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venerdì 30 agosto 2024

Kursk, Londra getta la maschera.

 

La Gran Bretagna esce allo scoperto e rivela che il tentativo di invasione a Kursk è stato attuato sotto la sua spinta, con la sua supervisione e con le sue armi. Il titolo apparso sul London Times e su vari altri tabloid non lascia spazio ad equivoci:

” L’invasione britannica di Kursk si ritorce contro?”.
Ora che i carri armati inglesi sono bruciati, che le loro risorse EW, ancora segrete, sono state surclassate dai russi, che i commando dopo aver fatto strage di civili, si nascondono tra le foreste, viene fuori che tutto è stato frutto degli sforzi del leader laburista Starmer per costringere l’Occidente a un’azione aperta contro la Russia.
Un esperto di difesa ha confermato al Times questa realtà sia pure in quel terribile modo involuto tipico britannico: “ora sembra che i britannici siano andati troppo avanti rispetto ai loro alleati della Nato e questo si rivela controproducente”.
Questa analisi sembra corretta perché ci sono ampie indicazioni che l’ultimo tentativo di Londra di aumentare le tensioni e trascinare gli Stati Uniti e l’Europa sempre più in profondità nel pantano della guerra per procura, sta ottenendo il risultato contrario. In effetti, pare che Washington ne abbia avuto abbastanza delle escalation di Londra.
In ripetute conferenze stampa e briefing con i media dal 6 agosto in poi, i funzionari statunitensi hanno preso fermamente le distanze dall’incursione di Kursk, negando qualsiasi coinvolgimento nella sua pianificazione o esecuzione, o addirittura sostenendo di non essere stati preavvertiti da Kiev.
La rivista di Empire House Foreign Policy ha riferito che l’incursione dell’Ucraina ha colto di sorpresa il Pentagono, il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca.
Naturalmente si tratta di balle, ma proprio per questo la presa di distanza appare più netta.
La folle idea di raggiungere rapidamente Kursk, di impadronirsi
della centrale nucleare per poi costringere la Russia a trattare sui territori già conquistati, portava tutte le stimmate del pensiero militare britannico, un misto di dilettantismo strategico, ignoranza della realtà, deliri di grandezza e mancanza di qualsiasi esperienza nella guerra moderna.
Andando indietro nella storia recente, il Regno Unito non ha compiuto nessuna impresa degna di nota se non operazioni di falsa bandiera, uccisioni di civili, rapimenti e altre cose grazie alle quali i vertici militari britannici appiccicano lettere e mostrine ai loro altisonanti titoli per far bella figura a Corte dove una monarchia da depliant turistico esegue gli ordini dei Rothschild e compari. Tutti sanno che l’unica azione di guerra, quella delle Falkland, si sarebbe trasformata in un disastro se non fosse stato per l’intervento sottobanco della Casa Bianca che decise di minacciare il regime argentino con la prospettiva di togliere la moratoria sull’uso delle armi nucleari.
Solo così si evitò che la flottiglia inviata da Londra rimanesse impantanata attorno alle isole e con le truppe ospitate in due vulnerabili transatlantici. D’altra parte Reagan non poteva assistere al naufragio principale, ovvero quello della Thatcher che sarebbe avvenuto nonostante l’impreparazione argentina e il fatto che la giunta militare avesse scatenato il conflitto solo per motivi di consenso interno.
Tutto questo insieme di narcisismo ex imperiale e impreparazione al mondo reale ha fatto sì che l’impresa di Kursk si sia esaurita contro tre reggimenti di riserva formati da reclute e volontari territoriali russi di mezza età che sono riusciti a ritardare l’invasione prima dell’arrivo di truppe da combattimento.
La carne da macello ucraina e i mercenari impiegati in gran numero, sono bastati per fucilare civili e incendiare case, ma non per dare se non altro una parvenza di vittoria alla brillante operazione concepita dai vari Sir in divisa.
E come se non bastasse ora il fronte del Donbass sta crollando mentre la Russia non vuole più sapere di trattare con questi assassini di civili. Per giunta, come dimostra la tabella a sinistra, la Gran Bretagna si è praticamente disarmata per fare da rabbiosa mascotte della guerra.
Ciò che resta da narrare è la strage prodotta da queste conventicole di sua Maestà
che si sono distinte nel sabotare qualsiasi iniziativa di pace e nell’incitare ad atti terroristici.
Non è un bell’epitaffio per il futuro e visibile naufragio.

sabato 26 settembre 2020

Tutti gli errori di Madrid e Londra “Ritardi e sbagli nei tracciamenti”. - Marco Pasciuti


Lo studio sui Paesi più in difficoltà. The Lancet. L’analisi. Tra le carenze di Spagna e Regno Unito la rivista indica l’assenza di criteri pubblici per le restrizioni.

Ora assistono a una nuova impennata delle curve epidemiche e stanno procedendo a nuovi lockdown, ma entrambe hanno “avuto problemi” nel mettere in piedi un efficace sistema di contact tracing. Hanno revocato e ripristinato le restrizioni “senza seguire criteri espliciti e pubblici”. Non è chiaro, poi, se nel farlo Londra utilizzi i propri “sistemi di allerta”. Madrid, invece, ha usato gli indicatori scelti “senza alcuna ponderazione esplicita nel processo decisionale”. Uno studio pubblicato su The Lancet ha passato in rassegna i modelli di risposta all’epidemia di Covid-19 utilizzati in 9 Paesi. Nel quadro che ne emerge Regno Unito e Spagna hanno commesso diversi errori.

Lo studio, pubblicato su una tra le più importanti riviste scientifiche a livello internazionale, ha analizzato la situazione di 5 Stati nella regione Asia-Pacifico (Sud Corea, Hong Kong, Giappone, Nuova Zelanda e Singapore) e 4 in Europa (Germania, Norvegia, Spagna e Regno Unito), questi ultimi in un contesto in cui “più di un decennio di misure di austerità hanno indebolito sistemi sanitari e protezione sociale”: esperti provenienti da ognuno di questi Stati hanno analizzato la risposta data dai rispettivi governi al virus e le loro scelte in materia di allentamento delle restrizioni. Allentamento che sarebbe dovuto avvenire in base a 5 prerequisiti: “Conoscenza dello stato dell’infezione”, “grado di coinvolgimento della comunità”, “capacità del sistema di salute pubblica”, “capacità del sistema sanitario” e “controlli alle frontiere”.

Il primo problema è comune: sia a Londra che a Madrid “i politici, avvalendosi della consulenza di esperti, decidono quando e quali restrizioni ridurre, ma senza criteri espliciti e pubblici”. Il governo Sanchez (che ieri ha avuto altri 12.272 contagi a 120 morti) in particolare “ha pubblicato un pannello di indicatori, inclusi parametri epidemiologici, di mobilità, sociali ed economici, senza alcuna ponderazione esplicita nel processo decisionale”. Senza cioè spiegare quale peso abbia ognuno di questi nelle decisioni. La mancanza di coordinamento è stato, invece, uno dei principali errori di Boris Johnson, che ieri ha dovuto registrare un nuovo record di contagi, 6.874 contro i 6.634 di giovedì: Inghilterra, Galles, Nord Irlanda e Scozia, “le 4 nazioni del Regno si sono allineate nella loro strategia fino a metà marzo, quando ognuna si è discostata nei suoi approcci specifici ed è uscita dal blocco”. Rompendo l’uniformità di misure che avrebbero potuto limitare la circolazione del SarsCov2 nel Paese. Esempio: in Inghilterra, “la distanza consigliata tra le persone è di almeno un metro, mentre in altre aree di due”. Quindi la comunicazione “è stata confusa e incoerente”.

Come le decisioni: a partire da giugno, sottolinea lo studio, il Regno ha adottato il modello della “bolla sociale” introdotto dalla Nuova Zelanda, che “consente a un gruppo di persone di avere uno stretto contatto fisico tra loro e praticare il distanziamento con soggetti esterni”. Il punto è che “a quelle che erano nate come bolle domestiche bloccate è stato lentamente consentito di estendersi a piccoli gruppi di familiari e amici, e poi di fondersi con altre bolle”. Tutte e 4 le nazioni britanniche “hanno avviato una simile strategia”. In questo momento, poi, in cui la Gran Bretagna sta “revocando o ripristinando le restrizioni sulla base di soglie epidemiologiche” (da ieri sono 16 milioni su 66 i britannici sottoposti a un lockdown bis localizzato) lo fa in maniera confusa: sebbene questi tre Paesi “dispongano anche di sistemi a livello di allerta, il collegamento a particolari contromisure non è stato altrettanto esplicito e non è chiaro se il sistema del Regno Unito venga effettivamente utilizzato”.

Il problema in diversi casi è a monte: “Sembra intuitivo che uno Stato non debba aprirsi finché non dispone di un sistema di sorveglianza di alta qualità” che opera attraverso le fasi di “ricerca, test, tracciamento, isolamento e supporto”. “Questo principio è stato spesso ignorato” e anche sotto questo punto di vista Londra e Madrid “si sono mosse con fatica”. La seconda, a corto di medici di base e personale nei distretti sanitari, ha dovuto far ricorso ai militari. Problemi anche nel proteggere i sanitari per la carenza di guanti e mascherine: in Spagna “il personale medico ha rappresentato oltre il 10% dei casi totali di Covid-19”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/26/tutti-gli-errori-di-madrid-e-londra-ritardi-e-sbagli-nei-tracciamenti/5944571/

venerdì 12 aprile 2019

E ora?

E ora?

Dopo aver trascorso 2.487 giorni nell'ambasciata dell'Ecuador a LondraJulian Assange è stato arrestato. Revocato il suo asilo politico, gli agenti britannici hanno prelevato il fondatore di Wikileaks per portarlo alla stazione centrale di Scotland Yard. Il 47enne rischia ora l'estradizione negli Stati Uniti, dove potrebbe essere condannato a 5 anni di carcere. Portato fuori di peso dall'edificio e spinto dentro un furgone mentre gridava "il Regno Unito deve resistere", capelli e barba lunga, è apparso invecchiato e provato. 

Assange, cittadino australiano, sta ricevendo l'assistenza consolare ma non riceverà alcun "trattamento speciale", ha detto il primo ministro Scott Morrison. Il ministro degli Affari esteri australiano, Marise Payne, si legge sul Guardian, ha fatto sapere che i funzionari sono stati informati che la Gran Bretagna non accetterebbe l'estradizione se un individuo dovesse affrontare la pena di morte a cui "l'Australia è completamente contraria.

Come hanno spiegato i legali di Assange, l'arresto è avvenuto "in relazione a una richiesta di estradizione degli Stati Uniti" che dal canto loro hanno confermato di aver chiesto al Regno Unito l'estradizione di Julian Assange "in relazione all'accusa federale di aver partecipato ad un complotto per accesso abusivo in una rete informatica". Secondo quanto si legge negli atti dei procuratori federali, datati 8 marzo ma finora secretati, il 47enne è accusato di aver "aiutato Chelsea Manning, ex analista dell'intelligence militare, ad entrare nei computer protetti da password del dipartimento della Difesa collegati al Siprnet, la rete del governo americano usata per documenti e comunicazioni classificate". Per Assange è dunque stata richiesta l'estradizione per reati informatici e non per spionaggio. Nell'atto di accusa si sottolinea che Assange ha avuto un ruolo "nella più ampia sottrazione di materiale classificato della storia degli Stati Uniti".

"Deve rispondere per quello che ha fatto", ha commentato l'ex candidata presidenziale democratica degli Stati Uniti Hillary Clinton. Il sito web fondato dal giornalista australiano ha pubblicato le email dal Partito democratico, hackerato dal governo russo, che sono state dannose per la Clinton durante le elezioni presidenziali del 2016. "È chiaro dall'accusa che è venuta fuori, che l'arresto riguarda l'assistenza all'hackeraggio di un computer militare per rubare informazioni dal governo degli Stati Uniti", ha detto Clinton. "Aspetterò e vedrò cosa succederà, ma deve rispondere per quello che ha fatto", ha sottolineato l'ex segretario di Stato.
Nell'atto di accusa dei procuratori distrettuali di Alexandria, Virginia - il tribunale più vicino al Pentagono - si afferma che Assange ha "incoraggiato in modo attivo" Manning a consegnare materiale top secret. E quando l'analista dei servizi segreti militari gli disse di aver consegnato a Wikileaks tutti i file che aveva rubato, Assange avrebbe risposto: "Occhi curiosi non rimangono mai a secco nella mia esperienza". Una ricostruzione in contrasto con quanto affermato da Manning che durante il suo processo disse di aver inviato di sua iniziativa i documenti rubati a Wikileaks e che nessuno del sito di Assange le aveva mai chiesto di dare altre informazioni. Ma i procuratori presentarono copie di conversazioni in chat tra Manning ed Assange sostenendo quindi che i due avevano collaborato.
"Non so nulla di Wikileaks, non è una cosa che mi interessa e so che è qualcosa che ha a che fare con Julian Assange", è stata la risposta di Donald Trump ai giornalisti nello Studio Ovale che gli chiedevano se amasse ancora Wikileaks. Trump twittò 'I love Wikileaks' quando, nell'ottobre del 2016, il sito pubblicò le mail compromettenti su Hillary Clinton. "Vedremo quello che succede con Assange, non so molto di lui, non è la questione della mia vita" ha detto ancora il presidente Usa dimostrando disinteresse per la vicenda dell'estradizione richiesta dagli Usa che, ha sottolineato, è una questione su cui dovrà decidere l'attorney general William Barr.


L'arresto ha provocato un acceso dibattito. Da una parte c'è il governo che difende l'arresto prova che "nessuno è al di sopra della legge". Comparso in un tribunale di Londra, il 47enne australiano è stato dichiarato colpevole di aver infranto i termini della libertà condizionale, poiché non si è consegnato alle autorità britanniche per un mandato del 2010 legato alle accuse di violenza sessuale in Svezia, che sono state successivamente ritirate. Ma i gruppi laburisti e delle libertà civili hanno condannato la richiesta di estradizione degli Stati Uniti. L'avvocato di Assange, Jennifer Robinson, ha dichiarato che l'arresto del suo cliente è un "pericoloso precedente". L'ex analista della Nsa americana Edward Snowden ha definito l'arresto un "momento buio per la libertà di stampa". "Le immagini dell'ambasciatore dell'Ecuador che invita la polizia segreta britannica all'interno dell'ambasciata per trascinare fuori dall'edificio un giornalista vincitore di premi finiranno nei libri di storia. I critici di Assange possono anche rallegrarsi, ma questo è un momento buio per la libertà di stampa", ha scritto Snowden in un tweet. 


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domenica 26 marzo 2017

Attentato Londra, perché il terrore colpisce sempre le masse e mai i potenti? - Diego Fusaro.

Attentato Londra, perché il terrore colpisce sempre le masse e mai i potenti?

Quasi come se si trattasse, ormai, di una tragedia che torna a ripetersi, nei suoi moduli, sempre eguale a se stessa. Prima Parigi, poi Berlino. Adesso Londra. L’Europa è sotto attacco, si dice. Non è chiaro da parte di chi, tuttavia.
L’Islam ha dichiarato guerra all’Europa: così vorrebbe farci credere la narrazione egemonica; il cui fine conclamato è quello di delegittimare l’Islam e, in generale, ogni religione della trascendenza non ancora riassorbita nel monoteismo immanentistico dell’economia di mercato. Non è guerra di religione: è guerra alla religione. Guerra dichiarata dal capitale a ogni idea di sacro che non sia quello del mercato deregolamentato.
Come già dissi in altra occasione, io non so i nomi. Né mi accontento delle versioni ufficiali. Prevedo – e non è difficile – che, in ogni caso, questo attentato diverrà l’occasione per sostenere, da più parti, il solito mantra del “ci vuole più Europa”: e, naturalmente, per rallentare e rendere più ardua l’attuazione concreta della “Brexit”, ossia della scelta democratica del popolo inglese di prendere congedo dall’Unione Europea.
Mi limito a riscontrare che, anche nel caso di Londra, l’attentato si è abbattuto sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate. I terroristi colpiscono sempre, immancabilmente gli sconfitti della mondializzazione, il popolole masse inermi. Strano paradosso: il terrorismo islamico – si dice – vorrebbe colpire il cuore dell’Occidente, metterne in ginocchio i centri nevralgici del potere. E poi, chissà perché, l’ira delirante dei terroristi non si abbatte mai, curiosamente, sui luoghi reali del potere occidentale: banche, centri della finanza, ecc. I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati. Restano puntualmente intonsi. Il loro potere ne esce sempre, chissà perché, rinsaldato. Anzi, trovano sempre, immancabilmente, nei gesti nefandi e criminali dei terroristi l’occasione per potenziare il proprio ordine dominante: restringimento delle libertà, bombardamenti umanitari (il terrorismo della lotta al terrorismo), dirottamento del conflitto di classe verso il conflitto di civiltà, riadesione delle masse ormai sull’orlo della ribellione ai valori dell’Occidente mercatistico buono, ecc.
Insomma, a ragionare serenamente, verrebbe da pensare che i signori del terrore siano sprovveduti: vogliono colpire a morte l’Occidente e, invece, ne rinsaldano il potere; vogliono abbattere i potenti occidentali e, invece, li agevolano massacrando e indebolendo le masse pauperizzate occidentali. Hanno, poi, un tempismo perfetto, i signori del terrore: arrivano in Francia proprio quando le masse iniziano a mobilitarsi contro la “loi travail”; arrivano in Inghilterra quando si avvicina il momento del redde rationem con l’Unione Europea (Brexit).
Sarò anche considerata complottista, ma io la penso esattamente come lui.
E come Chomsky, che aveva previsto e teorizzato gli accadimenti attuali al punto 2 della sua lista di "Manipolazione delle masse":
2) Creare problemi e poi offrire le soluzioni.
Questo metodo è anche chiamato “problema- reazione- soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che si dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia il pubblico a richiedere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito della libertà. O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

venerdì 1 luglio 2016

Ma se il Brexit è un disastro, perché la Borsa di Londra vola? Qui qualche risposta. Controcorrente. - Marcello Foà


Se la Gran Bretagna fosse un Paese sull’orlo della catastrofe, la sua Borsa dovrebbe crollare. E invece se si esamina l’andamento delle Borse degli ultimi giorni emerge che i due listini ad aver retto meglio sono quello di Zurigo e proprio quello di Londra, che ha di fatto già recuperato le perdite.

Cosa significa? Significa che la salute delle aziende britanniche non è minacciata dal Brexit ovvero che gli investitori di Borsa pesano con minore emotività l’esito del referendum.
Si dirà: ma la sterlina è caduta! E le agenzie di rating hanno abbassato il valore dei titoli di Stato britannici. Nessuna sorpresa: la valuta è molto più volatile della Borsa e si presta molto di più ad attacchi speculativi, che però sembrano essersi già fermati.
Quanto alle agenzie di rating sono le stesse che davano la tripla A ai mututi subprime e non sono proprio indipendenti; diciamo che sono da sempre molto sensibili agli interessi dell’establishment, quell’establishment che ha reagito con una rabbia forsennata al Brexit.

La realtà, come afferma Alberto Bagnai, è che la Gran Bretagna subirà una perdita marginale del Pil nei prossimi anni.
La realtà è che il processo del Brexit sarà lungo (almeno due anni e mezzo da oggi ma forse ci vorrà anche di più) e che Londra è troppo importante per il mondo finanziario che non si può permettere e non vuole nemmeno abbandonarla dall’oggi al domani.
La realtà è che la Gran Bretagna se ne esce dalla Ue, ma a crollare sono le Borse dei Paesi che restano nell’Unione.
Domanda impertinente: dove sono i veri problemi, a Londra o nella zona euro?

martedì 12 aprile 2016

Regeni a Londra lavorò per un’azienda d’intelligence. - Alessandra Rizzo




È stata fondata da un ex funzionario Usa implicato nel Watergate.

La storia di Giulio Regeni porta stranamente alla porta di un vecchio scandalo, quello di Nixon. Mentre viveva in Gran Bretagna, lo studente friulano aveva lavorato per un anno presso un’azienda d’intelligence fondata da un ex funzionario americano implicato nello scandalo Watergate. Oggi, i suoi ex colleghi e amici presso la compagnia, la Oxford Analytica, sono tra i promotori di una petizione che chiede al governo britannico di fare pressione sulle autorità egiziane che indagano sulla vicenda. «Giulio era un collega fantastico, socievole, divertente. Ci manca molto», ricorda Ram Mashru, altro giovane talento che con Giulio divideva la stanza presso la Oxford Analytica. «Era estremamente cauto nel condurre il suo lavoro – aggiunge - Certo, c’è sempre la possibilità che abbia attirato l’attenzione di qualche gruppo pericoloso, ma da quanto sappiamo Giulio non si comportava in maniera avventata o negligente».  

Oxford Analytica è un ulteriore tassello nella storia di Giulio, un altro pezzo dei dieci anni trascorsi dal ricercatore di Cambridge nel Regno Unito, e potrebbe, forse, fornire qualche dettaglio per spiegare la sua morte. Il gruppo analizza tendenze politiche ed economiche su scala globale per enti privati, agenzie e ben cinquanta governi, una specie di privatizzazione di altissimo livello della raccolta di intelligence. Ha uffici, oltre che a Oxford, a New York, Washington e Parigi, e vanta una rete di 1,400 collaboratori. Promette “actionable intelligence”, informazioni su cui si possa agire, senza ideologie o inclinazioni politiche. 


Dal settembre 2013 al settembre 2014, Giulio ha lavorato alla produzione del “Daily Brief”, una decina di articoli pubblicati ogni giorno sugli eventi principali e mandata a una lista di clienti d’elite. E’ uno dei prodotti di punta del gruppo, modellato sui briefing che Kissinger preparava per Nixon. Già, perché la storia del fondatore di Oxford Analytica, David Young, passa anche per uno dei capitoli più sinistri della storia USA. Young era, nella Casa Bianca di Nixon, tra i dirigenti dei cosiddetti “idraulici”, il gruppo che doveva “tappare” le fughe di notizie e di cui facevano parte anche G. Gordon Liddy e Howard Hunt, entrambi finiti dietro le sbarre per il Watergate. Dopo lo scandalo, Young lasciò l’America per completare un dottorato di ricerca in relazioni internazionali ad Oxford (leggenda vuole che la sua tesi fosse tenuta sotto chiave perché conteneva informazioni riservate), e nel 1975 fondò la Oxford Analytica. Nel cui board figurano anche John Negroponte, ex direttore della United States Intelligence Community e Sir Colin McColl, ex capo dell’MI6, il servizio segreto inglese. Mashru spiega che i rapporti speciali del gruppo, che tipicamente comportano da uno a sei mesi di lavoro, restano confidenziali. Certamente l’azienda sta tenendo un basso profilo. Ha mandato un messaggio in forma privata alla famiglia di Giulio, e per il resto è «no comment».  

Da Cambridge si fa vivo il professore Glen Rangwala, con cui Regeni avrebbe dovuto collaborare per un corso non appena rientrato dall’Egitto. Rangwala smentisce l’ipotesi che dall’Università qualcuno possa aver passato i report del ragazzo agli 007: «Per nessun motivo al mondo gli accademici di Cambridge diffondono le ricerche degli studenti ai servizi segreti».  

I suoi ex colleghi e amici stanno tentando un’azione pubblica, con la petizione che chiede al governo britannico di assicurare una “credibile” indagine sulla morte di Giulio La petizione ha raccolto finora circa 4,500 firme, ma ce ne vogliono dieci mila per forzare una risposta del governo. Il quale, per ora tace. “L’indagine è nelle mani delle autorità egiziane”, dicono. 

giovedì 9 luglio 2015

Accordo sui debiti esteri germanici.


Hermann Josef Abs firma l'accordo sul debito di Londra il 27 febbraio 1953


L'accordo sui debiti esteri germanici, noto anche come accordo sul debito di Londra (in tedesco rispettivamente Abkommen über deutsche Auslandsschulden e Londoner Schuldenabkommen, in inglese Agreement on German External Debts e London Debt Agreement), è stato un trattato di parziale cancellazione del debito firmato a Londra il 27 febbraio 1953 tra la Repubblica Federale di Germania da una parte e Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia dall'altra.

Termini dell'accordo

I negoziati durarono dal 27 febbraio all'8 agosto 1953[1]. Il trattato, ratificato il 24 agosto 1953, impegnava il governo della Repubblica federale di Germania sotto il cancelliere Konrad Adenauer a rimborsare i debiti esterni contratti dal governo tedesco tra il 1919 e il 1945[1] ed era accoppiato al concordato sul rimborso parziale dei debiti di guerra alle tre potenze occidentali occupanti. Furono prese in considerazione le esigenze di 70 Stati, 21 dei quali provenienti direttamente dai partecipanti ai negoziati e firmatari del contratto; i Paesi del blocco orientale non vennero coinvolti e le loro richieste furono ignorate.
In fase di negoziazione, il totale ammontava a 16 miliardi di marchi di debiti degli anni 1920 inadempiuti negli anni 1930, ma che la Germania decise di rimborsare per ristabilire la sua reputazione. Questa somma di denaro venne pagata ai governi e alle banche private di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Altri 16 miliardi di marchi erano rappresentati da prestiti del dopoguerra dagli Stati Uniti. Sotto la negoziazione di Hermann Josef Abs, la delegazione tedesca raggiunse un elevato livello di riduzione del debito: con l'accordo di Londra infatti l'importo da rimborsare fu ridotto del 50% a circa 15 miliardi di marchi e dilazionato in più di 30 anni, il che, rispetto alla rapida crescita dell'economia tedesca, ha avuto un minore impatto[2].

Conseguenze economiche e politiche

L'accordo contribuì in modo significativo alla crescita del secondo dopoguerra dell'economia tedesca e al riemergere della Germania come potenza mondiale economica e permise alla Germania di entrare in istituzioni economiche internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione Mondiale del Commercio.
L'accordo normava anche i debiti delle riparazioni della seconda guerra mondiale e questi furono messi in correlazione con la riunificazione tedesca (evento che nel 1953 sembrava lontano e non certo). Fu stabilito che i debiti sarebbero stati congelati fino alla riunificazione della Germania. Quando nel 1990 questo evento si verificò i suddetti debiti furono quasi del tutto cancellati, questo per permettere al nuovo stato di gestire una costosa e difficile riunificazione.[3] Del totale rimasero operative solo delle obbligazioni per un valore di 239,4 milioni di marchi tedeschi che furono pagati a rate. Il 3 ottobre 2010 la Germania terminò di rimborsare i debiti imposti dal trattato[4] con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro[5].
Dopo la fine della guerra fredda, tra il 1991 e il 1998 furono firmati degli accordi bilaterali di compensazione - simili a quelli degli anni '60 con i paesi occidentali[6] - con la Polonia, la Russia, l'Ucraina, la Bielorussia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.