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sabato 11 aprile 2020

Mes, Salvini e Meloni si chiamano fuori: “Noi contro nel 2012”. Ma ad approvarlo nel 2011 fu il governo con la Lega e Meloni ministra.

Mes, Salvini e Meloni si chiamano fuori: “Noi contro nel 2012”. Ma ad approvarlo nel 2011 fu il governo con la Lega e Meloni ministra

I leader dell'opposizione contro Giuseppe Conte per le parole pronunciate in conferenza stampa. Ma nel 2011 furono Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti a dire sì alla creazione di un Fondo Salva-Stati nel Consiglio europeo e all'Eurogruppo. Il 3 agosto 2011, il Consiglio dei ministri guidato da Silvio Berlusconi approvò il disegno di legge per la ratifica: il Carroccio era al governo e la leader di Fratelli d'Italia faceva parte del governo. 

Adesso Matteo Salvini e Giorgia Meloni si chiamano fuori, ricordando che in Parlamento nel 2012 dissero no o erano assenti. E attaccano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo la conferenza stampa in cui ha ricordato quali furono le loro posizioni sul Mes e li ha accusati di “mentire” agli italiani. Ma quali sono state le tappe del Meccanismo europeo di stabilità? L’ok dell’Aula arrivò otto anni fa sotto il governo Monti: la Lega votò contro, Meloni era assente. Ma a preparare il Fondo Salva-Stati – basta guardare le cronache dei quotidiani dell’epoca – fu il governo Berlusconi nel 2011, con il via libera all’Eurogruppo e l’approvazione del disegno di legge per la ratifica della decisione del Consiglio europeo del 25 marzo che cambiava il Trattato sul funzionamento unico dell’Ue e dava il là alla creazione del Fondo Salva-Stati. Un governo sostenuto dalla Lega, di cui Salvini all’epoca era europarlamentare, e di cui l’attuale leader di Fratelli d’Italia faceva parte.
Il Consiglio dei ministri è il numero 189 del governo Berlusconi IV e si riunisce a Palazzo Chigi il 3 agosto 2011, tre mesi prima delle dimissioni e ad appena due giorni dalla lettera congiunta del presidente uscente della Bce Jean Claude Trichet e di quello in pectore Mario Draghi con la quale indicarono all’Italia una serie di misure urgenti per superare la crisi.
Tra codice antimafia, nomina di prefetti e altre deliberazioni, il Consiglio dei ministri approva, su proposta del ministro degli Esteri Franco Frattini, il disegno di legge per la ratifica e l’esecuzione della “decisione del Consiglio europeo 2011/199/Ue, che modifica l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM – European Stability Mechanism) nei Paesi la cui moneta è l’euro”, si legge nel comunicato stampa diffuso quel giorno da Palazzo Chigi. È il Mes, il fondo Salva-Stati definito poi nel febbraio 2012 che oggi i partiti di minoranza, sostenitori e parte di quel governo, non vogliono. E imputano al governo Conte di aver accettato come strumento europeo per affrontare l’emergenza sanitaria legata al coronavirus.
Lo ha ricordato anche Mario Monti in un editoriale sul Corriere della Sera: “Il Mes rappresenta l’evoluzione del Fondo europeo per la stabilità finanziaria (Fesf). Il Fesf prima e il Mes poi sono stati preparati e decisi a livello europeo nel 2010-2011 con l’Italia rappresentata da Silvio Berlusconi nel Consiglio europeo e da Giulio Tremonti nell’Ecofin ed Eurogruppo. Quel governo si reggeva sull’alleanza Pdl-Lega. Giorgia Meloni ne faceva parte come ministro per il Pdl, Matteo Salvini era europarlamentare della Lega”.
L’obiettivo – continuava il governo nella nota stampa diffusa nei giorni in cui lo spread galoppava – è “far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’euro”. La decisione del Consiglio dei ministri di dire sì alla decisione del Consiglio europeo è l’architrave della definizione del Fondo Salva-Stati che sarà poi perfezionata dal governo di Mario Monti, subentrato nel novembre 2011 al governo Berlusconi.
Di quel governo era ministro della Gioventù Giorgia Meloni che ora parla di “alto tradimento”, al tavolo sedeva da poco Anna Maria Bernini alle Politiche Europee, Umberto Bossi aveva le deleghe per le Riforme, Roberto Maroni guidava l’Interno, Giulio Tremonti era il titolare dell’Economia e Maria Stella Gelmini era la ministra dell’Istruzione.
Le contrattazioni andavano avanti da tempo. Basta sfogliare i quotidiani di nove anni fa. Il giorno dopo l’Eurogruppo che approvò la modifica del Trattato per creare il Salva-Stati, era il 22 marzo 2011La Stampa titolava: “I ministri economici hanno chiuso ieri l’intesa”. Non appariva molto preoccupato Il Giornale: “Fondo salva Stati a 700 miliardi”, si leggeva a pagina 22. Mentre il Corriere della Sera precisava: “Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, ha lasciato la riunione a Bruxelles senza rilasciare dichiarazioni nemmeno sulle conseguenze di finanza pubblica italiana di questi impegni di salvataggio”. Tre giorni dopo arrivò la decisione del Consiglio europeo presieduto dall’olandese Herman Van Rompuy. Quindi ad agosto 2011 il voto in Consiglio dei ministri. Il Mes – definito nel febbraio 2012 – approdò in Parlamento quando ormai c’era Mario Monti. Il 19 luglio 2012 il via libera definitivo della Camera al trattato – insieme al Fiscal Compact – con 325 sì, 53 no e 36 astenuti.
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martedì 3 marzo 2015

Renzi, atterraggio d’emergenza in elicottero. Ma questa volta non twitta. - Thomas Mackinson

Renzi, atterraggio d’emergenza in elicottero. Ma questa volta non twitta

Dalla bicicletta usata a Firenze ai Frecciarossa con cui si era presentato nella capitale da presidente del Consiglio, il premier cambia mezzo. E finisce su uno dei velivoli acquistati - a caro prezzo - da Berlusconi per risparmiare in realtà solo pochi minuti. Mentre il presidente della Repubblica Mattarella viene immortalato sui mezzi pubblici. Sull'account di Renzi nessuna citazione "dell'incidente". Da palazzo Chigi una nota in serata.

“Effettivamente là c’era​ l​a nebbia”. Ma niente allerta meteo, poca pioggia. Lo dice così la titolare del bar “Alba” di Civitella in Valdichiana, 1500 anime, che alle otto del mattino ha sentito i rumori delle pale avvicinarsi mentre i vetri del locale prendevano a vibrare. Il locale sta a 200 metri dal campo di calcetto “Victoria Beauty Fitness Spa”, su cui oggi è calato l’elicottero di Renzi,costretto all’atterraggio forzato, ufficialmente causa “maltempo”. Sulle prime si era parlato di guasto tecnico e anche al titolare del centro, Davide Grazini è stato detto questo. Ma la questione è scivolata in terzo piano rispetto alla notizia che, col passare delle ore, è assurta a piccolo caso politico. Si sprecano le reazioni di chi accusa Renzi d’aver cambiato idea: da irriducibile rottamatore della casta e delle auto blu a utilizzatore finale degli status symbol tipici della classe politica nostrana.
Fatto sta che l’Italia scopre, quasi per caso, che Renzi vola dritto al punto. Con elicottero di Stato. Lascia Firenze, dove vive la sua famiglia, e raggiunge Roma elitrasportato anziché con mezzi più economici. Che si sappia non fa certo piacere al passeggero, si capisce. Sul web e sui social network si sono subito scatenate facili ironie mentre stranamente silenzioso è rimasto l’account Twitter del premier. Forte di 4.268 tweet, sorvola sull’accaduto, limitandosi a commentare i dati Istat sull’occupazione (“Bene, ma non basta”). L’incidente sarebbe chiuso, se non fosse per l’immancabile codazzo di polemiche che porta la presidenza del Consiglio a commentare, in forma ufficiosa, dodici ore dopo, quando la polemica è ormai deflagrata.
Vale la pena fare un salto indietro. “Renzi, ecco come si muove il sindaco: dal taxi alla bici, dal treno alla Giulietta”. Così i giornali celebravano il rottamatore che si recava con l’Alfa al Quirinale per ricevere l’incarico di formare il suo governo. “Negli ultimi mesi – precisava il Corriere – Il sindaco di Firenze ha cambiato diversi mezzi di trasporto, passando dalla bici che inforca nella sua città, al taxi per le vie di Roma, fino a diverse auto”. E poi un pieno di fotonotizie su Renzi in Frecciarossa. Ma è passato un anno da allora. E si apprende così, incidentalmente, che ora viaggia con ben altri mezzi anche solo per lasciare la famiglia, che risiede e vive a Pontassieve, e raggiungere il posto di lavoro. Non che la cosa gli convenga poi molto, in termini di tempo risparmiato. Alla velocità di crociera di 290/300 km all’ora – guasti e/o meteo permettendo – quanto più velocemente potrà il premier arrivare a destinazione? A spanne forse 40 minuti in meno rispetto al treno. Senza considerare poi che i mezzi in questione sembrano essere destinati alla polemica. Comprati da Silvio Berlusconi nel 2010 – l’allora premier non andava d’accordo con i vecchi Agusta-Sikorsky SH3D, operativi dal 1978 – i due Agusta Westland aw139 costarono ufficialmente 37 milioni di euro. Ma l’Espresso valutò allora che la versione data in dotazione alla Repubblica italiana dovesse costare almeno 25 milioni di euro ad esemplare. Che sia un modo per ammortizzare la spesa?
Di certo, posto che la disciplina sui voli di Stato permette al premier di usare i voli blu senza dover dare giustificazioni – a differenza dei ministri - a dare contrasto e rilevanza ai mezzi usati dal premier, ironia della sorte, è il suo capolavoro politico, Sergio Mattarella. Solo una settimana fa il Capo dello Stato aveva compiuto lo stesso tratto nella direzione opposta armato del biglietto del cittadino comune: da Roma ha raggiunto Firenze non a bordo della macchina presidenziale o con la scorta ma, semplicemente, col treno. Al pari di un passeggero qualsiasi, sia pure accompagnato dal suo staff. Bisognerà vedere quanto durerà questa sorta di “pedagogia dei gesti” che punta a ridurre la distanza coi cittadini dando al prossimo l’impressione di considerarsi uno di loro. Perfino il Papa si muove su questa lunghezza d’onda, spostandosi con l’utilitaria.
Con Renzi questo atteggiamento, a quanto pare, è durato una manciata di mesi. Ha tenuto banco a lungo la questione dell’uso “disinvolto” del volo di Stato che il 30 dicembre ha portato premier e famiglia in vacanza in Valle d’Aosta. Polemiche, esposti. Ma a ben vedere Renzi era già atterrato a bordo campo con l’elicottero della Presidenza del Consiglio, gettando scompiglio.
Lo scorso agosto aveva un appuntamento semi-clandestino con Mario Draghi. Dovevano parlare della situazione dell’Italia ma senza troppo clamore, per non dare l’impressione agli altri Paesi della Ue che il governatore riservasse un trattamento di favore all’Italia. L’appuntamento doveva restare segreto, visto che non era riportato nell’agenda pubblica del premier. L’ex Governatore della Banca d’Italia era nella sua casa di campagna a Città della Pieve, in Umbria. Renzi pensa al blitz, un salto in elicottero per evitare pubblicità. Ma l’arrembaggio non è stato dei più silenziosi. “Sgomberate lo stadio, manovre militari”. Così viene comunicato alla squadra che si sta allenando su quel prato verde di Po’ Bandino, frazione pievese a pochi chilometri da Chiusi. “Ad attenderlo, sul prato dell’impianto sportivo – riferiva il Corriere umbro – le forze dell’ordine in borghese e due auto blu, dove sono saliti il presidente e gli uomini della scorta”. E la storia oggi si è ripetuta​ ma non è dato sapere se l’elitrasporto celava un segreto diverso, un semplice guasto o era il segreto di Pulcinella. La nebbia è rimasta.

lunedì 30 giugno 2014

Le ministre berlusconiane si potevano attaccare, le renziane no. - Andrea Scanzi

Le ministre berlusconiane si potevano attaccare, le renziane no

Di bianco vestite, sedute l’una accanto all’altra, i ministri “Karina Huff” Boschi e Marianna “Acume” Madia davano due giorni fa la sensazione, peraltro giustificatissima, di divertirsi molto all’idea che qualcuno – anzitutto i media – fosse disposto a prenderle sul serio come esperte di riforme costituzionali.
La novità del renzismo è proprio questa: la disparità di trattamento di stampa e giornali nei confronti della loro provvisorietà politica. Quando ad argomentare non poco confusamente erano le berlusconiane, le mitragliate “moraliste” dei giornalisti erano spietate. Se la Santanché veniva attaccata, nessuno tirava fuori la storiella lisa del sessismo. E così se a ricevere la critica erano le Carfagna e le Gelmini, le Comi e le Biancofiore.
Adesso che le novelle statiste sono renziane, l’atteggiamento cambia: a parità di impreparazione coincide una sorta di rapimento mistico generale.
Sull’ex showgirl Carfagna si poteva ironizzare, sulla nota costituzionalista Boschi no. E giù copertine, articolesse infatuate e servizi atti a tratteggiarla come una sorta di quasi-Madonna aretina. Fa simpatia anche l’accento toscano, su cui lei stessa aveva – goffamente – provato a ironizzare nello spot raggelante col futuro sindaco di Bari Decaro (sì, quello della “fohaccia o schiaccia”). La berlusconiana era per forza oca giuliva, emblema della mancanza di meritocrazia; al contrario, le renziane hanno fatto carriera perché tutte eredi evidenti di Nilde Jotti.
Anche il candore dei vestiti è prova certa della loro castità e candor, al contrario delle berlusconiane equivoche o (peggio) delle grilline volgari. E’ vero, anche la Carfagna aveva provato a reinventarsi sobria in un tripudio di tailleur e pettinature da dopoguerra, ma non andava comunque bene. Invece la Boschi è sempre perfetta, che scelga il bianco o l’azzurro shocking. Le renziane sono – per Decreto Regio firmato da Scalfari in persona – brave e buone, anche se collezionano errori e gaffe: se la Madia sbaglia ministero fa simpatia, se la Gelmini si copre di ridicolo coi neutrini è uno scandalo planetario.
Se la Morani affoga nelle supercazzole para-economiche a Ballarò va capita (“è inesperta”), mentre se a inciampare è una Taverna occorre evidenziare come quella senatrice lì sembri proprio la Sora Lella. Le renziane sono palesemente droidi berlusconiane 2.0, col buonismo finto al posto del garantismo livido, però l’imperativo di quasi tutti i media è gridare al miracolo del “finalmente la nuova politica”. Non importa che, a voler essere puntigliosi, le somiglianze riguardino pure pettegolezzi e maldicenze. Non importa che, fino a ieri, quasi tutte loro non fossero per niente renziane. Non importa che, della Bonafé, l’unica cosa che si ricordi del pensiero politico sia forse il tacco 12. E non importa che Pina “Dolce Forno” Picierno ricordi in tutto – e in peggio – Daniela Santanchè: le renziane vanno sempre incensate e le altre ogni volta abbattute.

giovedì 20 dicembre 2012

Dalla Camera a Palazzo Chigi, gli appalti pubblici della Casta col segreto di Stato. - Thomas Mackinson


Camera dei deputati


Il tutto grazie anche a un codicillo che il governo Berlusconi ha inserito nella finanziaria due anni fa che amplia l’ambito della secretazione della normativa e rimette le autorizzazioni in capo ai dirigenti ministeriali. In pratica ogni burocrate romano di peso può decidere di affidare personalmente un maxi-appalto senza gara.

C’è un pezzo di casta che col pretesto della ‘massima sicurezza‘ si rifà bagno e salotto, lontano da occhi indiscreti. Tra gli appalti coperti da segreto di Statosenza Iva e a chiamata diretta non pubblicizzata, non c’è solo il rifacimento dell’aula bunker di Poggioreale. Ci sono anche l’aula dei gruppi parlamentari della Camera, il rifacimento della biblioteca di Palazzo Chigi, la riqualificazione della sala benessere e la ristrutturazione dei bagni per le scorte del Viminale. C’è perfino il rifacimento del bar e della sala ristoro per autisti del governo. Il tutto grazie anche a un codicillo che il governo Berlusconi ha inserito nella finanziaria due anni fa che amplia l’ambito della secretazione della normativa sugli appalti pubblici (d.lgs. 163/2006) e rimette le autorizzazioni in capo ai dirigenti ministeriali. In pratica ogni burocrate romano di peso può decidere di affidare personalmente un maxi-appalto a imprese di sua fiducia, evitando la gara e tenendo riservata l’esistenza stessa di un contratto, non dovendo pubblicizzare contenuti e condizioni, importi e aziende beneficiare. Praterie per chi volesse approfittarne, un colpo al cuore ai principi di legalità e trasparenza.
Da allora la corsa ai contratti “classificati” non si è più fermata, il loro numero è esploso arrivando a un valore di 200-250milioni di euro l’anno. Ogni ministero ne fa man bassa, in testa la Presidenza del Consiglio per la quale, scrive la Corte dei Conti, “la denominazione stessa degli appalti è inconoscibile”. Si sa però che ha fatto ricorso alla secretazione per restaurare l’aula dei Gruppi parlamentari in via Campo Marzio. Un “regalo” che la Camera si concede per i 150 anni dell’unità d’Italia, a carico dei contribuenti per 14 milioni di euro. La nuova aula, inaugurata il 16 giugno 2011, sarà un gioiello di tecnologia con 286 postazioni attrezzate con i più avanzati impianti per il voto, una sala regia per le riprese, postazioni per interpreti e traduttori. Il punto però è la scarsa trasparenza che accompagna il rifacimento di questo (e altri) luoghi-simbolo della Repubblica e del potere.
I costi che aumentanoNella cerimonia di riapertura il presidente della Camera Gianfranco Fini spiegava che la nuova aula “dovrà favorire una maggiore apertura delle istituzioni ai cittadini accrescendo la trasparenza e le visibilità dell’attività parlamentare”. Un manifesto dei buoni propositi piantato nella sabbia,  perché una parte dei lavori per l’auletta in questione – importo 1,3 milioni di euro – era stato secretato. Chi lo ha vinto e perché, non è dato sapere mentre si saprà l’importo finale dei lavori per 14 milioni di euro. Il governo ha usato la stessa procedura per ristrutturare la “biblioteca chigiana” realizzata dall’architetto Contini e perfino il bar e il punto ristoro della sala autisti della Presidenza del Consiglio. E non è l’unico, il Viminale ha fatto ricorso ad appalti classificati per rifare i bagni e la sala benessere del reparto scorte a Villa Tevere. Guai, insomma, a ficcare il naso nel bagno degli autisti. Ma che ci sarà poi di così segreto? Forse il fatto che l’appalto che inizialmente doveva costare 284mila euro alla fine è stato aggiudicato per 406.315, nonostante un ribasso dichiarato del 20%.
Sulla secretazione aleggia da tempo un sospetto: che abbia poco a che fare con la sicurezza dello Stato e molto con la possibilità di liberare la committenza pubblica dai lacci delle norme e dai controlli. La Corte dei Conti, del resto, rileva un’anomala lievitazione dei costi “frutto di perizie di variante, quasi sempre in aumento, che inducono a considerazioni negative in ordine alla corretta individuazione dei fattori di costo”. Si dirà che è tipico dei contratti pubblici. Ma la secretazione amplia i margini di manovra in fase d’assegnazione e riduce le informazioni disponibili in fase di controllo: per i magistrati contabili “permangono criticità sulla possibilità di conoscere in maniera precisa le dimensioni del fenomeno e l’utilizzazione degli strumenti di segretazione nei casi strettamente necessari”. Spesso l’aumento degli importi finali è superiore al massimo consentito del 5%. E non sono bruscolini.
Carceri e Finanza
Nel 2005, ad esempio, parte la mega ristrutturazione del Comando provinciale della Gdf di Como, lavori per 11,8 milioni di euro. L’impresa che ha vinto l’appalto, ovviamente schermata, fa rilevare che “a seguito di prove geotecniche è indispensabile procedere a nuovi interventi di sistemazione delle fondazioni” e scatta una commessa aggiuntiva per 1,5 milioni. Tutto corretto? Impossibile saperlo, il Comando Generale dal 2003 ha blindato ogni lavoro al suo interno, ricorrendo alla secretazione. E ancora. Nel 2010 il provveditorato ai Lavori Pubblici dell’Emilia Romagna assegna un appalto classificato per il “ricovero attrezzi agricoli e laboratorio per il miele” nella casa circondariale di Modena. Nel 2011 ne stipula un secondo per “sopraggiunte necessità di adeguamento funzionale” al primo progetto. L’importo lievita di 50mila euro, il conto finale sarà di 428mila euro. Congruo, non congruo? Impossibile dirlo, la pratica è secretata trattandosi di un carcere. Peccato che – fa rilevare la Corte dei Conti – nella documentazione trasmessa non ci sia traccia del verbale di lecitazione e “nel decreto di approvazione si parli genericamente di requisiti di idoneità della ditta aggiudicatrice”. Di più non si sa. È un segreto di Stato.