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venerdì 28 agosto 2020

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp. - Marco Palombi

Rete unica, ha vinto Tim. Ecco l’accordo con Cdp

A Chigi. Ieri il via libera giallorosa.
Per ora hanno vinto l’ad Luigi Gubitosi e i molti e molto variegati azionisti di Tim: il progetto Fibercop – una nuova società della rete – va avanti nelle modalità desiderate dall’ex monopolista, col sostegno unanime di governo e maggioranza (emerso ieri in un apposito vertice), dell’opposizione e pure dei sindacati. L’unanimità “giallorosa” non era peraltro un fatto scontato visto che i 5Stelle e un pezzo del Pd – a differenza di Roberto Gualtieri – erano sempre stati a favore di una nuova società a forte controllo pubblico che, fin dall’azionariato, garantisse imparzialità a tutti gli operatori. Così il cerino resta in mano a Enel, che possiede a metà l’altra azienda della rete, Open Fiber: il suo socio al 50%, la pubblica Cassa depositi e prestiti, è ormai pienamente coinvolto nell’operazione Fibercop (e d’altra parte Cdp si trova nell’imbarazzante situazione di essere anche il secondo azionista di Tim col 9,9%). Se la Borsa vale come indicatore: ieri Tim è salita di nuovo (+3,4%), Enel è scesa (-2,3%).
Ripartiamo dall’inizio. Risale agli anni Novanta la sciagurata privatizzazione di Telecom, venduta con tutta l’infrastruttura, che ci consegna oggi un’azienda con assai meno ricavi e molti più debiti di un tempo: ne hanno risentito in particolar modo gli investimenti. Com’è noto, la messa a terra della fibra in Italia è molto indietro e lo è da tempo. In uno dei suoi momenti di fantasia, l’allora premier Matteo Renzi decise che sarebbe stata Enel a cablare tutto lo Stivale: Francesco Starace, che era ed è l’amministratore delegato, si mise all’opera con Cassa depositi creando appunto Open Fiber (OF). I risultati sono rivedibili: molti soldi spesi, bilanci debolucci, ritardi inauditi, un futuro radioso sempre a venire. E ora ci sono due società a forte presenza pubblica, due progetti in concorrenza e ancora ritardi.
La società della rete. Se ne parla da oltre dieci anni e molto insistentemente dacché esiste OF. Perché non se n’è fatto nulla finora? Questione di soldi, in sostanza. Tim non può perdere la rete, che vale a bilancio 15 miliardi e garantisce con le banche gran parte dei suoi molti debiti: è dunque favorevole, ma solo se conserverà il 50% più un’azione. Opzione appoggiata da Gualtieri per un motivo semplice: se non si fa così, Tim non può reggere. Una grossa mano a Gubitosi, in questo senso, l’ha data l’offerta del fondo Usa Kkr: 1,8 miliardi di euro per acquisire il 38% della rete secondaria di Tim, ossia quella in rame e fibra che dall’armadietto in strada entra nelle case (valutazione totale: 7,7 miliardi). È su questa base – e grazie a un accordo con Fastweb – che si creerà FiberCop, la società in cui si prepara a investire Cdp.
Ora che succede. Dopo il via libera unanime arrivato al capo di Cdp Fabrizio Palermo in una riunione ieri a Palazzo Chigi (presenti Conte, molti ministri ed esponenti di tutti i partiti di maggioranza), lunedì il cda di Tim darà vita all’operazione FiberCop e discuterà del Memorandum of understanding con Cassa depositi. I dettagli finanziari vanno ancora definiti, ma la sostanza è che la pubblica Cdp si prepara a entrare in FiberCop conferendo la sua metà di OF (e forse anche con soldi); Tim conferirà a sua volta anche la rete primaria (quella che va dalla centrale agli armadietti). Alla fine l’ex monopolista dovrebbe restare con la maggioranza assoluta, Kkr e Cdp col 18% a testa, il resto diviso tra Fastweb, che parte col 4,4%, e altri investitori (ieri Tim ha stretto un pre-accordo con Tiscali che potrebbe preludere all’ingresso nel capitale di FiberCop).
La mediazione Gualtieri. Per convincere i colleghi il ministro ha detto due cose: questo è un primo passo per una futura società pubblica della rete (e così ha sedato i grillini), Tim avrà la proprietà, ma non il comando. Secondo quanto spiegato ieri da Palermo a Palazzo Chigi, funzionerà così: non regole definite nello Statuto, ma un patto di sindacato tra Tim e Cdp che preveda un presidente con deleghe forti scelto dalla Cassa, il gradimento della stessa società pubblica sull’ad e la prima linea del management. Ovviamente il tutto funziona se Gubitosi si impegna a fare gli investimenti che servono e magari se Cdp entra nel cda di Tim.
E ora Enel? Dovrà dire cosa vuol fare. I problemi, intrecciati, sono di due ordini: di soldi e reputazionali. Starace si è impuntato nel pretendere una supervalutazione di Open Fiber, che serve a riconoscere la bontà della sua iniziativa e garantirebbe a Enel di fare una plusvalenza su un investimento finora non oculato. Il fondo australiano Macquarie, secondo gli interessati, alla fine della due diligence in corso riconoscerà che OF vale 7 miliardi di euro, il doppio di quanto la valuta Tim. Problema: Starace, manager di un’azienda sostanzialmente pubblica, vorrà bloccare un’operazione che ha il sostegno di governo, maggioranza e opposizione?

martedì 4 agosto 2020

Trattativa ferma tra Cdp e Atlantia Slitta pure l’intesa sulla concessione. - Cdf

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Che il governo non si sarebbe presentato a Genova con lo scalpo ottenuto dell’uscita dei Benetton era noto da giorni. Ieri però si è aggiunto l’ulteriore allungamento dei tempi. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha ammesso che domani non ci sarà la firma con Autostrade per l’Italia (Aspi) per il rinnovo del Piano economico finanziario e del nuovo “Atto aggiuntivo”. È un passo fondamentale per riequilibrare la concessione a favore della parte pubblica in base all’accordo sancito col governo. Serviranno diversi incontri tecnici per capire se le proposte di Aspi sono coerenti con il nuovo modello tariffario voluto dall’Autorità dei Trasporti. L’intesa necessita poi di un parere dell’Avvocatura e dovrà infine passare al vaglio degli organi tecnici, a partire dal Cipe.
L’accordo è fondamentale per dare un valore ad Autostrade e sbloccare la trattativa tra Atlantia e la Cassa Depositi e Prestiti. Ieri gli uomini della holding controllata dai Benetton hanno chiesto un rinvio a metà settimana dell’incontro previsto in giornata. La distanza tra le parti è notevole. Nei piani del governo Cdp dovrebbe assumere il controllo con un aumento di capitale che la porti al 33% di Aspi, Atlantia venderebbe poi a investitori graditi alla Cassa un altro 22%, infine Aspi verrebbe scissa dalla holding e quotata permettendo ai soci, in primis i Benetton, di uscire. Manca però l’accordo su due punti fondamentali. Il primo è il valore di Aspi (sotto i 6 miliardi Altantia non avrebbe perdite a bilancio, sopra ci guadagnerebbe pure). La holding vuole anche un meccanismo compensativo in caso il valore della quotazione di Aspi risulti superiore a quello di ingresso di Cdp. Il secondo è la manleva legale chiesta da Cdp: Atlantia non ne vuole sapere.

venerdì 25 ottobre 2019

Il club degli ex JP Morgan sale ai vertici delle società di Stato. - Alessandro Graziani



la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

Con il cambio alla presidenza della Cdp tra l'uscente Massimo Tononi e il «rientrante» Giovanni Gorno Tempini (ne era stato amministratore delegato dal 2010) si celebra anche il simbolico passaggio di consegne tra un ex banchiere di Goldman Sachs a favore di un ex di JP Morgan, che ormai sta diventando sempre più il main partner bancario internazionale dell'indebitato Stato italiano. Non solo agendo come collocatore dei titoli di Stato, ma anche come «serbatoio» manageriale - replicando il ruolo che McKinsey ebbe venti anni fa nelle aziende private - per ruoli apicali di società pubbliche. La lista degli ex JP Morgan è ampia. E potrebbe allungarsi con il possibile ritorno in Italia di Vittorio Grilli.

Tornando per un attimo a Cdp. La nomina del presidente della Cassa è statutariamente in capo alle Fondazioni (ex?) bancarie, azioniste di minoranza della Cassa con il 15,93% del capitale, che ancora gravitano in via maggioritaria intorno all’asse di potere tra Fondazione Cariplo-Intesa su cui ha ancora un “ascendente” l'inossidabile ticket tra l’ex presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti e l’ex presidente di Intesa Sanpaolo Giovanni Bazoli. Entrambi politicamente vicini all'area dell’ex sinistra Dc guidata da Dario Franceschini, che ancora li rappresenta nel nuovo Pd di Governo.

Politica a parte, ma evitando di prescinderne poichè Cdp fa capo per l’82,7% al Ministero dell’Economia, la nomina di Gorno Tempini alla presidenza di Cdp evidenzia anche la consacrazione definitiva della scuola degli ex banchieri di JP Morgan come principale serbatoio manageriale per le società pubbliche italiane. La lista dei banchieri ex JP passati alla guida di società pubbliche è ampia e destinata ad allungarsi.

In Cdp il neo presidente Gorno Tempini ritroverà come amministratore delegato Fabrizio Palermo, che invece ha un passato in Morgan Stanley. Ma la lista dei banchieri “prestati” allo Stato che provengono dalla banca americana guidata da Jamie Dimon è lunga. A partire dall’amministratore delegato di Poste Italiane Matteo Del Fante, per 13 anni in JP Morgan e poi ai vertici di Terna prima di passare alla guida di Poste. Dove da un paio di anni è diventato “group cfo” Guido Maria Nola, ex country manager di JP Morgan per l'Italia. Tra i manager chiamati dallo Stato a guidare una società pubblica, c'è anche l'amministratore delegato di Mps Marco Morelli che è nato e cresciuto in JP Morgan (prima di passare a Intesa e poi a Bofa-Merrill Lynch). Dire che Jp Morgan stia diventando per le società pubbliche la “palestra” manageriale che è stata Mc Kinsey negli ultimi venti anni per banche e assicurazioni e' forse eccessivo.

È certo che con la temporanea uscita di scena di Tononi e prima di Claudio Costamagna, la generazione degli ex banchieri di Goldman Sachs nata con le privatizzazioni ha passato il testimone agli ex JP Morgan. Pattuglia che potrebbe rafforzarsi ulteriormente se anche l'ex direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, ora capo Europa e Middle East di JP Morgan, lasciasse Londra per tornare stabilmente in Italia (ha da poco comprato casa nel centro di Milano) entrando nella partita delle nomine ai vertici delle società pubbliche della primavera 2020.

Ma come si spiega l’ascesa degli ex JP Morgan ai vertici delle società statali italiani nell’ultimo decennio? JP Morgan è da sempre considerata un’istituzione finanziaria vicina ai Governi, in particolare di quelli che hanno un maxi debito pubblico da rifinanziare. Se fino all’inizio degli anni 2000 JP Morgan concorreva alla pari con le altre big americane sul mercato dei capitali, ormai da anni è diventata la big bank più grande del mondo occidentale (32,5 miliardi di utile nel 2018) con una capitalizzazione di Borsa che sfiora i 400 miliardi di dollari. Il suo contributo ai Governi iperindebitati può fare la differenza e di conseguenza i suoi suggerimenti, anche in politica economica, vengono tenuti nella giusta considerazione. Inutile dire che l’Italia è da anni un buon cliente per la banca Usa. Come dimostra la cosiddetta «operazione Cristal» finalizzata a favorire l’entrata dell’Italia nell’euro a fine ’99, rivelata per la prima volta nel febbraio del 2010 dal New York Times.

«Con l'aiuto di JP Morgan - scrisse il quotidiano americano - l'Italia riuscì nel suo intento. Nonostante alti deficit, un derivato attivato nel 1996 consentì di portare il budget italiano in linea con i parametri swappando valute con JP Morgan a un tasso di cambio favorevole e mettendo più soldi nelle mani del governo». L’aiuto non venne meno neanche durante la crisi del 2011, quando molte banche estere vendettero BTp e invece JP Morgan ne acquistò. Possibile che un Governo dipenda dai «desiderata» di una grande banca globale? Sicuramente no. Anche se qualche dubbio emerse nel maggio 2013 quando un corposo report di 4 analisti-economisti di JP Morgan scrisse che «i sistemi politici dei paesi del Sud Europa, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell'area europea». Probabilmente solo un «wishful thinking» di analisti. Anche se poi nel 2016 in Italia si svolse davvero un referendum per cambiare la Costituzione.

https://www.ilsole24ore.com/art/il-club-ex-jp-morgan-sale-vertici-societa-stato-AC9gWKu