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sabato 26 marzo 2022

L’accordo sul gas tra Stati Uniti e Unione Europea.

 

Prevede l’aumento delle forniture, con l'obiettivo di rendere i paesi europei meno dipendenti dalla Russia.


Venerdì Stati Uniti e Unione Europea hanno annunciato un nuovo accordo che prevede l’aumento delle forniture di gas americano ai paesi europei, con l’obiettivo di ridurre e progressivamente eliminare la dipendenza europea dal gas russo. Non potendo farne a meno, infatti, i paesi europei stanno continuando a comprarlo, nonostante la guerra: pagano alla Russia centinaia di milioni di euro al giorno, e allo stesso tempo si rifiutano di imporre sanzioni specifiche sulle esportazioni di gas. L’accordo è dunque un segnale positivo per l’Europa, anche se per varie ragioni è ancora molto limitato rispetto agli obiettivi complessivi.

L’accordo prevede che nel 2022 gli Stati Uniti, il primo paese per produzione di gas al mondo, inviino almeno altri 15 miliardi di metri cubi di gas in Europa, in aggiunta ai 22 miliardi già previsti, arrivando quindi ad almeno 37 miliardi di metri cubi di gas per quest’anno. L’obiettivo finale dell’accordo è arrivare a importare 50 miliardi di metri cubi di gas l’anno entro il 2030.

Anche se dimostra la reale intenzione dei paesi europei nel diversificare i propri fornitori di fonti energetiche, l’accordo non è comunque sufficiente a rendere i paesi europei indipendenti dal gas russo, almeno nel breve termine.

Innanzitutto perché le forniture previste di gas americano restano comunque irrisorie rispetto a quelle importate dalla Russia, equivalenti a circa 150 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Il gas russo copre attualmente circa il 40 per cento del fabbisogno energetico complessivo (in Italia, il paese più dipendente dal gas russo insieme alla Germania, nel 2021 quasi il 40 per cento del gas è arrivato dalla Russia): l’accordo tra Stati Uniti e Unione Europea ne garantirà poco più della metà, il 24 per cento.

Il gas americano, poi, arriverà ai paesi europei allo stato liquido, dato che non esiste un gasdotto diretto che colleghi Stati Uniti ed Europa. Per poter usare il gas che arriverà dagli Stati Uniti serviranno quindi attrezzature specifiche: navi metaniere, terminal per riceverlo e gasdotti per trasportarlo, innanzitutto, e soprattutto i rigassificatori, cioè le strutture che servono per far tornare il gas allo stato gassoso grazie a un processo di riscaldamento controllato all’interno di un vaporizzatore.

Sia i terminal per importare il gas naturale liquefatto che i rigassificatori attualmente esistenti in Europa non bastano per gestire l’intero approvvigionamento energetico dell’Unione: il paese con più impianti in questo senso è la Spagna, che ha 6 rigassificatori, seguita da Regno Unito e Francia. L’Italia ne ha tre, la Germania nessuno. Sia la costruzione di rigassificatori che quella dei terminal per ricevere il gas naturale liquefatto fanno parte degli obiettivi della “task force” congiunta annunciata venerdì da Stati Uniti e Unione Europea, insieme all’accordo sulle forniture del gas.

Per rendersi davvero indipendenti dal gas russo, infine, i paesi europei dovranno fare accordi anche con altri paesi fornitori di gas naturale liquefatto (come l’Algeria, il Qatar o l’Australia), oltre che investire sulle fonti rinnovabili.

Foto: Un impianto di trattamento del gas negli Stati Uniti (AP Photo/Keith Srakocic, File)

https://www.ilpost.it/2022/03/25/gas-accordo-unione-europea-stati-uniti/

sabato 5 giugno 2021

G7: accordo storico sulla tassazione globale.

 

Lo annuncia il Cancelliere dello Scacchiere Sunak.


I ministri delle Finanze del G7 hanno raggiunto "un accordo storico" sulla tassazione globale. Lo dichiara il Cancelliere dello Scacchiere inglese, Rishi Sunak.

Accordo "sul principio di una aliquota globale minima del 15% per la tassazione delle grandi imprese, applicata Paese per Paese", ha scritto su Twitter il Tesoro britannico, parlando "una stretta sull'elusione fiscale" che farà pagare "la giusta quota" alle multinazionali di Big Tech. Secondo il Tesoro, "le maggiori imprese globali, con margini di profitto di almeno il 10%, vedranno il 20% di tutti gli utili al di sopra di tale soglia riallocato e tassato nei Paesi dove effettuano vendite".

I ministri delle Finanze del G7 hanno preso, con l'accordo su un'aliquota minima globale del 15%, un "impegno senza precedenti che metterà fine alla corsa al ribasso nella tassazione aziendale, assicurando equità per i lavoratori negli Stati Uniti e in tutto il mondo", ha dichiarato in una nota la segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen.

"Oggi a Londra abbiamo compiuto un grande passo verso un accordo globale senza precedenti sulla riforma della tassazione delle imprese. E' stato un incontro molto positivo che ci ha permesso di costruire ponti su questioni cruciali". Così il commissario Paolo Gentiloni. "Le possibilità di un accordo globale sono notevolmente aumentate. Ora dobbiamo fare l'ultimo miglio per espandere questo consenso ai membri del G20 e a tutti i paesi coinvolti nel quadro inclusivo dell'Ocse. La Commissione contribuirà attivamente a queste discussioni multilaterali in corso per garantire il raggiungimento di un accordo ambizioso a luglio", conclude.

Articolo e foto ANSA.

mercoledì 22 luglio 2020

Coronavirus, indagati i vertici del Policlinico San Matteo di Pavia e di Diasorin per l’accordo sui test sierologici.


Coronavirus, indagati i vertici del Policlinico San Matteo di Pavia e di Diasorin per l’accordo sui test sierologici

Le ipotesi di reato sono turbata libertà del procedimento di scelta del contraente e peculato. Al centro dell'inchiesta c'è l’affidamento diretto alla società piemontese per la sperimentazione dei test iniziata a fine aprile in Lombardia. L'ipotesi è che "tutti i risultati delle attività di ricerca e sperimentazione effettuate dalla Fondazione Irccs San Matteo di Pavia" siano stati "trasferiti" a Diasorin, "favorendola" a discapito di altre potenziali concorrenti. Fra gli indagati il professor Fausto Baldanti, a capo del progetto e già travolto dalle polemiche per un presunto conflitto d'interesse svelato dal Fatto.

I vertici del Policlinico San Matteo di Pavia e della società Diasorin sono indagati dalla Procura della Repubblica di Pavia nell’ambito dell’inchiesta sull’accordo tra l’ospedale e la società piemontese per l’effettuazione dei test sierologici anti-Covid. A darne notizia è stata poco fa la stessa Procura con un comunicato stampa. Le ipotesi di reato sono turbata libertà del procedimento di scelta del contraente e peculato. Fra gli indagati compaiono il presidente della Fondazione Ircss San Matteo Alessandro Venturi, il direttore generale e il direttore scientifico, oltre al Responsabile del laboratorio di virologia molecolare Fausto Baldanti e all’ad di Diasorin Carlo Rosa. All’alba sono scattate anche le perquisizioni da parte del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Pavia. I militari stanno sequestrando documentazione e apparati informatici presso gli uffici e i laboratori dei due istituti, mentre sono già iniziate davanti ai pm le audizioni dei ricercatori coinvolti nel progetto.
Al centro delle indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Mario Venditti e dal pm Paolo Mazza, c’è l’affidamento diretto alla Diasorin per la sperimentazione dei test di massa iniziata a fine aprile in Lombardia. L’ipotesi è che “tutti i risultati delle attività di ricerca e sperimentazione effettuate dalla Fondazione Irccs San Matteo di Pavia” siano stati “trasferiti” all’azienda piemontese, fanno sapere dalla Procura, “favorendola” a discapito di altre potenziali concorrenti nel settore dei test sierologici per la diagnosi di infezione da Covid-19. L’annuncio del test innovativo aveva pure fatto schizzare alle stelle il titolo Diasorin in borsa. Tutto è partito dalla denuncia presentata da una società concorrente che si è opposta all’accordo stipulato tra i due istituti senza gara. Ulteriori accertamenti sono in corso per chiarire i rapporti economico-commerciali esistenti tra l’azienda di biotecnologie, Fondazione Istituto Insubrico di Ricerca per la Vita e la società Servire Srl, tutte operanti presso l’Insubrias Biopark di Gerenzano, in provincia di Varese.
La vicenda aveva creato polemiche anche per il ruolo del professor Fausto Baldanti, a capo del team del Policlinico che ha realizzato il progetto insieme a Diasorin e attualmente iscritto nel registro degli indagati. Come rivelato da Il Fatto Quotidiano, Baldanti sarebbe stato esposto a un potenziale conflitto d’interesse: il professore faceva parte del gruppo di lavoro del Comitato tecnico scientifico del Consiglio superiore della Sanità e di un organismo di lavoro messo in piedi dalla Regione Lombardia, incaricati di studiare la qualità dei test di tutte le aziende. Nonostante questo, l’accordo con Diasorin prevedeva royalties dell’1 per cento sulle future vendite dei kit da destinare al Policlinico. Un particolare che, stando alle inchieste giornalistiche, non era stato reso noto dal docente.
Dopo l’inchiesta del Fatto, il professor Baldanti ha rivendicato la correttezza del proprio operato ma ha preferito dimettersi dai gruppi di lavoro. I legali di TechnoGeneticsla società concorrente alla Diasorin che ha presentato un ricorso al Tar, hanno definito l’accordo “un del tutto inedito partenariato pubblico-privato” accusato di aver messo le conoscenze e il know-how di un’amministrazione pubblica scientifico-ospedaliera a servizio degli interessi di un soggetto privato, la spa piemontese. Che grazie a questo – è la loro tesi – otterrà il brevetto e la possibilità di commercializzare i kit. Secondo gli avvocati di TechnoGenetics, Francesco Abiosi e Ludovico Bruno, l’azienda pubblica, per mettersi al servizio di un privato, avrebbe dovuto individuarlo attraverso un bando. Per il Tar deve essere così, mentre il Consiglio di Stato pochi giorni fa ha ribaltato la decisione trasmettendo gli atti alla Corte dei conti. Una diatriba amministrativa che, apprende l’Ansa da ambienti della procura di Pavia, è avvenuta dopo l’inizio delle indagini da parte dei magistrati.
“Io ribadisco la correttezza dell’operato del Policlinico San Matteo, come chiarito anche dal Consiglio di Stato, e ho piena fiducia nella magistratura inquirente”, ha dichiarato all’Adnkronos il presidente dell’Irccs Venturi, anche lui indagato. Quello che c’è dietro l’accordo Diasorin-San Matteo sui test sierologici “è una cosa di una banalità estrema”, aggiunge. Un’azienda che ha inventato il suo dispositivo viene a validarlo nel nostro Irccs. Ma il dispositivo è di quell’azienda, non posso metterlo a gara. Siamo noi che siamo stati contattati dall’azienda. Diasorin ha scelto il San Matteo, non abbiamo scelto noi Diasorin”.
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martedì 21 luglio 2020

Vertice Ue: firmato accordo sul Recovery Fund a 750 miliardi, 390 di sussidi. All’Italia oltre 200 miliardi.

All’Italia andrebbero 209 miliardi (82 di sussidi). Il compromesso sulla governance: la valutazione sul rispetto dei piani nazionali affidata a un comitato di tecnici ma i Paesi membri potranno portare la questione sul tavolo del Consiglio europeo.

I leader europei hanno raggiunto un accordo sul Recovery Fund ed il Bilancio Ue 2021-2027 al termine di un negoziato record durato quattro giorni e quattro notti. Lo annuncia il presidente del Consiglio Ue Charles Michel. All'adozione delle conclusioni è seguito un applauso. Il Recovery Fund ha una dotazione di 750 miliardi di euro, di cui 390 miliardi di sussidi. Il bilancio è stato fissato a 1.074 miliardi.
“Sono le sei del mattino: siamo all'alba di un vertice lunghissimo, forse abbiamo stabilito il record e superato per durata il vertice di Nizza. Siamo soddisfatti: abbiamo approvato un piano di rilancio ambizioso e adeguato alla crisi che stiamo vivendo”. Lo dice il premier Giuseppe Conte in conferenza stampa al termine del Consiglio europeo.
La nuova composizione del Recovery fund porterebbe in dote all’Italia 209 miliardi, di cui 82 di sussidi e 127 di prestiti. Il premier Giuseppe Conte potrebbe rientrare a Roma con un piatto più ricco rispetto alla proposta della Commissione europea di maggio che destinava al nostro Paese 173 miliardi (82 di aiuti e 91 di prestiti). Nel dettaglio: la proposta di Michel farebbe diminuire i sussidi per l’Italia di 3,84 miliardi, mentre i prestiti aumenterebbero di 38,8 miliardi.
Nelle ore precedenti un punto fermo era stato già messo sul Recovery Fund: la dotazione complessiva del piano per sostenere i Paesi più colpiti dal passaggio del Covid-19 fissata a 750 miliardi. E dopo varie oscillazioni (da 500 450, a 400) l’asticella della quota di sussidi si è fermata a 390 miliardi di euro, con la Resilience e Recovery Facility - il cuore del Fondo per il rilancio economico che viene allocato direttamente ai Paesi secondo una precisa chiave di ripartizione - a 312,5 miliardi (un po' più dei 310 previsti dalla Commissione, un po' meno dei 325 della proposta di Michel di sabato).
La proposta alla fine ha convinto anche i leader dei cosiddetti paesi “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia) che nel bilancio europeo, fermo a 1.074 miliardi di impegni, si vedranno aumentare i “rebate”: alla Danimarca andrebbero 322 milioni annui di rimborsi, all’Olanda 1,921 miliardi, all’Austria 565 milioni e alla Svezia 1,069 miliardi. La Germania avrebbe riassegnati 3,671 miliardi.
Quanto alla governance del Recovery fund - uno dei temi più spinosi al centro di un duro negoziato tra Conte e il premier olandese Mark Rutte - il compromesso raggiunto prevede che i piani presentati dagli Stati membri vengano approvati dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata in base alle proposte presentate dalla Commissione. La valutazione sul rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati per l'attuazione dei piani nazionali sarà affidata al Comitato economico e finanziario (gli sherpa dei ministri delle Finanze). Se in questa sede, «in via eccezionale», qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che la questione finisca sul tavolo del Consiglio europeo prima che venga presa qualsiasi decisione.
L’ottimismo era cominciato a circolare nel primo pomeriggio di lunedì, impressione confermata da Giuseppe Conte quando aveva commentato: «Stanotte c’è stata una svolta: dobbiamo essere ancora cauti ma direi che sono cautamente ottimista».

Recovery Fund: raggiunto un accordo. -


Ursula von der Leyen, Charles Michel.

"Giorno storico per l'Europa", il commento di Macron.

I leader europei hanno raggiunto lo storico accordo sul Recovery Fund ed il Bilancio Ue 2021-2027 al termine di un negoziato record durato quattro giorni e quattro notti. Si tratta del summit più lungo della storia dell'Unione Europea. Il Recovery Fund ha una dotazione di 750 miliardi di euro, di cui 390 miliardi di sussidi. Il bilancio è stato fissato a 1.074 miliardi. 
Conte: "Con 209 miliardi l'Italia può ripartire con forza" - "Avremo una grande responsabilità: con 209 miliardi abbiamo la possibilità di far ripartire l'Italia con forza e cambiare volto al Paese. Ora dobbiamo correre", le parole del premier Giuseppe Conte. "Siamo soddisfatti: abbiamo approvato un piano di rilancio ambizioso e adeguato alla crisi che stiamo vivendo - ha continuato -. Abbiamo conseguito questo risultato tutelando la dignità del nostro Paese e l'autonomia delle istituzioni comunitarie".
Gentiloni: "Recovery la decisione più importante dopo l'Euro" - "Il vertice infinito è finito con un'intesa". Quella sul piano NextGenerationEu "è la più importante decisione economica dall'introduzione dell'euro". Lo scrive in un tweet il commissario Ue per l'Economia Paolo Gentiloni. "Per la Commissione che ha proposto il piano, comincia la sfida più difficile. L'Europa è più forte delle proprie divisioni".
Soddisfatti i leader europei per l'accordo sul Recovery Fund - "L'abbiamo fatto. Ci siamo riusciti. L'Europa è solida, è unita. E' stato difficile", le parole del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. "L'Europa ha ora la possibilità di uscire più forte dalla crisi", dice la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Parla di "buon segnale" all'Europa la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, mentre il presidente francese, Emmanuel Macron, ha evidenziato le "conclusioni storiche" di un "vertice difficile" con "visioni diverse dell'Europa".

Capolavoro. - Andrea Scanzi

L'immagine può contenere: 1 persona, vestito elegante

È quello che ha ottenuto Giuseppe Conte dopo una trattativa durissima, in cui l’Europa (e quindi l’Italia) si è giocata tutto. L’ufficialità è arrivata alle 5.32 di stamattina, al quarto giorno di plenaria. Per una volta, l’Europa non si è rivelata soltanto una mera realtà geografica.

Ieri sera, all’ora di cena, quando i profili dell’accordo sono parsi chiari, persino alcuni detrattori storici del Presidente del Consiglio hanno dovuto ammettere a denti stretti: “Se finisse così, sarebbe un’innegabile vittoria per Conte”. Infatti certi programmi di propaganda destrorsi, ieri sera, erano tristi come Renzi dopo il meraviglioso 4 dicembre 2016. E vedere le loro facce idiotamente bastonate era sublime.


L’Italia porta a casa addirittura più di quanto si sperasse a maggio, quando il Recovery Fund (fortemente voluto da Conte) era giusto un’idea vaga di salvadanaio multiuso. Nello specifico, il nostro paese perde 3,8 miliardi di aiuti diretti rispetto ai previsti 85.2 a fondo perduto, fissando l’asticella a 81,4. Ma ne guadagna 38 in prestiti, che nella nuova versione salgono a 127 miliardi (previsti 89 circa). Dei 750 miliardi europei, poco meno di 209 (dovevano essere sui 174) andranno al nostro Paese, primo beneficiario del Fondo davanti alla Spagna.


Nelle prossime ore vedrete - da parte dei soliti casi umani - la consueta sfilata putrida di disonestà intellettuale. Pur di non ammettere che Conte ha fatto un capolavoro, diranno di tutto. Come lo hanno detto durante la pandemia. Come lo hanno detto dopo Autostrade. Eccetera. Oggi dovremmo essere felici tutti, ma certe beccacce - pur di veder politicamente morto Conte - auspicherebbero financo il trapasso del paese.


Anche solo due giorni fa, con quella sciagura ambulante chiamata Rutte messasi di traverso, un accordo così pareva impossibile. Invece è arrivato. Certo, i “paesi frugali” ottengono in cambio sconti e agevolazioni assai discutibili, ma le trattative estenuanti sono così: si prende e si dà. Si chiama realtà, e la realtà è come la politica per Rino Formica: “sangue e merda”. Tutto il resto è pippa mentale o propaganda, oppure entrambe le cose (cioè Salvini).


Ci attendono mesi duri, scelte faticose, battaglie tremende. Sarà una lunga lotta: per i cortei è presto. Ma - nella tempesta - meglio di così non poteva andarci, e menomale che a Palazzo Chigi c’è un galantuomo. E non certi sciacalli.


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giovedì 8 novembre 2018

Prescrizione, c'è l'accordo.

Prescrizione, c'è l'accordo

Quadra trovata sulla prescrizione, dopo il vertice a Palazzo Chigi durato meno di un'ora tra il premier Conte, i due viceministri Salvini e Di Maio e il guardasigilli Bonafede. Dopo giorni di tira e molla sull'emendamento voluto dai Cinquestelle e che prevede il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna sia di assoluzione) la prescrizione entra subito nel ddl anticorruzione, ma sarà in vigore tra un anno. Contemporaneamente - si apprende da fonti di governo - si approva un disegno di legge delega a Bonafede per riformare il processo penale.

FUMATA BIANCA - La fumata bianca è arrivata a fine vertice dal capogruppo leghista al Senato Riccardo Molinari: "Abbiamo trovato la quadra", ha detto sorridente. La riforma della prescrizione, ha poi annunciato Bonafede, andrà in Aula la settimana prossima. Per il vicepremier Matteo Salvini "la mediazione è stata positiva" ma ha avvisato: "Accordo trovato, ma solo con tempi certi". Al termine del vertice, Salvini ha ribadito inoltre la necessità di avere tempi brevi per i processi. "In galera i colpevoli, libertà per gli innocenti" ha sottolineato.

SI PARTE NEL 2020 - Il titolare del Viminale ha spiegato che la norma sulla prescrizione "sarà nel ddl ma entrerà in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale". La legge delega, invece, che scadrà a dicembre del 2019, "sarà all'esame del Senato la prossima settimana". Tempistiche ribadite anche dal ministro per la Semplificazione Giulia Bongiorno, che ha sottolineato come la riforma del processo penale "camminerà insieme" alla riforma della prescrizione.

DI MAIO: "BASTA IMPUNITI" - Esulta Luigi Di Maio: "Ottime notizie! #BastaImpuniti - commenta il vicepremier in un post su Facebook -. La norma sulla prescrizione sarà nel disegno di legge anticorruzione! E entro l'anno prossimo faremo anche una riforma del processo penale. Processi brevi e con tempi certi. Finalmente le cose cambiano davvero!". Stamattina, prima del summit, in un'intervista rilasciata a 'Il Fatto Quotidiano' Di Maio aveva ventilato l'ipotesi di far saltare il contratto di governo senza un accordo sul voto.

CONTE: "TROVATA SOLUZIONE MIGLIORE" - "Riforma prescrizione e accelerazione dei processi penali: avanti spediti per l’attuazione del Contratto di Governo. Certezza del diritto e dei tempi processuali sono i nostri obiettivi. Come sempre ci confrontiamo e come sempre troviamo la soluzione migliore per gli italiani". Lo scrive in un tweet il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, commentando l'accordo raggiunto durante il vertice di questa mattina a Palazzo Chigi.

RISSA SFIORATA - Intanto, a Montecitorio, le commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia della Camera hanno dato il via libera all'ampliamento della prescrizione al ddl corruzione. Non senza proteste dell'opposizione, però, che ha contestato l'assenza del guardasigilli Bonafede, impegnato nel vertice di Palazzo Chigi. Alla sala del Mappamondo la tensione è arrivata alle stelle tanto che si è addirittura sfiorato lo scontro fisico tra i rappresentanti dell'opposizione, che hanno rumorosamente contestato la regolarità della votazione, e gli esponenti della maggioranza.
Sono volate parole grosse e le urla si sono sentite chiaramente nella sala antistante l'aula del Mappamondo, mentre i commessi sono dovuti intervenire per evitare che la situazione trascendesse. Ma la protesta non si è interrotta e si è trasferita in aula, dove Fi ha occupato i banchi del governo. Successivamente Pd, Fi, Leu e Fdi hanno preso la parola e hanno continuato a protestare per le modalità con le quali si è svolta la votazione in Sala del Mappamondo. E' stata chiesta l'immediata convocazione della conferenza dei capigruppo.

Il presidente di turno Ettore Rosato ha comunque fatto proseguire la seduta - che aveva all'odg la relazione della Giunta per le autorizzazioni sulla domanda di autorizzazione all'utilizzazione dei verbali e delle registrazioni delle intercettazioni nei confronti di Lello Di Gioia - affermando che sulla convocazione della capigruppo deciderà il presidente Roberto Fico, assente questa mattina per un impegno istituzionale.

Fonte: adnkronos del 8/11/2018.


La prescrizione va abolita.
La prescrizione premia chi commette reati e si può avvalere di bravi e costosi avvocati, per i quali è facile trovare cavilli e rimandare udienze, mentre aumenta il loro compenso professionale.
Oltretutto non rispetta quanto sancito dalla Costituzione nell'art. 3 che recita: "E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."
I nostri sedicenti e, per fortuna ex, governanti, introducendo la prescrizione nell'ordinamento giuridico hanno ignorato l'articolo, aumentando gli ostacoli di ordine sociale ed economico esistenti tra i cittadini.
Non è la prima volta che il governo ignora il contenuto dell'art. 3, lo ha fatto in varie occasioni, ciò che non risulta comprensibile è riscontrare che la Consulta non sia intervenuta per dichiarare incostituzionali tutte quelle leggi che non rispettano il parametro stabilito.
Cetta.

venerdì 26 ottobre 2018

Whirlpool, c’è l’accordo con i sindacati: produzione delle lavatrici trasferita dalla Polonia e zero esuberi entro il 2021.

Whirlpool, c’è l’accordo con i sindacati: produzione delle lavatrici trasferita dalla Polonia e zero esuberi entro il 2021

L'intesa prevede incentivi alla mobilità su base volontaria o per accompagnamento alla pensione ed il ricorso alla cassa integrazione straordinaria che il ministero del Lavoro concederà per il 2019 ed il 2020, superando i limiti imposti dal Jobs Act. L'accordo, secondo i sindacati, scongiura l'ipotesi di 800 esuberi. Di Maio: "Lotta alle delocalizzazioni. Stiamo riportando lavoro in Italia".

Un piano industriale che prevede investimenti per 250 milioni in tre anni e l’azzeramento degli esuberi entro il 2021. È la base dell’accordo tra Whirlpool e sindacati firmato al ministero dello Sviluppo Economico. L’intesa prevede incentivi alla mobilità su base volontaria o per accompagnamento alla pensione ed il ricorso alla cassa integrazione straordinaria che il ministero del Lavoro concederà per il 2019 ed il 2020: così verrà garantito “un aumento dei volumi produttivi e l’azzeramento degli esuberi da qui al 2021”. L’accordo scongiura l’ipotesi di circa 800 esuberi (623 nella produzione e 169 negli uffici centrali) ed è stato ottenuto, sottolineano le sigle sindacali, grazie al finanziamento della cassa integrazione da parte del governo in proroga rispetto al termine del 31 dicembre posto dal Jobs Act.
Nel piano c’è, come atteso, il trasferimento dalla Polonia della produzione delle lavatrici e lavasciuga da incasso: il sito di Comunanza, in provincia di Ascoli Piceno, diventerà, per questi prodotti, il polo produttivo del gruppo per tutta l’area Emea (Europa, Medio Oriente e Africa). L’azienda conferma inoltre gli impegni presi per il completamento del progetto di reindustrializzazione del sito casertano di Teverola e “rilancia rilevanti investimenti a favore della specializzazione degli altri stabilimenti italiani”: da Cassinetta di Biandronno, in provincia di Varese, fino a Melano, passando per SienaNapoli e Carinaro.
L’intesa (sull’ipotesi di accordo sul piano industriale di Whirlpool per l’Italia per il triennio 2019-2021) è stata firmata da azienda, sindacati, rappresentanti delle amministrazioni regionali interessate, e dal ministro Luigi Di MaioPer il vicepremier l’accordo rappresenta “un cambio di passo per l’Italia” perché “appena giunti al governo abbiamo iniziato una dura lotta contro le delocalizzazioni”. Ora, dice, “sta succedendo qualcosa che va oltre: stiamo riportando lavoro in Italia. È un primo passo, ma molto importante”.
“Abbiamo raggiunto oggi un’ipotesi di accordo con Whirlpool sul piano industriale dei prossimi anni, grazie al ritorno in Italia della produzione di lavasciuga e alla disponibilità del Governo a prorogare gli ammortizzatori sociali“, evidenzia Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm responsabile dei settori auto ed elettrodomestici. “Per arrivare all’accordo di oggi è stata decisiva la disponibilità del Governo a prorogare gli ammortizzatori sociali oltre il termine del 31 dicembre posto dal Jobs Act, limite che – ricorda Ficco – più volte nel corso degli ultimi due anni abbiamo denunciato come capestro e assolutamente da rimuovere”.
Sul prolungamento degli ammortizzatori, la Fiom-Cgil parla di “importante misura di politica industriale”. “Nei prossimi giorni – aggiunge il sindacato – si terranno assemblee in tutti gli stabilimenti e i centri amministrativi per illustrare nel dettaglio il piano industriale 2019-2021 e i termini dell’ipotesi di accordo quadro, che sarà sottoposto al referendum fra tutte le lavoratrici e i lavoratori del gruppo”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 25/10/2018

mercoledì 18 maggio 2016

L’Europa ha creato una catastrofe umanitaria d’altri tempi. - Paul B. Preciado

Profughi e migranti in fila per il cibo nel campo di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, l’11 maggio 2016. - Marko Djurica, Reuters/Contrasto

Sono state dette molte cose a proposito delle similitudini tra la gestione dell’attuale crisi economica e il periodo precedente la seconda guerra mondiale. È probabile che nel 2008 gli orologi del tempo globale si siano misteriosamente sincronizzati con quelli del 1929. Ma la cosa più curiosa è che da allora non stiamo procedendo verso gli anni trenta, bensì regredendo verso l’inizio del novecento, come se in un ultimo delirio malinconico l’Europa volesse rivivere il suo passato coloniale.
L’errore che commettiamo abitualmente quando cerchiamo di comprendere la crisi politico-economica è guardarla attraverso la concezione spazio-temporale tipica degli stati nazionali di quella che consideriamo attualmente come “Europa” nel loro rapporto con gli Stati Uniti, lasciando fuori dalla nostra prospettiva lo spazio-tempo che va oltre il qui e ora della finzione “Europa”, verso il sud e l’est, in relazione con la sua storia e il suo presente “criptocoloniale”, per dirla con Michael Herzfeld.
Scambio asimettrico
Solo tornando alla storia dell’invenzione degli stati-nazione europei e del loro passato coloniale possiamo comprendere l’attuale gestione della crisi dei profughi in Grecia. Com’è noto, il 18 marzo l’Unione europea (Ue) e la Turchia hanno firmato un accordo sulla deportazione in massa dei profughi. Questo accordo stabilisce delle relazioni di scambio politico tra due entità asimmetriche (Ue e Turchia) con tre variabili profondamente eterogenee: corpi umani (vivi, nel migliore dei casi), territorio e denaro.
Da una parte l’accordo stipula che, a partire da tale data, “tutti gli immigrati e i profughi arrivati irregolarmente in Grecia devono essere immediatamente espulsi verso la Turchia, che s’impegna ad accettarli in cambio di denaro”. D’altra parte “gli europei prendono l’impegno di accogliere sul proprio territorio i profughi siriani che si trovano in Turchia, fino a un massimo di 72mila persone”. Basta parlare qualche minuto con i siriani che hanno raggiunto la Grecia per capire che torneranno in Turchia solo se costretti con la forza.
Inevitabilmente, l’agente che rende possibile questo processo di deportazione di massa e “scambio di popolazioni” è la violenza. Una violenza istituzionale che, nel quadro di relazioni internazionali tra entità statali e sovranazionali teoricamente democratiche, prende il nome di “forze di sicurezza”. L’accordo costerà trecento milioni di euro nei prossimi sei mesi, prevede l’intervento di quattromila funzionari degli stati membri e delle agenzie di sicurezza europee Frontex ed Easo, richiede l’invio di forze militari e d’intelligence da paesi come la Germania, la Francia e la Grecia, oltre che la presenza di funzionari greci in Turchia e di funzionari turchi in Grecia.
Questo violento apparato poliziesco è presentato come “un’assistenza tecnica alla Grecia”, un aiuto necessario alle “procedure di ritorno”. L’unico quadro politico che permette di considerare legale una simile marchiatura, reclusione, criminalizzazione ed espulsione di essere umani è la guerra. Ma allora contro chi sono in guerra l’Europa e la Turchia?
Europa e Turchia dichiarano guerra ai popoli migranti che potrebbero attraversare le loro frontiere
Sebbene questo accordo appaia, sia per gli elementi dello scambio (corpi umani vivi) sia per la sua portata (almeno due milioni di persone), più vicino a "Il trono di spade" che a un patto tra due stati democratici, esiste un precedente storico che alcune famiglie greche e turche conoscono bene. In Grecia questo precedente è noto come “Grande catastrofe” e ha avuto luogo durante e dopo la guerra greco-turca, tra il 1922 e il 1923.
Nel 1830, dopo quattrocento anni di dominazione ottomana e una guerra d’indipendenza perduta, il territorio della Grecia attuale era ancora sotto il dominio dei turchi, mentre solo una piccola parte era riconosciuta come stato greco da Francia, Regno Unito e Russia. Dopo la prima guerra mondiale la caduta dell’impero ottomano ha ridestato il sogno nazionalista greco (chiamato “megali idea”, la “grande idea”) di riunificare tutti i territori “bizantini”. Un progetto svanito con la vittoria della Turchia nella guerra combattuta tra il 1919 e il 1922.
Per costruire la nuova finzione degli stati-nazione, tanto greca quanto turca, fu necessario non solo dividere i territori, ma anche e soprattutto ricodificare in senso nazionale corpi le cui vite e i cui ricordi erano fatti di storie e lingue ibride. Il trattato sullo “scambio di popolazioni tra Grecia e Turchia” fu firmato a Losanna nel 1923. Riguardava due milioni di persone: un milione e mezzo di “greci” che vivevano in Anatolia e mezzo milione di “turchi” che vivevano nei territori greci. La presunta “nazionalità” venne infine ridotta alla religione: i cristiani ortodossi furono mandati in Grecia, i musulmani in Turchia. Molti di questi “profughi” furono sterminati, altri furono trasferiti in campi precari dove rimasero per decenni, con una cittadinanza incerta.
Quasi cento anni dopo questi stessi stati-nazione, la cui capacità d’azione economica è stata fortemente indebolita dalla riorganizzazione globale del capitalismo finanziario, sembrano orchestrare un nuovo processo di costruzione nazionalista, riattivando (ancora una volta contro i civili) i protocolli di guerra, riconoscimento ed esclusione della popolazione con cui si erano costruiti in passato.
Europa e Turchia dichiarano oggi guerra ai popoli migranti che potrebbero attraversare le loro frontiere. È questa la sensazione che si prova percorrendo le strade di Atene, tra gli edifici occupati dai profughi e le centinaia di persone che dormono nelle piazze: una guerra civile contro coloro che, dopo essere sfuggiti a un’altra guerra, cercano di sopravvivere.
(Traduzione di Federico Ferrone)

giovedì 9 luglio 2015

Accordo sui debiti esteri germanici.


Hermann Josef Abs firma l'accordo sul debito di Londra il 27 febbraio 1953


L'accordo sui debiti esteri germanici, noto anche come accordo sul debito di Londra (in tedesco rispettivamente Abkommen über deutsche Auslandsschulden e Londoner Schuldenabkommen, in inglese Agreement on German External Debts e London Debt Agreement), è stato un trattato di parziale cancellazione del debito firmato a Londra il 27 febbraio 1953 tra la Repubblica Federale di Germania da una parte e Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, Repubblica francese, Spagna, Stati Uniti d'America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia dall'altra.

Termini dell'accordo

I negoziati durarono dal 27 febbraio all'8 agosto 1953[1]. Il trattato, ratificato il 24 agosto 1953, impegnava il governo della Repubblica federale di Germania sotto il cancelliere Konrad Adenauer a rimborsare i debiti esterni contratti dal governo tedesco tra il 1919 e il 1945[1] ed era accoppiato al concordato sul rimborso parziale dei debiti di guerra alle tre potenze occidentali occupanti. Furono prese in considerazione le esigenze di 70 Stati, 21 dei quali provenienti direttamente dai partecipanti ai negoziati e firmatari del contratto; i Paesi del blocco orientale non vennero coinvolti e le loro richieste furono ignorate.
In fase di negoziazione, il totale ammontava a 16 miliardi di marchi di debiti degli anni 1920 inadempiuti negli anni 1930, ma che la Germania decise di rimborsare per ristabilire la sua reputazione. Questa somma di denaro venne pagata ai governi e alle banche private di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Altri 16 miliardi di marchi erano rappresentati da prestiti del dopoguerra dagli Stati Uniti. Sotto la negoziazione di Hermann Josef Abs, la delegazione tedesca raggiunse un elevato livello di riduzione del debito: con l'accordo di Londra infatti l'importo da rimborsare fu ridotto del 50% a circa 15 miliardi di marchi e dilazionato in più di 30 anni, il che, rispetto alla rapida crescita dell'economia tedesca, ha avuto un minore impatto[2].

Conseguenze economiche e politiche

L'accordo contribuì in modo significativo alla crescita del secondo dopoguerra dell'economia tedesca e al riemergere della Germania come potenza mondiale economica e permise alla Germania di entrare in istituzioni economiche internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l'Organizzazione Mondiale del Commercio.
L'accordo normava anche i debiti delle riparazioni della seconda guerra mondiale e questi furono messi in correlazione con la riunificazione tedesca (evento che nel 1953 sembrava lontano e non certo). Fu stabilito che i debiti sarebbero stati congelati fino alla riunificazione della Germania. Quando nel 1990 questo evento si verificò i suddetti debiti furono quasi del tutto cancellati, questo per permettere al nuovo stato di gestire una costosa e difficile riunificazione.[3] Del totale rimasero operative solo delle obbligazioni per un valore di 239,4 milioni di marchi tedeschi che furono pagati a rate. Il 3 ottobre 2010 la Germania terminò di rimborsare i debiti imposti dal trattato[4] con il pagamento dell'ultimo debito per un importo di 69,9 milioni di euro[5].
Dopo la fine della guerra fredda, tra il 1991 e il 1998 furono firmati degli accordi bilaterali di compensazione - simili a quelli degli anni '60 con i paesi occidentali[6] - con la Polonia, la Russia, l'Ucraina, la Bielorussia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania.