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mercoledì 14 novembre 2018

Gioco online, le mani delle mafie sul mercato delle scommesse: 68 arresti tra Reggio Calabria, Catania e Bari. - Lucio Musolino

Gioco online, le mani delle mafie sul mercato delle scommesse: 68 arresti tra Reggio Calabria, Catania e Bari

Tre inchieste, tre procure (Reggio Calabria, Bari e Catania) coordinate dalla Dna: in carcere sono finiti importanti esponenti della criminalità organizzata ma anche diversi imprenditori che di fatto erano i prestanome dei clan. Dalle indagini, condotte anche dallo Scico di Roma, è emerso un giro d’affari superiore ai 4,5 miliardi di euro. L'indagato al telefono: "Cerco nuovi adepti nelle migliori università mondiali, non quattro scemi che fanno bam, bam".

Avevano bisogno di “quelli che cliccano, che movimentano” i soldi facendoli transitare da un Paese all’altro senza lasciar traccia delle transazioni online, non di quelli che fanno “bam bam”, cioè di quelli che sparano. E così avevano puntato tutto sul gioco online, impadronendosi – secondo la Direzione nazionale antimafia – del mercato delle scommesse. Tutte insieme: clan della ‘ndrangheta, famiglie mafiose siciliane e pugliesi che poi puntavano all’estero per riciclare il denaro.

Oltre 60 arresti in Puglia, Calabria e Sicilia – Sessantotto arresti (13 a Catania, 22 a Bari: si tratta di esponenti legati alle famiglie storiche della criminalità organizzata) e un’ottantina di perquisizioni sono stati eseguiti stanotte dalla guardia di finanza, dalla Dia, dalla polizia e dai carabinieri. Tre inchieste, tre procure (Reggio Calabria, Bari e Catania) e centinaia di uomini impegnati nel blitz coordinato dalla Dna e dal procuratore Federico Cafiero De Raho. In sostanza le mafie si sono spartite e controllano il mercato della raccolta illecita delle scommesse on line. 

Volume d’affari da 4,5 miliardi di euro – Oltre all’ordinanza di custodia cautelare emessa dalla procura di Bari e ai due provvedimenti di fermo eseguiti dalle Dda di Reggio Calabria e Catania, c’è stato un sequestro di beni in Italia e all’estero per oltre un miliardo di euro. Il volume delle giocate relative agli eventi sportivi, e non solo, era molto più vasto. Dalle indagini, condotte anche dallo Scico di Roma, infatti è emerso un giro d’affari superiore ai 4,5 miliardi di euro.
Imprenditori e prestanome – In carcere sono finiti importanti esponenti della criminalità organizzata pugliese, reggina e catanese. Ma anche diversi imprenditori che, stando alla ricostruzione degli inquirenti, di fatto erano i prestanome dei clan. Le tre procure contestano i reati di associazione mafiosa, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggioautoriclaggio, illecita raccolta di scommesse on line e fraudolenta sottrazione ai prelievi fiscali dei relativi guadagni. In Calabria, in Sicilia e in Puglia il sistema è pressoché lo stesso: seguendo il percorso del denaro utilizzato per scommettere su internet, la guardia di finanza è riuscita a ricostruire come i gruppi criminali coinvolti nell’inchiesta si sono spartiti e controllavano, con modalità mafiose, il mercato delle scommesse clandestine on line.
I sequestri da Malta a Curacao – Il tutto utilizzando diverse piattaforme gestite dalle stesse organizzazioni. I soldi, accumulati illegalmente, venivano poi reinvestiti in patrimoni immobiliari e posizioni finanziarie all’estero intestati a persone, fondazioni e società, tutte ovviamente schermate grazie alla complicità di diversi prestanome. E proprio per rintracciare il patrimonio accumulato ed effettuare i sequestri è stata fondamentale la collaborazione di Eurojust e delle autorità giudiziarie di Austria, Svizzera, Regno Unito, Isola di Man, Paesi Bassi, Curacao, Serbia, Albania, Spagna e Malta.
Le giovani leve dei “teganini” – Nel corso di una conferenza stampa che si terrà stamattina a Roma, nella sede della Dna, saranno illustrati i dettagli delle tre operazioni che, per quanto riguarda la ‘ndrangheta, sono state coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri e dai sostituti della Dda Stefano Musolino e Sara AmerioIl provvedimento di fermo ha riguardato anche le giovani “leve” delle cosche. In particolare, nel provvedimento di fermo sono finiti alcuni dei “teganini”, i figli dei boss Tegano che, assieme ai De Stefano e i Condello, hanno fatto la storia criminale della città dello Stretto.
Il ruolo dei “teganini” – Tra i destinatari del provvedimento di fermo c’è Domenico Tegano, detto “Mico”, figlio del boss ergastolano don Pasquale. Quest’ultimo dopo anni di latitanza era stato catturato nel 2004 e, da allora, è detenuto al 41 bis nel carcere di Spoleto perché ritenuto dagli inquirenti un “elemento verticistico della cosca”. Mico Tegano è il suo primogenito e, secondo gli investigatori, ha un carisma “fuori dal comune”. Fino a ieri erano conosciuti in città per aver terrorizzato la movida reggina con risse, estorsioni, spaccio di cocaina e controllo quasi militare dei lidi sul lungomare di Reggio. Oltre alle tradizionali attività criminali, però, il rampollo si occupava di scommesse e da anni è solito recarsi anche all’estero. Di Mico Tegano ne ha parlato anche il collaboratore Mariolino Gennaro che, prima di pentirsi, era l’uomo della cosca che, da Malta, gestiva gli affari legati alle scommesse online.
L’esuberanza dei “baby boss” – Il pentito ha raccontato al pm Musolino di quando Mico Tegano ha piazzato una bomba in una delle sue sale giochi solo perché si era rifiutato di dare dei soldi al figlio del boss intanto cresciuto e a capo di un “un gruppo malavitoso di 40 persone tutti facenti parte della zona di Archi”. I Teganini appunto che, nell’ultimo periodo, hanno creato non pochi problemi a Reggio Calabria. Un paio d’anni fa sono arrivati ad aggredire anche due poliziotti intervenuti a sedare una rissa. Proprio per l’esuberanza dei baby boss, con le altre cosche si sono registrate frizioni che, in determinati momenti, stavano per degenerare. Approfittando del fatto che i mammasantissima sono tutti, o quasi, in carcere, i “teganini” stavano cercando di ridiscutere gli accordi sulle estorsioni e non sono mancate le intimidazioni e i danneggiamenti anche ad esponenti storici della ‘ndrangheta reggina.
L’inchiesta del 2015 e gli “adepti” – L’operazione di oggi quindi prende le mosse dall’inchiesta “Gambling” che nel 2015 aveva portato all’arresto di Mario Gennaro. Le sue dichiarazioni ai magistrati avevano confermato i sospetti della Dda di Reggio Calabria sull’interessamento della ‘ndrangheta nel settore delle scommesse. Già nelle intercettazioni dell’epoca gli indagati parlavano di “pennette” e “percentuali nelle scommesse”. La collaborazione del pentito Gennaro, che dal pm Sara Amerio in un interrogatorio è stato definito “la rappresentazione vivente della ‘ndrangheta unitaria”, si è rivelata fondamentale per riscontrare quello che il pm Stefano Musolino e la guardia di finanza avevano già scoperto in quegli anni e che può essere sintetizzato in un’intercettazione finita agli atti dell’inchiesta. Una conversazione tra indagati in cui uno di loro spiega la nuova frontiera delle cosche: “Io cerco i nuovi adepti nelle migliori università mondiali e tu vai ancora alla ricerca di quattro scemi in mezzo alla strada che vanno a fare così.. Bam, bam!!. Io cerco quelli che fanno così, invece: Pin, pin!! Che cliccano! Quelli cliccano e movimentano… È tutta una questione di indice, capito?”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 14 novembre 2018

giovedì 3 gennaio 2013

Direzione nazionale antimafia, ridate quel posto a Caselli. - Benny Calasanzio Borsellino


Dopo lo “spostamento” di ruolo di Pietro Grasso da procuratore nazionale antimafia a candidato del Partito Democratico alle prossime elezioni politiche (“il Pd è la mia casa”, e gente come Vladimiro Crisafulli il suo coinquilino), si è aperta la corsa alla successione del magistrato palermitano che era stato giudice a latere nel maxiprocesso a cosa nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E si fanno già i primi nomi: dai più affascinanti ma che francamente hanno poche possibilità, come Ilda Boccassini e Roberto Scarpinato, a quelli più probabili, come Franco Roberti e Roberto Alfonso.
Durante la conferenza stampa in cui ha annunciato la sua candidaturaAntonio Ingroia ha provato a ristabilire una verità troppo spesso dimenticata: nel 2005, dopo la fine dell’incarico di Pier Luigi Vigna, il magistrato destinato a ricoprire la funzione di procuratore nazionale antimafia, a parere di molti, era Giancarlo Caselli. Il decreto legge del 20 novembre 1991, convertito il 20 gennaio successivo, all’art. 6 prevedeva infatti che “alla Direzione è preposto un magistrato avente qualifica non inferiore a quella di magistrato di Cassazione (Caselli lo era dal 1991, Nda), scelto tra coloro che hanno svolto anche non continuativamente, per un periodo non inferiore a dieci anni, funzioni di pubblico ministero o giudice istruttore, sulla base di specifiche attitudini, capacità organizzative ed esperienze nella trattazione di procedimenti relativi alla criminalità organizzata. L’anzianità nel ruolo può essere valutata solo ove risultino equivalenti i requisiti professionali”.
Dal 15 gennaio del 1993, giorno dell’arresto di Totò Riina, fino al 1999 Caselli era stato procuratore capo a Palermo dando il via ad un’irripetibile stagione interrotta proprio dall’arrivo di Pietro Grasso, considerato, anche da molti magistrati di quella procura, un “normalizzatore”.
Ma il provvidenziale governo Berlusconi, grazie all’emendamento firmato dall’ex An Luigi Bobbio presentato nell’ambito della controriforma dell’ordinamento giudiziario, cancellò per sempre la possibilità che il canuto magistrato piemontese sedesse su quella poltrona. L’emendamento indicava infatti come tetto massimo per l’assegnazione degli incarichi direttivi l’età di 66 anni ed escludeva coloro che non potevano garantire quattro anni di presenza prima dell’età pensionabile. Mancava solo che ci fosse scritto che erano esclusi dalla “gara” tutti quelli che avevano un cognome che iniziasse con “C” e finisse con “aselli”. Anche se sembra (ed effettivamente era) una legge contra personam, che doveva far pagare a Caselli le sue indagini sui rapporti mafia politica, in testa il processo Andreotti, Piero Grasso accettò l’incarico senza fare una piega. Mors tua vita mea.
Nessuna sorpresa, dunque, quando nel maggio scorso, a pochi giorni dal ventesimo anniversario della strage di Capaci, Grasso fece la memorabile e blasfema dichiarazione: “darei un premio speciale a Silvio Berlusconi e al suo governo per la lotta alla mafia”. E per forza (Italia): senza Silvio e gli altri sventurati il buon Grasso mai sarebbe riuscito a diventare procuratore nazionale, sovrastato per esperienza, coraggio e carisma dal buon Caselli.
Per queste ragioni, dopo lo scippo del 2005, sarebbe giusto e soprattutto necessario, vista la carriera e le capacità unanimemente riconosciute a Giancarlo Caselli, che quel posto venga oggi assegnato, o meglio, ridato a lui.