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mercoledì 20 ottobre 2021

Povero Matteo!

 

E,..  si, povero Matteo: 

Renzi, Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, indagati per finanziamento illecito ai partiti.

La brama di potere lo ha incastrato in un cul de sac.

La fondazione Open, diretta da Matteo Renzi, nata per finanziare la sua attività politica e la sua ascesa da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi, presieduta dall’avvocato Alberto Bianchi, e i cui componenti il consiglio direttivo erano Carrai, Lotti e Boschi, è caduta sotto il mirino della magistratura per: finanziamento illecito ai partiti, traffico di influenze, corruzione e riciclaggionell’ambito di un’inchiesta della procura di Firenze riguardo importanti versamenti in denaro effettuati da vari finanziatori esterni. 

Nel mirino dei pm sono finiti anche i numerosi finanziatori residenti in Italia, presso i quali la procura sta già effettuando le dovute perquisizioni.

Staremo a vedere, seguiremo gli sviluppi.

cetta

lunedì 10 febbraio 2020

Prestito per villa di Renzi, sotto la lente anche un bonifico di Serra. - Ivan Cimmarusti e Sara Monaci

Risultato immagini per renzi

Non c’è solo il finanziamento per l’acquisto della casa da parte di Matteo Renzi sotto la lente degli inquirenti fiorentini. Ci sarebbe anche la modalità di restituzione del denaro a Anna Picchioni, madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, da cui l’ex premier ha ricevuto un prestito di 700mila euro tramite bonifico per comprare la sua villa a Firenze. In particolare, le verifiche si concentrano su una dazione giunta dal finanziere Davide Serra e utilizzata da Renzi, assieme ad altre somme, per saldare quel debito.

Il prestito è stato in effetti restituito dopo quattro mesi. La storia però sembrerebbe più complicata. O meglio, potrebbe avere qualche aspetto ulteriore da approfondire.
Sulla base di una segnalazione di operazione sospetta (Sos) arrivata al Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Firenze, al comando del colonnello Luca Levanti, nel 2018 dal nucleo Valutario della Gdf si chiede un approfondimento ulteriore rispetto a una precedente Sos che riguardava proprio la signora Picchioni, nell’ambito di un fascicolo di un caso di bancarotta di un piccolo imprenditore fiorentino.
Si spiega dunque che Picchioni aveva ricevuto un finanziamento da parte di suoi familiari (i figli) per 700mila euro, finalizzato a effettuare un prestito ai coniugi Matteo Renzi e Agnese Landini per l’acquisto di un immobile valutato complessivamente 1,4 milioni di euro. Successivamente, nel giugno 2018, la cifra è stata restituita con un versamento dal conto corrente dei coniugi a favore di Anna Picchioni a titolo di «restituzione prestito».
La provvista per la restituzione del denaro che parte dal conto personale di Renzi, ora sotto la lente degli inquirenti, era di 500mila euro, presso la Bnl (filiale di Roma). Dall’analisi dell’estratto conto emerge che il senatore ha ricevuto 119mila euro da Celebrity speakers e Mind Agency per attività di conferenziere e 454mila euro dalla Arcobaleno 3 srl per la sua attività di personaggio televisivo; il resto dal fondo Algebris Uk, riconducibili a Davide Serra.
L’inchiesta è in una fase preliminare, dunque ancora tutta da verificare. Ruota attorno alla Fondazione Open, l’ente creato nel 2012 e chiuso nel 2018 per sostenere le iniziative politiche di Matteo Renzi. Una «articolazione di un partito», secondo l’accusa, che raccoglieva «finanziamenti illeciti alla politica». Ipotesi d’accusa smentita dal leader di Italia Viva, che contro la magistratura fiorentina non nasconde una certa nota polemica. Risultano indagati l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione, e il presidente di Toscana Aeroporti spa Marco Carrai, ex consigliere di Open assieme al resto del “Giglio magico”, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’accusa preliminare è di finanziamento illecito e traffico di influenze.
Stando agli atti investigativi un ruolo decisivo sarebbe stato svolto da Carrai, tanto che nei documenti si legge che «l’indagato ha svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori e nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione». Un sostanziale incarico di “cerniera”, dunque, tra 25 imprenditori e lo stesso Renzi, almeno stando alle ricostruzioni preliminari della magistratura fiorentina. Di fatto, però, si è scoperto che somme di denaro sarebbero finite anche in altre “casseforti”. Negli atti, infatti, si fa riferimento a movimentazioni finanziarie verso Lussemburgo. In particolare «risulta che l’indagato (Carrai, ndr) è tra i soci della società Wadi Ventures Management Company sarl con sede a Lussemburgo il cui unico asset è la società Wadi Ventures sca, anch’essa con sede in Lussemburgo e con oggetto sociale le partecipazioni societarie». Secondo gli investigatori quest’ultima società sarebbe destinataria di «somme provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori della Fondazione Open».

https://www.ilsole24ore.com/art/prestito-villa-renzi-sotto-lente-anche-bonifico-serra-ACuffX2

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domenica 15 dicembre 2019

Craxi amari. - Luisella Costamagna

Craxi amari

Per evitare il tritacarne delle opinioni contrastanti su Matteo Renzi, è bene affidarsi ai dati di fatto. E il primo, inequivocabile, dato di fatto è che Renzi ieri ha parlato al Senato per rispondere all’inchiesta che riguarda la sua fondazione e attaccare i magistrati, chiamando su questo a raccolta tutta la politica e citando come auctoritates Giovanni LeoneAldo Moro e – soprattutto – Bettino Craxi. Poi uno dice la separazione e il rispetto tra poteri dello Stato…
Il secondo dato di fatto è che sul finanziamento pubblico ai partiti gli italiani si sono espressi con estrema chiarezza nel referendum del ’93, in occasione del quale il 90,3%, pari a 31 milioni di elettori, votò per l’abolizione. Ed è un altro dato di fatto che poi, negli anni, la politica abbia cercato di “aggirare” quel voto, per garantirsi comunque fondi per finanziarsi – perché la politica costa (non ditelo a noi italiani…) – attraverso rimborsi elettorali e fondazioni.
Tutto legale, per carità – anche perché le leggi se le facevano loro – ma un ulteriore dato di fatto è che le fondazioni politiche sono spuntate come funghi e non sempre c’è stata piena trasparenza su bilanci e finanziatori (me n’ero occupata, ad esempio, a proposito della Fondazione Kairos di Alessandra Moretti per le elezioni regionali in Veneto). Tutto legale dunque, ma fino a prova contraria.
E siamo alla fondazione Open e a Renzi: su eventuali problemi di natura penale – si sta indagando per finanziamento illecito, corruzione, riciclaggio – spetta, certo, solo alla magistratura fare piena luce e pronunciarsi.
Ma sul prestito da 700mila euro per l’acquisto della casa, sia pure usato parzialmente e restituito, fatto da un imprenditore a un ex presidente del Consiglio, che qualche anno prima lo aveva nominato nel cda di una società di Cassa Depositi e Prestiti (quindi pubblica), si pone indubbiamente un problema, se non di natura penale, di opportunità (ed eventuale conflitto d’interessi).
Infine, l’ultimo dato di fatto: se la valutazione della politica spetta ai cittadini, agli italiani, e non alla “barbarie” di magistrati e media “politicizzati e strumentali”, affidiamoci a loro. E a vedere i sondaggi il consenso per Renzi e il suo nuovo partito invece di salire cala – anche in virtù di queste vicende, degli attacchi e delle querele ai giornalisti – e ora è tra il 3 e il 4% massimo. Non se n’è già parlato (e ne stiamo parlando) pure troppo? Sipario.

venerdì 13 dicembre 2019

Open, le carte: “Nelle mail di Bianchi al governo Renzi le richieste di emendamenti graditi ai finanziatori della Fondazione”.

Open, le carte: “Nelle mail di Bianchi al governo Renzi le richieste di emendamenti graditi ai finanziatori della Fondazione”

I messaggi sono stati sequestrati dalla Guardia di Finanza nell'ambito dell'inchiesta su Open, la fondazione cassaforte dell'ex premier. Contenevano indicazioni e richieste che venivano recapitate ai vertici di governo quando l'ex segretario Pd era a Palazzo Chigi. Trovati anche una busta con una carta ricaricabile con scritto: "Bancomat Luca Lotti reso il 23 febbraio 2017 - Vecchia".

Una mail del 25 settembre 2014 con proposte di emendamenti allo “Sblocca Italia” inviate dalla segreteria dello studio di Alberto Bianchi alla posta elettronica di Antonella Manzione, ex capo dei vigili di Firenze nominata responsabile dell’ufficio Affari legislativi di Palazzo Chigi, quando il presidente del consiglio era Matteo Renzi. E poi un altro messaggio di posta elettronica che il 14 aprile 2014 l’avvocato Bianchi gira a Luca Lotti: è la mail di Luigi Scordamaglia, imprenditore diventato finanziatore della fondazione Open, la cassaforte che ha accompagnato l’ascesa politica dell’ex sindaco di Firenze. E un altro scambio tra Bianchi e Lotti in cui l’avvocato spiega di aver versato a Open e al comitato per il Sì al referendum costituzionale parte dei soldi ricevuti dall’avvocato dal gruppo Toto e dalla British American Tobacco.

L’inchiesta – Sono le comunicazioni che secondo Repubblica e Corriere della Sera la Guardia di Finanza ha sequestrato nell’ambito dell’inchiesta sulla fondazione renziana, che era presieduta dallo stesso Bianchi, indagato per traffico di influenze e finanziamento illecito ai partiti. Secondo i magistrati il legale avrebbe favorito gli interessi dei finanziatori di Open, intercedendo con i vertici del governo. Nel registro degli indagati è finito per finanziamento illecito anche Marco Carrai, storico componente del Giglio magico e consigliere di amministrazione di Open. Anche Luca Lotti e Maria Elena Boschi sedevano nel cda dell’ente privato chiuso dopo che l’ex premier ha perso la leadership del partito. Nelle comunicazioni sequestrate, in pratica, quelli che erano i finanziatori della fondazione inviavano mail con richieste di emendamenti e modifiche a leggi in quel momento in discussione. Bianchi si incaricava di farle pervenire ai vertici di governo.

Le accuse – È proprio per fare chiarezza su quei finanzimenti che la procura di Firenze ha aperto un’indagine. In pratica secondo gli inquirenti alcuni finanziatori agiravano le regole pagando parcelle allo stesso avvocato Bianchi, che poi trasferiva i soldi a Open e interveniva con Palazzo Chigi per perorare gli interessi dei clienti- donatori. Parallelamente, altri donatori della fondazione renziana avrebbero finanziato le società di Carrai in Italia e all’estero: il sospetto degli investigatori è che anche quel modo fosse un escamotage per veicolare altri soldi.

La mail – Sospetti legati alle migliaia di atti acquisiti dagli investigatori durante le perquisizioni, il cui contenuto è riassunto negli atti depositati in vista dell’udienza davanti al tribunale di Riesame. In un “fascicolo rosso” trovato nello studio di Bianchi gli investivatori scrivono di aver trovato una “cartellina bianca intestata Sblocca Italia emendam contenente una mail del 25 settembre 2014 inviata dalla segreteria studio Alberto Bianchi e diretta a a.manzione@governo.it avente ad oggetto ‘emendamento’ e come allegato ‘proposta di emendamento dl sblocca Italia‘ e lo schema decreto legge misure urgenti per l’ apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’ emergenza del dissesto idrogeologico per la ripresa delle attività produttive”.

I soldi di Toto e delle sigarette – Un capitolo a parte hanno le comunicazioni tra Bianchi e Lotti. “Particolarmente significativo – scrivono i finanzieri – è l’appunto indirizzato da Bianchi a Lotti, datato 12 settembre 2016; in tale appunto Bianchi riferisce di aver avuto 750K “sulla base dell’ accordo con Toto” e che riceverà 80K “sulla base dell’ accordo con British American Tobacco“; quindi, informa di aver determinato, con l’ aiuto del commercialista il netto di 830K (750 + 80) in euro 400.838, somma che dichiara di aver versato per intero alla Fondazione Open ed al Comitato nazionale per il sì”. Nelle informative della finanza emerge “l’interessamento dell’ onorevole Luca Lotti all’epoca sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri” nella vicenda del contenzioso tra Autostrade e il gruppo Toto. Bianchi assisteva il gruppo Toto e secondo gli investigatori si sarebbe confrontato con Lotti “i primi del mese di gennaio 2016… Avrebbe avuto una riunione e consegnato l’ appunto Toto, riferendogli l’esito di un incontro tenutosi il 5 aprile 2016 in merito alle trattative in corso“. Cioè il contenzioso in quel momento aperto tra il raggruppamento di imprese di cui faceva parte Toto e Autostrade per l’Italia. Secondo gli appunti sequestrati nello studio di Bianchi, l’avvocato voleva anche parlare con l’allora ministro delle Infrastrutture Graziano Del Rio, ma l’incontro non ci fu mai.

La parcella girata alla fondazione – Un interesse sarebbe stato dimostrato anche da Carrai. “Dall’esame della corrispondenza email e degli appunti manoscritti emerge che, ai fini delle trattative con Aspi, I’avvocato Alberto Bianchi si è avvalso di Carrai il quale avrebbe avuto contatti diretti e/o incontri con l’ amministratore delegato di Aspi, Castellucci“. È in questo quadro che Bianchi incassa 750mila euro dal gruppo Toto e ne versa 400mila euro a Open. “Le operazioni di trasferimento di denaro dal gruppo Toto a Bianchi e da Bianchi alla fondazione Open risultano in effetti dissimulare un trasferimento diretto di denaro dal gruppo a Open“, scrivono gli investigatori, specificando che Bianchi “si è interessato a modifiche inerenti il settore delle infrastrutture autostradali“. I pm Luca Turco e Antonino Anastasi spiegano che durante le perquisizioni “è stata rinvenuta documentazione afferente l’intromissione di Bianchi con riguardo a proposte di modifiche normative concernenti il differimento del pagamento dei canoni di concessione autostradale“.

I soldi alle società di Carrai – Sia Bianchi che Lotti erano nel cda di Open, ragione che per gli avvocati giustifica anche queste comunicazioni. Ma i pm vogliono capire se i finanziatori della fondazione che sosteneva Renzi abbiano goduto di eventuali vantaggi legislativi in loro favore dai governi guidati dal segretario del Pd. Già a fine novembre gli investigatori delle Fiamme gialle sono andati a perquisire le società che hanno finanziato la fondazione vicina all’ex premier: dal gruppo titolare di concessioni autostradali all’armatore Onorato fino, appunto, alla British american tobacco. Non sono indagati ma gli inquirenti vogliono “accertare quali siano i rapporti instauratisi tra la fondazione e i soggetti finanziatori”. La Finanza indaga anche sulle società di Carrai in Lussemburgola Wadi Ventures Management e Wadi Ventures Sea . Scrivono gli investigatori: “Va evidenziato come tali iniziative imprenditoriali (sia quelle lussemburghesi che quelle italiane) sono state avviate e portate avanti in concomitanza temporale con le attività della fondazione. Le acquisizioni investigative evidenziano l’ intreccio tra iniziative imprenditoriali e finanziamenti alla Open”. Nel dettaglio: “Wadi Ventures risulta destinataria di somme di denaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani gia finanziatori della Fondazione Open. Le risorse finanziarie appaiono essere state utilizzate per acquisire partecipazioni in società ancora non individuate“.

Il bancomat di Lotti – Poi c’è tutta la questione delle carte bancomat. Nella prima perquisizione del 18 settembre nello studio di Bianchi vengono trovate due buste: sulla prima c’è scritto il nome di Eleonora Chirichetti, che era la segretaria di Lotti e dentro c’è una carta ricaricabile della Banca di Cambiano. Sulla seconda busta è scritto: “Bancomat Luca Lotti reso il 23 febbraio 2017 – Vecchia”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/12/13/open-le-carte-nelle-mail-di-bianchi-al-governo-renzi-le-richieste-di-emendamenti-graditi-ai-finanziatori-della-fondazione/5613406/

lunedì 2 dicembre 2019

Prestito per villa di Renzi, sotto la lente anche un bonifico di Serra. - Ivan Cimmarusti e Sara Monaci




Non c’è solo il finanziamento per l’acquisto della casa da parte di Matteo Renzi sotto la lente degli inquirenti fiorentini. Ci sarebbe anche la modalità di restituzione del denaro a Anna Picchioni, madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, da cui l’ex premier ha ricevuto un prestito di 700mila euro.

Non c’è solo il finanziamento per l’acquisto della casa da parte di Matteo Renzi sotto la lente degli inquirenti fiorentini. Ci sarebbe anche la modalità di restituzione del denaro a Anna Picchioni, madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, da cui l’ex premier ha ricevuto un prestito di 700mila euro tramite bonifico per comprare la sua villa a Firenze. In particolare, le verifiche si concentrano su una dazione giunta dal finanziere Davide Serra e utilizzata da Renzi, assieme ad altre somme, per saldare quel debito.

Il prestito è stato in effetti restituito dopo quattro mesi. La storia però sembrerebbe più complicata. O meglio, potrebbe avere qualche aspetto ulteriore da approfondire.

Sulla base di una segnalazione di operazione sospetta (Sos) arrivata al Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Firenze, al comando del colonnello Luca Levanti, nel 2018 dal nucleo Valutario della Gdf si chiede un approfondimento ulteriore rispetto a una precedente Sos che riguardava proprio la signora Picchioni, nell’ambito di un fascicolo di un caso di bancarotta di un piccolo imprenditore fiorentino.

Si spiega dunque che Picchioni aveva ricevuto un finanziamento da parte di suoi familiari (i figli) per 700mila euro, finalizzato a effettuare un prestito ai coniugi Matteo Renzi e Agnese Landini per l’acquisto di un immobile valutato complessivamente 1,4 milioni di euro. Successivamente, nel giugno 2018, la cifra è stata restituita con un versamento dal conto corrente dei coniugi a favore di Anna Picchioni a titolo di «restituzione prestito».

La provvista per la restituzione del denaro che parte dal conto personale di Renzi, ora sotto la lente degli inquirenti, era di 500mila euro, presso la Bnl (filiale di Roma). Dall’analisi dell’estratto conto emerge che il senatore ha ricevuto 119mila euro da Celebrity speakers e Mind Agency per attività di conferenziere e 454mila euro dalla Arcobaleno 3 srl per la sua attività di personaggio televisivo; il resto dal fondo Algebris Uk, riconducibili a Davide Serra.
L’inchiesta è in una fase preliminare, dunque ancora tutta da verificare. Ruota attorno alla Fondazione Open, l’ente creato nel 2012 e chiuso nel 2018 per sostenere le iniziative politiche di Matteo Renzi. Una «articolazione di un partito», secondo l’accusa, che raccoglieva «finanziamenti illeciti alla politica». Ipotesi d’accusa smentita dal leader di Italia Viva, che contro la magistratura fiorentina non nasconde una certa nota polemica. Risultano indagati l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione, e il presidente di Toscana Aeroporti spa Marco Carrai, ex consigliere di Open assieme al resto del “Giglio magico”, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’accusa preliminare è di finanziamento illecito e traffico di influenze.

Stando agli atti investigativi un ruolo decisivo sarebbe stato svolto da Carrai, tanto che nei documenti si legge che «l’indagato ha svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori e nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione». Un sostanziale incarico di “cerniera”, dunque, tra 25 imprenditori e lo stesso Renzi, almeno stando alle ricostruzioni preliminari della magistratura fiorentina. Di fatto, però, si è scoperto che somme di denaro sarebbero finite anche in altre “casseforti”. Negli atti, infatti, si fa riferimento a movimentazioni finanziarie verso Lussemburgo. In particolare «risulta che l’indagato (Carrai, ndr) è tra i soci della società Wadi Ventures Management Company sarl con sede a Lussemburgo il cui unico asset è la società Wadi Ventures sca, anch’essa con sede in Lussemburgo e con oggetto sociale le partecipazioni societarie». Secondo gli investigatori quest’ultima società sarebbe destinataria di «somme provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori della Fondazione Open».


PER APPROFONDIRE:

venerdì 14 dicembre 2018

Condotte, il colosso del cemento fa crac. E spuntano i contratti d'oro del Giglio di Renzi. - Emiliano Fittipaldi

Condotte, il colosso del cemento fa crac. E spuntano i contratti d'oro del Giglio di Renzi
Maria Elena Boschi e il fratello Emanuele

Inchiesta della procura di Roma sul fallimento della terza società di costruzioni d’Italia. L’Espresso scopre un contratto fatto dal gruppo (che deve costruire la nuova stazione Tav a Firenze) a Emanuele Boschi, il fratello dell’ex ministro Maria Elena. Mentre gli operai non prendono lo stipendio, per lui consulenza da 150 mila euro. Incarico anche ad Alberto Bianchi, l’ex presidente della fondazione Open Matteo Renzi.


Da qualche settimana la procura di Roma sta lavorando a un'indagine giudiziaria che preoccupa, e non poco, un pezzo del potere romano. Al momento non ci sono indagati, ma durante i cocktail e le cene prenatalizie di questi giorni imprenditori, banchieri, dirigenti d'azienda e politici fanno capannelli per tentare di recuperare un retroscena, o uno straccio di informazione attendibile. Anche il Giglio magico, il gruppo di politici fedelissimi vicini a Matteo Renzi, segue con attenzione gli sviluppi. Perché, se i dettagli in circolazione sono pochissimi, tutti sanno che il crac di Condotte per l'Acqua spa, una delle più grandi aziende di costruzioni del paese a un passo dal fallimento, nasconde segreti e scandali che potrebbero fare molto rumore.

ESPRESSO +  L'INCHIESTA INTEGRALE 

Se i pm capitolini e la polizia giudiziaria, in primis il nucleo di polizia tributaria della Guarda di Finanza di Roma, non fiatano, l'Espresso ha lavorato a un'inchiesta autonoma. E nel numero di domenica prossima, attraverso testimonianze ed interviste, la consultazione di alcune relazioni dei commissari straordinari di Condotte spedite in procura, decine di documenti interni della società e delle sue controllate, contratti di consulenza, dossier dell'Anac e carte di altre procure della Repubblica, è in grado di ricostruire – al netto dei possibili e futuri rilievi penali - la storia di uno dei più grandi fallimenti del nuovo secolo.

Che si intreccia, come vedremo, ad alcuni affari d’oro di esponenti di primo piano del cerchio magico dell'ex premier. Come quelli del fratello di Maria Elena Boschi, il giovane Emanuele, e di Alberto Bianchi, consigliere e avvocato di Renzi e per anni numero uno della Fondazione Open.


Entrambi hanno infatti ottenuto contratti di consulenza da due controllate di Condotte, la Inso (che ha firmato il contratto con Boschi attraverso lo studio legale BL, tra i cui partner c'è anche il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi) e la Nodavia spa. Cioè le due società che stanno lavorando alla realizzazione della nuova Tav di Firenze e che, secondo i nuovi commissari, hanno contribuito «in maniera significativa» al crac dell'impero. 

Committente dell’opera è Rfi, controllata da Ferrovie dello Stato. 

Per la cronaca spulciando l’agenda elettronica della proprietaria di Condotte e delle sue controllate, Isabella Bruno Tolomei Frigerio, l’Espresso ha scoperto che ministri ed esponenti del governo Renzi e del governo Gentiloni hanno avuto alcuni appuntamenti con la donna, l’amministratore delegato del gruppo (il marito Duccio Astaldi, arrestato lo scorso marzo per corruzione in un’inchiesta della procura di Messina) e Franco Bassanini. Al tempo presidente del consiglio di sorveglianza di Condotte e pure “consigliere speciale” a Palazzo Chigi prima di Renzi e poi di Gentiloni. 

Nodavia firma un contratto a Bianchi, al tempo capo della Fondazione Open, nel 2016. La Inso, controllata da Condotte, decide invece di prendere a bordo Emanuele Boschi, il 35enne fratello di Maria Elena, nel 2018.
Come mai la società che lavora alla Tav di Firenze vuole assumere il giovane professionista? È il 9 maggio quando si riunisce il collegio sindacale della società. La crisi del gruppo è drammatica. Nelle settimane precedenti gli operai del cantiere della Stazione Foster avevano protestato duramente, anche scioperando, perché non gli venivano pagati gli stipendi. Per il giovane Boschi, invece, la Inso è pronta a staccare un assegno a cinque zeri. E da pagare pronta cassa.

Leggendo il verbale della riunione, è chiaro che i membri del collegio sindacale non sono convinti della decisione «dei vertici aziendali» di conferire a Boschi, «che già conosce la società» (aveva dunque avuto altri incarichi in passato?), un expertise legale. Così i sindaci chiedono al cda di selezionare l'esperto «tra una rosa» più ampia «di possibili candidati». Anche allo scopo di risparmiare: i suggerimenti di Romagnoli e Lisi costavano già un sacco di soldi.


Non sappiamo quali sono stati i contendenti di Emanuele per la ricca consulenza, ma è certo che tre settimane dopo, il 31 maggio (ultimo giorno in cui la sorella è a Palazzo Chigi come sottosegretario della presidenza del Consiglio) sarà proprio lui a conquistare l'incarico e la relativa parcella.L'Espresso ha visionato il contratto, una scrittura privata su carta intestata dello studio BL, i cui tre soci sono lo stesso Boschi, Federico Lovadina e Francesco Bonifazi, altro petalo del Giglio magico e tesoriere del Pd. Vengono elencate le prestazioni, il compenso finale (150 mila euro, a cui aggiungere l'Iva, la cassa di previdenza e spese varie), e la modalità di pagamento. I manager di Inso scrivono che «gli importi fatturati» da Boschi «saranno da pagarsi “a vista fattura”».

 

Boschi è fortunato: quando va bene, e anche in tempi di vacche grasse, i professionisti vengono in genere pagati a 60 giorni.

Ancor più curiosa, la decisione di Inso, visto il momento drammatico, con operai senza stipendio e il posto a rischio. Forse anche per questo l'ultimo articolo del contratto evidenzia una severa clausola di riservatezza: «Inso si obbliga a non divulgare a terze parti il contenuto del presente conferimento d'incarico, che riveste carattere di riservatezza per espressa pattuizione delle parti».



Il crac di Condotte e quelle ricche consulenze a parenti e amici di Renzi e Boschi.


Il crac di Condotte e quelle ricche consulenze a parenti e amici di Renzi e Boschi
Maria Elena Boschi con Alberto Bianchi, legale di Matteo Renzi e presidente della fondazione Open

Un buco da 2 miliardi: lo storico colosso delle costruzioni sull’orlo del fallimento. E dalle carte spuntano contratti di centinaia di migliaia di euro fatti dalle aziende controllate a esponenti di primo piano del cerchio magico dell’ex premier. Come quelli del fratello di Maria Elena Boschi, il giovane Emanuele, e di Alberto Bianchi, consigliere ed avvocato di Renzi e per anni numero uno della Fondazione Open.


IL RE E LA REGINA

Partiamo dall’ascesa e dalla caduta di Isabella Bruno e Duccio Astaldi. Fino a pochi mesi fa il “Re e la Regina” del calcestruzzo erano una delle coppie più potenti e ricche d’Italia, e si godevano il successo legato al boom della loro società, la Condotte per l’Acqua appunto.

Una spa di cui pochi lettori probabilmente conoscono il nome. Ma le sue opere sono usate, tutti i giorni, da milioni di italiani. Autostrade e superstrade, viadotti e acquedotti, stazioni ferroviarie, dighe, metropolitane, ospedali, scuole, tribunali, palazzi e infrastrutture celeberrime come la “Nuvola” di Fuksas e il Mose di Venezia: Condotte ha scavato e impilato mattoni in tutta la penisola, e oggi, dopo quasi 140 anni dalla sua fondazione nel 1880, è diventato il terzo gruppo di costruzioni nazionale.

La cavalcata di Astaldi (fino a pochi mesi fa presidente del consiglio di gestione) e di Isabella Bruno (che ha chiesto all’anagrafe di aggiungersi anche il cognome della madre, Tolomei Frigerio: sono le due donne a detenere - attraverso una holding organizzata in scatole cinesi - quasi l’intero pacchetto azionario dell’impero) si è interrotta bruscamente quest’anno. Condotte dal 14 agosto è ufficialmente sull’orlo del crac: quel giorno il tribunale fallimentare di Roma ne ha dichiarato lo stato d’insolvenza. A causa di un buco da quasi due miliardi di euro (si tratta di debiti nei confronti di banche e fornitori), di crediti non incassati dalla pubblica amministrazione, e di una presunta malagestione, molti cantieri sono bloccati e centinaia di operai (in tutto Condotte conta circa 3.000 dipendenti) per mesi non hanno ricevuto lo stipendio.

La crisi improvvisa ha portato Condotte all’amministrazione straordinaria e alla nomina di tre commissari (il professore dell’ateneo di Tor Vergata Giovanni Bruno, gli avvocati Alberto Dello Strologo e Matteo Uggetti), nominati dal ministro dello Sviluppo economico di Luigi Di Maio con una procedura inedita: quella dell’estrazione a sorte tra un panel di “professionisti qualificati”. I tre, che stanno lavorando notte e giorno da quattro mesi, sono riusciti a sbloccare il pagamento degli stipendi - tredicesime comprese - e a salvare alcune importanti commesse all’estero. Ma la bancarotta non è affatto scongiurata.

Lo tsunami che ha investito “il re e la regina” però non è solo economico. Se Isabella - dalle visure risulta ancora intestataria di tre Ferrari, di terreni e ville da mille e una notte tra Roma, Padova, Venezia e Sardegna - vede il suo regno a rischio collasso, il marito Duccio (cugino di Paolo Astaldi, il presidente dell’omonima azienda anch’essa in crisi) lo scorso marzo è finito agli arresti domiciliari. A causa di pesanti accuse dei magistrati della procura di Messina: Astaldi, indagato insieme ad un altro alto dirigente di Condotte, avrebbe infatti versato una mazzetta da 1,6 milioni di euro a un manager pubblico per ottenere l’appalto per la realizzazione di tre lotti della nuova Siracusa-Messina.

La presunta tangente sarebbe stata incassata tramite consulenze fasulle. «La dimestichezza nella realizzazione del disegno criminoso» è tale, scrive il giudice delle indagini preliminari Salvatore Mastroeni, che consiglia pure di effettuare «verifiche» anche sulle altre gare d’appalto vinte da Condotte in giro per l’Italia. Anche perché, come si legge in altro dossier dell’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, le intercettazioni di altri manager di Condotte suggerivano che il meccanismo delle consulenze fittizie non sarebbe circoscritto alla sola vicenda siciliana: «È un metodo d’azzardo» commentano in effetti i due dirigenti «se si viene a scoprire... ma stai a sentirmi: l’hanno sempre fatto». «Sì, sempre!».

Duccio Astaldi, già presidente di...

































Duccio Astaldi, già presidente di Condotte
IL "PACCO" DI FIRENZE.

Per Condotte avere buoni rapporti con la pubblica amministrazione, e dunque con la politica, è fondamentale. Da sempre gli appalti pubblici sono la sua linfa vitale. L’azienda, un tempo di proprietà di Bastogi e il Vaticano, finì prima nelle mani di Michele Sindona, ma il “banchiere di Dio” decise, nel 1970, di cederla all’Iri. Lo Stato italiano controlla la società di costruzioni fino al 1997 quando - durante le grandi privatizzazioni Fintecna - la vende al papà di Isabella, Paolo Bruno, che la fonde con la sua azienda di costruzioni, la Ferrocemento.

In meno di vent’anni, grazie anche alle ricche committenze pubbliche, Condotte diventa un top player mondiale del settore, con un fatturato che nel 2016 aveva superato gli 1,3 miliardi di euro e un portafoglio di ordini - si legge nel piano triennale 2017-2019 - di ben 5,6 miliardi, di cui il 40 per cento ubicato in Italia e il 60 all’estero.
Cos’ha dunque portato il “re e la regina” a un passo dal fallimento? L’Espresso ha letto due relazioni che i commissari straordinari hanno inviato alla procura di Roma, dove si elencano una serie di elementi che dovrebbero consentire ai magistrati di «effettuare tutte le valutazioni del caso rispetto a comportamenti aventi potenziale rilevanza penale». Nel rapporto vengono elencate vicende minori come l’utilizzo di auto (Smart e Lancia) intestate alla società ma in possesso della Frigerio Tolomei; le storie di immobili prestigiosi di proprietà dell’azienda usati dalla coppia come «incontri di rappresentanza» (i commissari hanno cambiato le chiavi di un appartamento in via in Lucina a Roma perché il portiere dello stabile avrebbe loro riferito che la Bruno era andata lì dopo Ferragosto per portare via «alcuni beni come quadri e oggetti di arredamento»), o altre «scelte non sempre consone e rispettose dell’interesse del gruppo», come alcuni contratti d’affitto intergruppo che hanno creato danni da milioni di euro a Condotte.

Ma il documento si sofferma anche su alcune grandi operazioni effettuate dal management. Quella con cui il colosso del calcestruzzo (attraverso l’acquisto di altre società che avevano vinto le gare d’appalto dalle Ferrovie dello Stato) s’è accaparrata la commessa relativa alla nuova stazione Tav di Firenze, una struttura firmata dallo studio dell’architetto Norman Foster che dovrebbe - insieme alla costruzione di un tunnel sotterraneo alla città - velocizzare quella tratta dell’Alta velocità e alleggerire il traffico su Santa Maria Novella.

Ecco: l’operazione «sin da un primo approfondimento», scrivono i commissari straordinari, «sembra aver contribuito in misura significativa al determinarsi dello stato d’insolvenza», creando «una perdita totale di oltre 123 milioni di euro».

Ma perché Duccio Astaldi e moglie credevano così tanto nel progetto della Tav, che faceva discutere da anni la città (Renzi da sindaco non era convinto del progetto, l’attuale primo cittadino Dario Nardella ha cambiato spesso posizione)? È un fatto che nell’ottobre del 2012 la coppia decide di allargarsi e crescere comprando la Inso, azienda dal grande fatturato specializzata soprattutto nella costruzione di ospedali e nella fornitura di tecnologie sanitarie in mezzo mondo.

A vendere, è il Consorzio Etruria (nulla a che fare con la banca) che era in liquidazione. Procuratore speciale del Consorzio era al tempo Fabrizio Bartaloni. Non un nome banale, ma uno dei manager dei trasporti più potenti della Toscana: ex assessore del Pci, ottimi rapporti con il Pd toscano, il suo nome risulta nella lista dei finanziatori della campagna elettorale di Renzi a sindaco di Firenze. Bartaloni è dal 2008 l’amministratore delegato di Tram di Firenze, la società (un tempo partecipata dalla municipalizzata Ataf) che sta lavorando alla realizzazione di due linee tranviarie nel capoluogo toscano.

L’acquisizione di Inso, almeno secondo i tre commissari, aveva alcuni vizi d’origine. Non solo l’azienda già precedentemente aveva «avviato un piano di risanamento» per riportarsi in equilibrio economico finanziario. Ma le relazioni segnalano pure che l’acquisto di Inso sia stato di fatto finanziato dalla banca Monte dei Paschi di Siena con un prestito, erogato nel settembre del 2013, da circa 40 milioni di euro. Ebbene, circa la metà del finanziamento sarebbe stato «reso disponibile dietro provvista di Cassa depositi e prestiti e la garanzia di Sace», due società di fatto controllate dal ministero dell’Economia.

I SEGRETI DELL'AGENDA 

Che c’è di strano? In teoria nulla, visto che la Cdp - che, ricordiamolo, eroga soldi pubblici - poteva credere davvero nell’investimento. Il fatto è che, come sottolineano i commissari straordinari nella relazione mandata ai pm romani, al tempo il presidente della Cassa depositi e prestiti si chiamava Franco Bassanini, più volte ministro e sottosegretario, nel 2013 rivestiva anche un altro incarico importante: quello di numero uno del consiglio di sorveglianza di una grande azienda delle costruzioni: Condotte per l’Acqua.

Franco Bassanini, presidente del...
                        

































Franco Bassanini, presidente del consiglio di sorveglianza di Condotte
Un conflitto d’interessi che sembra ancor più evidente spulciando l’agenda elettronica di Isabella Bruno Tolomei Frigerio, che L’Espresso è riuscito a consultare. Anche lei era membro del consiglio di sorveglianza presieduto da Bassanini. L’organismo fa parte della cosiddetta governance duale: invece del classico consiglio di amministrazione e del collegio sindacale che deve controllarlo, in Condotte c’è un consiglio di gestione (presieduto fino a pochi mesi fa da Duccio Astaldi) e uno di sorveglianza.

Al netto della paradosso dovuto al fatto che l’azionista di maggioranza dovrebbe “sorvegliare” suo marito e gli altri membri del consiglio di gestione da lei stesso scelti, l’agenda mostra come dal 2015 in poi Bruno e Bassanini abbiano avuto appuntamenti con top manager di importanti fondi d’investimento (come Jean Marc Janailhac di Macquaire Capital) e manager pubblici di rilievo (per esempio Domenico Arcuri, ad di Invitalia). E questo nonostante i membri del consiglio di sorveglianza non potrebbero «avere nessun coinvolgimento nella gestione e nelle decisioni operative».

L’agenda segnala che Bassanini e Bruno Tolomei Frigerio, per di più accompagnati dallo stesso Astaldi, nell’estate del 2017 siano andati a trovare anche l’allora premier Paolo Gentiloni e l’ex ministro ai Trasporti Graziano Delrio. Un anno prima marito e moglie avevano pure incontrato il ministro Carlo Calenda. Non sappiamo il contenuto e l’esito degli incontri avvenuti nei palazzi istituzionali. A proposito di conflitti di interessi è però sicuro che nel 2015 - una volta dimessosi dall’incarico in Cdp - Bassanini era stato nominato “consigliere speciale” di Renzi a Palazzo Chigi. Un incarico prestigioso confermato a fine 2016 anche da Gentiloni. E si sa pure che il “re e la regina” non facevano simpatie e antipatie tra schieramenti politici: cercavano di avere relazioni con politici di ogni partito politico, da Gianni Alemanno a Luciano Violante.

Oltre alla politica, la coppia tra il 2016 e il 2018 sempre più spesso organizza pranzi di lavoro e rendez-vous con esponenti di primissimo piano del sistema bancario italiano: il gruppo naviga ormai in pessime acque, le commesse pubbliche vanno a rilento, e l’economia delle costruzioni non tira. I debiti con gli istituti di credito hanno raggiunto livelli insostenibili. Il peggio, però, deve ancora arrivare.

MALEDETTA TAV

Ora facciamo un passo indietro. Torniamo al 2013. Comprando la Inso, infatti, Condotte si trova a controllare il 33 per cento di un consorzio stabile, chiamato Ergon, che a sua volta deteneva un terzo delle quote della società Nodavia. Ossia la società consortile che aveva vinto l’appalto con le Ferrovie (per la precisione, con la controllata Rfi) per i lavori del passante ferroviario e della stazione Foster.

Nel 2014 Condotte ha solo una piccola partecipazione in un’operazione già chiaramente a rischio fallimento (il 70 per cento di Nodavia era ancora in mano alla Coopsette, la cooperativa rossa che aveva vinto l’appalto nel 2007). Ma quell’anno arriva il colpo di scena: Astaldi si prende tutto. Arriva prima al 70 per cento di Ergon e poi, tramite la stessa Ergon, compra tutte le azioni di Nodavia da Coopsette, afflitta da un buco di 800 milioni di euro e destinata al crac.
In pratica, Condotte decide di accollarsi l’onere dell’intera opera. Una scelta presa dal management nonostante «al momento dell’acquisizione», scrivono i commissari, «dal budget risultava una perdita di 89,5 milioni di euro». E a dispetto di un’inchiesta della procura di Firenze sullo smaltimento dei fanghi del cantiere che un anno prima, nel 2013, aveva già terremotato il progetto, indagando decine di dirigenti e sequestrando persino una mega trivella, una fresa chiamata “Monna Lisa”.

Perché il re e la regina si infilano dunque in questo ginepraio che contribuirà «in maniera significativa» al dissesto della loro azienda? Impossibile rispondere. Secondo un’intervista dello stesso Duccio Astaldi rilasciata all’Espresso «il lavoro della Tav di Firenze non l’abbiamo cercato ma ce lo siamo dovuti accollare per un problema di solidarietà contrattuale interna al consorzio Nodavia». Come commentava l’autore dell’intervista Gianfrancesco Turano a margine, capita che in Italia - nel rapporto costante tra Stato e imprese che costruiscono grandi infrastrutture - grandi società edili si facciano carico di lavori antieconomici che nessun altro vuole fare.
Una curiosità: nel 2014 il presidente del cda del Consorzio Ergon che vende le quote di Nodavia a Isabella e Duccio è ancora una volta Fabrizio Bartaloni, l’uomo che finanziava Renzi e che due anni prima aveva già curato la vendita di quote della Inso a Condotte.

IL GIGLIO D'ORO.

Nel 2015, la cosa è fatta. Tocca a Condotte fare la Tav di Firenze. Quell’anno l’agenda di Isabella è fitta di appuntamenti. Sfogliando le pagine, risultano segnati incontri di alto livello con esponenti di vari partiti. Saltano agli occhi anche quelli con il ministro più influente dell’esecutivo Renzi, l’allora titolare delle Riforme Maria Elena Boschi. Le due donne si incontrano una prima volta in un incontro pubblico, il 7 luglio (occasione è la cena con la Boschi organizzata dal “Cenacolo dei trenta”, un organismo ristretto del Canova Club i cui soci «rappresentano il massimo potere decisionale nel campo delle loro attività»). La seconda volta, il 7 agosto del 2015, l’agenda segnala un appuntamento direttamente a «Largo Chigi 19, terzo piano».

Come mai Boschi, che guidava un dicastero che non aveva alcuna delega per le Grandi Infrastrutture, aveva deciso di incontrare la regina del calcestruzzo? Non possiamo saperlo. Qualche dipendente di Condotte racconta che l’ex ministra sarebbe stata avvistata anche nella splendida tenuta da mille ettari “Agricola Roncigliano” di proprietà di Condotte, ma l’ex ministra (che pure non nega di conoscere Isabella) smentisce all’Espresso di esservi mai stata.
L’ex ministra, oltre ad essere esponente di peso del governo Renzi, nel 2015 era anche segretario generale della Fondazione Open, l’organismo che raccoglieva i finanziamenti destinati alla corrente renziana e alla Leopolda. È un fatto che presidente della stessa fondazione, nel cui board sedevano anche Luca Lotti e Marco Carrai, era il suo amico Alberto Bianchi. Ossia l’avvocato e consigliere prediletto dell’ex premier, piazzato dal governo Renzi nel cda dell’Enel e finito sui giornali dopo che L’Espresso scoprì alcune consulenze da centinaia di migliaia di euro ottenute dalla Consip. La centrale acquisti dello Stato travolta dagli scandali dopo le accuse lanciate dall’ex amministratore delegato Luigi Marroni a Tiziano Renzi e a Carlo Russo.

Ebbene, analizzando documenti delle società controllate, anche nel caso Condotte spunta una consulenza ottenuta dal legale di Pistoia: come evidenzia un verbale del cda di Nodavia datato 8 agosto del 2015, è il presidente Antonio Picca ad affidare all’allora numero uno del Giglio magico una consulenza in merito alla revisione degli accordi sottoscritti con gli istituti di credito. Un contratto da 240 mila euro, somma che però Bianchi deve dividere con lo studio di Leonardo Romagnoli, un affermato professionista che la giunta Renzi nominò nel 2009 membro del cda di Ataf, la municipalizzata dei trasporti di Firenze.

Il conferimento ufficiale dell’incarico a Bianchi arriva sei mesi dopo, il 25 gennaio del 2016: l’uomo di Isabella e Duccio, cioè l’ingegner Picca, scrive però nero su bianco che i 240 mila euro saranno fatturati solo «dallo studio legale dell’avvocato Romagnoli, e a questi corrisposto». Bianchi lavora dunque gratis? Non proprio: «La ripartizione interna dei compensi è rimessa a un successivo vostro accordo», si chiarisce nel documento, «con la sottoscrizione del presente incarico vi impegnate a mallevare la scrivente in merito a qualsiasi controversia dovesse derivare da tale ripartizione».

Secondo il contratto, in pratica, sarebbe stato Romagnoli a “ribaltare” parte del compenso ricevuto (non sappiamo in che proporzione) a Bianchi. Un’operazione che desta qualche domanda. «Io non sapevo chi fosse Bianchi. Il vero operativo era Romagnoli, che ha fatto il lavoro vero e proprio. Bianchi in azienda nessuno lo aveva mai sentito nominare», spiega l’ingegner Picca. «Ce lo portò Romagnoli. Perché aveva bisogno di Bianchi? Non lo so. Forse per avere rapporti con le banche. Il contratto in quella forma comunque l’ha chiesto Romagnoli. E per dovere di trasparenza ricordo che Bianchi almeno una fattura ce l’ha fatta».
Per dovere di cronaca, lo studio fiorentino di Romagnoli, insieme a quello del tributarista Jacopo Lisi, sono da anni consulenti del gruppo Condotte. Ai due legali fiorentini il gruppo di Isabella e Duccio ha pagato parcelle che secondo i primi calcoli arriverebbero, secondo una fonte vicina al dossier, ad almeno 1,5 milioni di euro. Per fare solo un esempio, in un altro incarico professionale visionato dall’Espresso è la Inso spa che, il 9 febbraio 2018, chiede aiuto ai due studi per «il supporto professionale per la ristrutturazione del proprio indebitamento». Le parcelle sono notevoli: 330 mila euro a studio, oltre a bonus (le cosiddette “success fee”) che possono portare il compenso finale alla bellezza di 700 mila euro. A testa.

LA CONSULENZA DI EMANUELE

Ma nel 2018 la Inso decide di prendere a bordo anche Emanuele Boschi, il 35enne fratello di Maria Elena. È il 9 maggio 2018 quando si riunisce il collegio sindacale della società. Nelle settimane precedenti gli operai del cantiere della Stazione Foster avevano protestato duramente, anche scioperando, perché non venivano pagati gli stipendi. Per il giovane Boschi, invece, la Inso è pronta a staccare un assegno molto robusto. E da pagare pronta cassa.

Emanuele Boschi
















Emanuele Boschi
Cosa succede? Leggendo il verbale della riunione, è chiaro che i membri del collegio sindacale non sono convinti della decisione «dei vertici aziendali» (cioè di Fabrizio Pucciarelli, che nonostante l’arrivo di Astaldi e Bruno aveva conservato l’incarico di amministratore delegato, un caso più unico che raro in Condotte) di conferire a Boschi, «che già conosce la società» (aveva dunque avuto altri incarichi in passato?), una expertise legale. Così i sindaci chiedono al cda di selezionare l’esperto «tra una rosa» più ampia «di possibili candidati». Anche allo scopo di risparmiare: i suggerimenti di Romagnoli e Lisi costavano già un sacco di soldi.
Non sappiamo quali sono stati i contendenti di Emanuele per la ricca consulenza, ma è certo che tre settimane dopo, il 31 maggio (ultimo giorno in cui la sorella è a Palazzo Chigi come sottosegretario della presidenza del Consiglio) sarà proprio lui a conquistare l’incarico e la relativa parcella.

L’Espresso ha visionato il contratto, una scrittura privata su carta intestata dello studio BL, i cui tre soci sono lo stesso Boschi, Federico Lovadina e Francesco Bonifazi, altro petalo del Giglio magico e tesoriere del Pd. Vengono elencate le prestazioni, il compenso finale (150 mila euro, a cui aggiungere l’Iva, la cassa di previdenza e spese varie), e la modalità di pagamento. I manager di Inso scrivono che «gli importi fatturati» da Boschi «saranno da pagarsi “a vista fattura”». Boschi è fortunato: quando va bene, e anche in tempi di vacche grasse, i professionisti vengono in genere pagati a 60 giorni. Ancor più curiosa, la decisione di Inso, visto il momento drammatico, con operai senza stipendio e il posto a rischio.