, sanzioni UE e poi ONU, rivoluzione colorata, attacco finale all’ultimo Stato nazionale arabo non normalizzato da squartare. Idrocarburi e Canale affidati a chi di dovere. Italia con i pantaloni alle caviglie e il tatuaggio “Enrico Mattei” sradicato. Tutto questo sempre che Al Sisi non si ravveda tempestivamente, si disponga prontamente a mettere in quarantena l'ENI rispetto al giacimento Zhor e non la sostituisca con la British Petroleum (BP), che del resto è già sul posto ed ha già incominciato a firmare contratti con il Cairo.

Nuova vita al Fratello Morsi

Nella sua cella, Mohamed Morsi si affaccia alle sbarre e annusa, insieme allo stimolante odor di tritolo che i suoi adepti vanno spargendo per Sinai ed Egitto, tutta un’arietta fresca e benefica in arrivo da oltremare. Un’arietta che sembra annunciargli una nuova primavera islamica, quella che aveva rallegrato il paese e i suoi sponsor regionali e intercontinentali quando il 13% di un popolo storicamente laico gli aveva consentito di applicare la sharìa a volenti e nolenti, spazzare via le sinistre laiche oppositrici, incartare le donne, bruciare le chiese cristiane e sparare sugli scioperanti. 
Fino a quando non gli arrivò tra capo e collo un day after da 20 milioni di egiziani che firmarono la sua detronazione, si strapparono il velo, mandarono a farsi fottere gli sponsor del Qatar ed euro-atlantici e decisero che un militare al governo era meglio di un fanatico baciapile islamista a cui della nazione Egitto, di faraoni, Tolomei, Nasser e riscatto socialista e antimperialista arabo non era mai fregato niente perché in testa aveva soltanto la brodaglia dell’Umma, buona per tutti, transnazionale come le corporation. Quella che i suoi padrini, un po’ con le buone, Fratelli Musulmani in jalabija, un po’ con le cattive, jihadisti in mimetica, avevano programmato come base culturale per le loro rinnovate scorrerie neocoloniali.

Ma come si permette questo Al Sisi
Per un po’ questo Abdel Fatah Al Sisi, per quanto sospetto per i suoi riferimenti a Nasser, e alla rinascita araba, i suoi giri di valzer con Putin, lo siamo stati a guardare. Vediamo che succede. Hai visto mai che ci fa rivivere i fasti del nostro vecchio bastardo Mubaraq. Intanto  se la vedesse con i Fratelli metamorfizzati in califfi e con i loro quotidiani eccidi di poliziotti e civili dal Mar Rosso alla diga di Assuan. 
Ci si può sempre mettere con chi vince, purchè bastardo nostro. Ma, presto, il generale aveva incominciato a uscire dal seminato, ad alzare un po’ troppo la testa, a far ricomparire un Egitto protagonista geostrategico in Africa e Medioriente, quanto e più dei fidati clientes del Golfo, fastidiosamente laico, attore nordafricano e mediorientale, capace di far ombra a Israele e che twittava con Teheran. E allora c’eravamo dati da fare per cosa, annientando  grossi stati arabi laici come Iraq, Libia, Siria, Yemen?  Cos’era questa fregola di raddoppiare il Canale di Suez per aumentare le entrate e affrontare la crisi economica? Quale consulente di Wall Street o dell’FMI glielo aveva detto? Come si permetteva, assieme alla solita impertinente ENI, di scoprire e sfruttare il più grande giacimento di gas del Mediterraneo? Quello che al tempo stesso toglieva il primato energetico a Israele e Turchia, con il loro di giacimenti di gas marino e con i loro barili di petrolio rubato in Iraq e Siria da curdi e Isis. 850 miliardi di metri cubi di gas che ne potevano annullare il debito e, quindi, la dipendenza da FMI e BM. Senza che né Total, né Shell, né Chevron, né Exxon glielo avessero permesso.

Toglietemi tutto, ma non la Libia!
Ma il vaso già tracimante di molte gocce se ne uscì in getto raggelante nel momento in cui l’Egitto di Al Sisi prospettò una soluzione interna, cioè inter-araba, al caos creativo provocato in Libia dagli specialisti occidentali del regime change. Con un ulteriore vantaggio per l’Italia che intravvedeva la possibilità di risparmiarsi la grottesca spedizione coloniale dei 5000 armigeri della Pinotti, disapprovata dallì’opinione pubblica, ma per la quale Renzi soffriva il fiato sul collo degli americani. 
E non solo Al Sisi la prospettò, ma si mise ad attuarla collaborando con quel governo libico di Tobruk che la “comunità internazionale” aveva fatto il madornale errore di riconoscere perché legittimato da un minimo di procedure democratiche. Oltrechè dalla sua laicità, che pur si doveva fingere di sostenere. Ma quando, con l’aiuto dell’Egitto, a dispetto della costernazione occidentale, il generale ex-gheddafiano Khalifa Haftar riuscì a cacciare gli islamisti da Bengasi, minacciava di sventare il consolidato progetto di tripartizione della Libia, di mettere in difficoltà il mercenariato Isis, fatto arrivare apposta dalla Turchia per giustificare il nuovo intervento salvifico Nato, e di esautorare del tutto la carta islamista di riserva installata a Tripoli, la misura si colmava e accadevano alcune cose.
A precipizio partirono per la Libia, forze speciali Nato. 
Messi all’angolo dall’Egitto che resta, bene o male, lo Stato più in grado di determinare i rapporti di forza nella regione, e ora di più grazie al nuovo potere energetico, i turchi accelerarono l’invio di traghetti pieni di tagliagole, gli attentati terroristici in Egitto divennero frenetici e presero a incidere pesantemente sulla seconda voce della sua economia, il turismo (pensate al volo russo abbattuto), e in Tripolitania entrarono in fibrillazione il regime islamista e le varie bande terroristiche più o meno collegate. E successe Sabratha e i quattro ostaggi italiani di cui due fatti ammazzare, due riconsegnati vivi e due corpi su cui traccheggiare per finalizzare la trattativa. Avvertimento non solo all’Italia. Tanto è vero che, da lì a poco, comparve all’orizzonte il gommone con sopra Fayez al Serraj, bottegaio promosso capo di governo  da un ONU ligia ai dettami di chi conta (Usa, Nato, Turchia, Israele, Golfo). 
Un po’ di melina lì per lì, ma poi tutto un accorrere sotto le bandiere di colui che, per conto di chi conta, avrebbe finalmente dato legittimità alla richiesta di intervento militare occidentale in Libia. Con tanti saluti ad Haftar e alla soluzione arabo-egiziana che, per una volta nei secoli, non contemplava il bastone di maresciallo in mano a un Graziani, o a un qualsiasi interferente dell’eterna banda coloniale.

Se non ci fosse stato Regeni, se lo sarebbero dovuto inventare
Ed è in questo frangente che capita l’accidente, perfettamente a fagiolo, tanto da risultare a ogni evidenza pianificato, il ragazzo Regeni. Tutti a giurare sulle sue integerrime qualità di onesto e brillante ricercatore, bravo scolaro, ottimo studente, figliolo esemplare, sodale di sindacati indipendenti. Ma ancora oggi, né una madre che si sente in diritto di accomunare, novella giudice Jackson di Norimberga, nella bruttissima sorte del figlio un po’ tutti i giovani egiziani, né le cavallette mediatiche calate sul terreno per fare piazza pulita di ogni dubbio rispetto alla colpa di Al Sisi o, quanto meno del sistema da lui pinochettianamente governato, ha scoperto nel curriculum minuto per minuto di Regeni un dato biografico, etico e politico, in controtendenza rispetto all’immagine consacrata. Trattasi dell’annata dal giovane recentemente impiegata al servizio di Oxford Analytica, la società privata di spionaggio diretta da un megaspione e un serial killer, specialisti entrambi di False Flag: l’ex-capo dell’intelligence britannica, Sir Colin McColl, e John Negroponte, inventore e gestore di squadroni della morte in Centroamerica e Iraq, uno che sulle mani ha il sangue di qualche centinaio di migliaia di innocenti ammazzati.

Multinazionale degli affari sporchi, ha uffici a Oxford, New York, Washington e Parigi e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche". Dal settembre 2013 al settembre 2014, Regeni ha lavorato alla produzione del daily brief, "una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d'elite". Il fondatore del gruppo è David Young, uno dei dirigenti degli "idraulici" finiti dietro le sbarre per il Watergate..Bella gente, insomma, integra.


Al di sopra di ogni sospetto. Tanto che, uscite queste notizie su Il Giornale e mai smentite, nessun ricercatore, indagatore, commentatore, analista, esperto, biografo di Regeni, se ne è mai interessato. Che rilievo potrebbe mai avere il fatto che il ragazzo fatto ammazzare dall’immondo regime egiziano sia stato collaboratore di un’agenzia di spionaggio, abbia scritto spiate a vantaggio di “clienti d’élite”, agli ordini e su mandato di un serialkiller amerikano, di un ex-capo spione di Sua Maestà e di un delinquente condannato per il complotto del Watergate?

Sono settimane che ci stressano a reti e destre e pseudo sinistre unificate sul povero ragazzo trucidato dagli infami del Cairo. Perorazioni, anatemi, invenzioni fantasmagoriche di dati e fatti, illazioni gonfiate a certezze ontologiche, latrati per chiedere giustizia e che trasudano una protervia razzista da far invidia agli Uebermenschen nazisti o sionisti. Al  confronto l’accanimento sugli assassini di Calipari, punito per aver liberato la Sgrena ma, soprattutto, per aver scoperto chi davvero in Iraq rapiva giornalisti scomodi, o quello sui trogloditi che si divertivano sul Cermis a trinciare cavi di funivia e fare stragi, o quello sulle punizioni da infliggere - e sulle oscene grazie napolitanesche e mattarelliane concesse - ai rapitori Cia di Abu Omar, è stata un timido sussurro, un discretoflautus vocis. Vi torna la simmetria? E’ che, una volta, dall’altra parte c’era un Al Sisi qualsiasi, un parvenu del Terzo mondo che si permette di pretendere trattamenti alla pari; l’altra volta invece, il padrone. Il quale detta la musica in entrambi i casi.

Taffazzi, eroe nazionale

Presuntuosi come solo i cretini, noi che abbiamo alle spalle una palude in cui sono scomparsi più misteri di quanti siano potuti accadere in Egitto da Cleopatra in qua, dall’Egitto pretendiamo che ci fornisca un colpevole certo e inconfutabile. Che in ogni caso deve portare ad Al Sisi. Presuntuosi e cretini, sorvoliamo su un elemento logico che è tanto granitico quanto è di carta velina l’ossimoro congettura certa, o probabile certezza, nel quale si pavoneggiano i nostri inquirenti da strapazzo. Logica paradossale di un regime che rapisce, tortura e fa fuori un soggetto sgradito, in grado di compromettere non solo i rapporti con un grosso partner politico e commerciale, ma addirittura di minare le basi dello Stato, e poi lo fa ritrovare nel fosso in modo che stormi di beccamorti mediatici se ne cibino e poi defechino sul governo. Sarebbe un regime più imbecille e taffazziano di quello romano che dai Fratelli Musulmani e loro mandanti (magari londinesi) si è fatto fregare un bottino economico che gli avrebbe permesso di rinunciare, alla faccia di Bruxelles, a ogni flessibilità di bilancio.

Entra in campo il rivoluzionario civile. Nientemeno
Riflessione che potrebbe spuntare anche tra i neuroni di un Antonio Ingroia, non fosse che quei neuroni sono annegati in un vortice di livore come dal bravo PM della trattativa Stato-Mafia non ci si sarebbe aspettato. Con ben tre interventi sul FQ, di una virulenza da tifoso atalantino e di un nonsense giuridico che hanno sconcertato perfino colleghi magistrati come Spataro e Tinti, Ingroia ha cercato di risorgere come araba fenice dalla polvere del suo insano progetto politico, rampognando l’universo mondo per non aver ancora fatto a pezzi Al Sisi. 
Dimentico anche solo della prima lezione di giurisprudenza, ha ipotizzato che inquirenti italiani vadano, loro, a condurre l’inchiesta  in Egitto, sbattendosene della sovranità altrui e, in mancanza, che ci pensassero le Nazioni Unite (magari spedendo i caschi blu?), o il Tribunale Penale dell’Aja. Già, proprio quello del famigerato procuratore Ocampo che, in tutto il suo mandato, ha mandato sotto processo solo imputati di pelle scura, sorvolando sui Blair, Bush, segretari Nato vari, golpisti nazisti e compagnia del genere. Al tempo della creatura ingroiana affetta da nanismo, “Rivoluzione civile”, m’era scappato qualche dubbio sulla sincerità del progetto, che non sembrava puntare ad altro che a sgambettare la corsa in avanti dei 5 Stelle. Ora le cannonate ad Al Sisi, completamente prive di razionalità giuridica, o sono lo sfogo nevrotico di uno che ha sbroccato, o sono peggio.

Agli inquirenti egiziani hanno rimproverato di non aver portato sufficienti tabulati, video, celle telefoniche. Chissà se costoro abbiano fatto presente ai loro colleghi romani di essere ancora in attesa di esaminare l’elemento principale di tutta l’inchiesta: il computer di Regeni. Computer che i suoi famigliari hanno sottratto agli inquirenti legittimi  portandoselo via dall’abitazione del ragazzo al Cairo. Ma, guardate, qui è tutto un gioco degli specchi, un ciurlare nel manico, la recita di un copione scritto dal solito regista. Per i nostri inquirenti, per la muta di ululanti che gli sta alle calcagna, per la lobby sion-atlantica-Fratellanza Musulmana, gli egiziani sarebbero stati credibili solo se avessero portato la foto di Al Sisi che strappa le unghie a Regeni. 


Ronzino di razza, il manifesto
Il “manifesto”, per fortuna sempre più irrilevante e umoristicamente tenuto in vita dalla combinazione tra il titoletto “quotidiano comunista” e i paginoni pubblicitari dell’ENI (in simultanea con le scelleratezze ENI in Basilicata), ENEL, Telecom e altri malfattori seriali e magari anche dai ripetuti soffietti a Mario Draghi e dalla coltivazione di mortaretti di distrazione di massa come SEL o Tsipras, è il ronzino che tira la carretta degli attrezzi. Agli incendiari delle guerre di spartizione degli Stati nazionali fornisce la benzina dei diritti umani, in ispecie GLBT, il supporto alla satanizzazione di ogni leader indigeribile per l’Occidente e l’avallo a ogni False Flag, anche la più sbrindellata. 
Spiace constatare come un Michele Giorgio, puntuale e inconfutabile su ogni cosa israelo-palestiniese, appena supera, anche solo con lo sguardo, i confini del suo campo, la faccia abbondantemente fuori dal vaso. Succede con l’Egitto, come era successo con la Libia. Obnubilazione da diritto-umanesimo alla Kipling.

Pensate che, nei suoi inserti di spocchia culturale a guida lobby, il quotidiano cripto-Nato è stato capace di inneggiare a Charlie Hebdo prendendo a pretesto una raccapricciante mostra delle peggiori copertine di questa pubblicazione-bazooka del nazi-sion-imperialismo, punta di lancia pseudo-satirica e autenticamente necrofaga dello “scontro di civiltà”.

Dove la ributtante rivista rappresenta il culto della prima parte della definizione e la negazione della seconda. La mostra è accompagnata da un libro-spot con introduzione, indovinate di chi? Ma di Erri De Luca, di chi sennò? Lo stesso De Luca che avevamo visto dare l’imprimatur ai manifestanti detti pro-Regeni, pretoriani a chiacchiere dello scontro di civiltà. I recensori della turpe impresa hanno avuto il coraggio di mettere sullo stesso piano della “satira anti-oscurantista” le penne-killer di Charlie Hebdo e Momos, la dea greca dello scherno e della satira, amica di Dionisio. Come paragonare una vedova nera a un uccello del paradiso.
Mentre le orde di unni mediatici si scaraventavano sull’Egitto di Al Sisi, per le pessime ragioni di cui sopra, inanellando nefandezza immaginaria e speculativa a nefandezza,  un silenzio complice sta avvolgendo nell’oblìo la più terrificante ondata di terrorismo che un paese non in guerra abbia conosciuto.

Quanto il mercenariato imperiale combina sporadicamente in Occidente, ultimamente in Francia e in Belgio, è robetta rispetto agli ininterrotti massacri con cui i Fratelli musulmani, travestiti da Isis e affini, uccidono migliaia di cittadini e, insieme, la sicurezza economica di 80 milioni di cittadini. Un armageddon di cui si tace.

Anzi, delle misure di contrasto e repressione che il governo è costretto a prendere in difesa della società, contro questo terrorismo senza precedenti e senza confronti, si nega la causa e le si attribuiscono a una presunta guerra del regime alla propria popolazione.

Se è vero, come è vero, che Isis e Al Qaida sono le forze armate di un imperialismo che non vuole scendere in campo in prima persona, oppure che deve presentare all’opinione pubblica una ragione per giustificare la sua discesa in campo in prima persona, è altrettanto vero che a pieno titolo sono Isis e Al Qaida anche coloro che producono un’informazione come quella che si sta occupando dell’Egitto. Consapevoli o inconsapevoli, sono terroristi quanto quelli.


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