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mercoledì 13 luglio 2016

Metro C: 47 varianti e conto extra di 700 milioni. E quattro anni fa la Corte dei Conti disse: “Moralmente inaccettabile” - Marco Pasciuti

Metro C: 47 varianti e conto extra di 700 milioni. E quattro anni fa la Corte dei Conti disse: “Moralmente inaccettabile”

L'inchiesta della Procura di Roma, con 13 indagati arriva dopo una serie di denunce sulla lievitazione del budget, passato da 2,2 a 3,7 miliardi senza che l'opera fosse consegnata. L'Autorità anticorruzione: "Carenza nei rilievi archeologici preventivi, così lievitavano i costi". Nel 2013 l'esposto dei radicali in Comune. Già l'anno prima la magistratura contabile aveva definito la spesa "insopportabile per la finanza pubblica"


Ignazio Marino li aveva cacciati tutti il 17 luglio 2014 “per giusta causa”. E perché nell’operato della società era stato “rilevato un livello di criticità tale da far dubitare dell’affidabilità dell’attuale gestione aziendale, in particolar modo rispetto alle scadenze dei tempi di realizzazione della linea C della metropolitana”. Quel giorno, dopo un anno di braccio di ferro e reciproci scambi di accuse sui continui rinvii dei lavori, il sindaco “marziano” firmava un’ordinanza con cui revocava il cda di Roma Metropolitane: il presidente Massimo Palombi, i consiglieri Andrea Laudato e Massimo Nardi e il dg Luigi Napoli. Oggi tutti indagati nell’inchiesta della Procura di Roma che vuole fare luce sugli aumenti dei costi della Metro C.
Perché l’indagine di piazzale Clodio parte da lontano, affonda le proprie radici nei gangli più reconditi del fangoso potere capitolino in maniera inversamente proporzionale alla difficoltà e alle lentezze con cui binari e gallerie sono stati scavati nel ventre di Roma. Numerose sono state negli anni le mani levate a segnalare ambiguità, opacità e lungaggini, molteplici i dubbi avanzati sull’esecuzione e la regolarità dei lavori da attori della società civile ai partiti politici. A partire dall’associazione Italia Nostra, firmataria di un esposto già nel 2013, fino al Partito Radicale. “Due anni fa presentavamo il primo dei nostri esposti sugli abusi, le illegalità e gli sprechi negli appalti della Metro C di Roma, le cui ragioni sarebbero poi state pienamente accolte da Corte dei Conti e Autorità Anticorruzione”, commenta Riccardo Magi, segretario del partito, che ricorda anche la richiesta di dimissioni dell’assessore Improta, finito poi nel registro degli indagati insieme ad altre 12 persone. “Solo lo scorso giugno abbiamo diffidato il governo dall’assumere ogni iniziativa amministrativa, economica, politica a favore della prosecuzione della Metro C, chiedendo la rescissione in danno del contratto”.
Nel 2012 era stata la Corte dei Conti a scoperchiare il vaso di Pandora. “Per l’incidenza perniciosa della corruzione  – scandiva il 22 febbraio 2012 nella sua relazione il procuratore regionale della sezione giurisdizionale del Lazio, Angelo Raffaele De Dominicis, nel corso della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario – si son riversati sulla finanza pubblica costi veramente insopportabili e moralmente inaccettabili come ad esempio i problemi emersi nella prima fase di realizzazione della linea C della Metropolitana di Roma”.
Si riferiva, il magistrato, al report stilato dalla sezione centrale di controllo della Corte, che aveva prodotto un documento pubblicato agli inizi dello stesso mese di febbraio ”sui costi quasi triplicati per l’esecuzione di questa importante arteria sotterranea”. I numeri:  ”Aggiornato a 3.379.686.560 euro” senza le opere complementari, ”con la progettazione definitiva della tratta più complessa” (del centro storico), per la Corte dei Conti, il costo era destinato ad aumentare ancora. E ”notevolmente”.
Gli anni passavano veloci, i lavori procedevano con lentezza esasperante, mentre la parcella dei costruttori lievitava di conseguenza. La fotografia definitiva sul continuo aumento dei costi la scattava quattro anni più tardi l’Autorità nazionale anticorruzione. Nel rapporto pubblicato il 2 luglio 2015, l’ente presieduto da Raffaele Cantone certificava che al progetto iniziale – dal 2007 a quella data – erano state apportate 47 varianti e che dopo 7 anni il preventivo iniziale era aumentato di 700 milioni.
La delibera, trasmessa alla Corte dei Conti, riportava tutti i passaggi della gara e del contratto per la nuova linea metropolitana a partire dal 2005, quando a gennaio una delibera Cipe individuava il tracciato fondamentale, base d’asta: 2,5 miliardi di euro. Stazione appaltante la società del Comune capitolino Roma Metropolitane. Il 28 febbraio 2006 la gara veniva aggiudicata per circa 2,2 miliardi all’associazione temporanea di imprese costituita da Astaldi, Vianini Lavori, Consorzio Cooperative Costruzioni e Ansaldo Trasporti Sistemi Ferroviari che costituiscono la società “Metro C”, contraente generale.
Questo, il background. Da lì aveva inizio una storia costellata di decine di varianti e contenziosi. Di varianti, l’Anac ne contava 47: 7 a parità di importo, 5 in diminuzione e 33 in aumento, per un incremento dell’importo contrattuale di circa 316 milioni. Sta di fatto che il documento che l’Authority ha trasmesso alla Procura della Corte dei conti, annotava come “il costo dell’investimento per il cosiddetto ‘Tracciato fondamentale’ della linea C fosse aumentato nel tempo passando dal valore iniziale di 3.047 milioni a 3.739 milioni di euro“.
Ed è proprio l’Anac a illuminare la causa di quegli aumenti di costo. Ovvero le varianti, capitolo indissolubilmente intrecciato con quello dei rilievi archeologici. L’operato di Roma Metropolitane nell’appaltare l’opera “appare non coerente con i principi di trasparenza e di efficienza per aver messo a gara un progetto di tale rilevanza in carenza di adeguate indagini preventive, per una parte molto estesa del tracciato, senza tenere in debito conto i pareri espressi dalla Soprintendenza archeologica”, mette nero su bianco l’Authority.
E questo “ha determinato una notevole aleatorietà delle soluzioni progettuali da adottare nella fase di esecuzione e, ad appalto già in corso, rilevanti modifiche rispetto alle previsioni contrattuali, imputabili in parte anche al contraente generale”. In pratica nel progettare il percorso si faceva in modo di non tenere conto della possibilità di imbattersi nei resti di una villa romana, di una esedra o di un acquedotto. Quando accadeva, si faceva una variante al progetto. Ogni volta. Così il costo dell’opera non ha fatto che aumentare.

sabato 6 giugno 2015

Mafia Capitale, un mese fa Ignazio Marino ha regalato 60mila euro alla coop rossa del "boss" Salvatore Buzzi. - Enrico Paoli

Mafia Capitale, un mese fa Ignazio Marino ha regalato 60mila euro alla coop rossa del "boss" Salvatore Buzzi

Annegare in un mare di contraddizioni sapendo benissimo perché, forse, non è la miglior strategia per una giunta nell’occhio del ciclone. A meno che Ignazio Marino, sindaco di Roma, non sia vittima di sé stesso, avendo deciso di mentire consapevolmente. Un po’ come è avvenuto con le multe prese con la famosa Panda rossa. Una vicenda che l’amministratore ha spiegato ai romani con mille versioni diverse, nessuna delle quali realmente esaustiva. Per non dire delle foto che ritraggono l’ex chirurgo con Salvatore Buzzi, quello che nelle intercettazioni afferma che «si fanno più soldi con gli immigrati che con la droga». O del primo stipendio da sindaco versato alla sua coop. Il dubbio, a questo punto, che Marino abbia una certa propensione a raccontare una realtà, poi smentita dai fatti, diventa quasi una certezza. 

E l’ultimo caso è da manuale. Ad ottobre scorso, dunque ieri, la giunta Marino ha concesso alla Cooperativa 29 giugno (quella di Salvatore Buzzi) l’uso di un immobile del Comune situato in via Pomona, zona Pietralata, a prezzo di favore. Invece dei 73 mila euro di affitto all’anno stimati dai tecnici del Campidoglio la giunta decide di concederlo a Buzzi a soli 14 mila euro all’anno. Se non è un’evidente contraddizione gli assomiglia molto. Perché uno sconto di quasi 60mila euro? Davvero Marino non sapeva quale fosse la valenza dell’atto? Lo stabile in questione, 5 locali distrubuiti su mille metri quadrati coperti, è stato preso in affitto dalla cooperativa per realizzarci la sede operativa della stessa, mentre una parte è stata adibita a Centro d’accoglienza temporanea. Insomma, il 24 ottobre scorso la giunta Marino non licenzia un atto di ordinaria amministrazione, ma delibera un atto di particolare importanza. Delle due l’una: o Marino non sa cosa accade in giunta, oppure lo sa perfettamente e rimuove gli atti che diventano rischiosi. E si scorda del primo stipendio versato alla cooperativa.

Giusto ieri il primo cittadino della Capitale, autoconvintosi di essere la soluzione di tutti mali e l’arma vincente del Pd, in una lunga intervista al quotidiano comunista Il Manifesto ha ribadito che con Buzzi (uno dei due perni dell’inchiesta romana assieme a Massimo Carminati) «non ho avuto conversazioni di lavoro né quel giorno né mai». E a proposito delle foto che lo ritrae assieme a Buzzi, Marino canta la stessa canzone: «Durante la campagna elettorale ho visitato quella cooperativa che, dal mio punto di vista, faceva un lavoro utile alla collettività». Talmente utile da votare un supersconto dell’affitto per la nuova sede della Cooperativa. «L’ufficio stime del Dipartimento», si legge negli atti del Comune, «ha valutato a prezzo di mercato, quale canone di concessione dell’immobile in questione, l’importo annuale di euro 73.764 e mensile di euro 6.147». In tempi di crisi uno si aspetta che un’amministrazione accorta chieda quella cifra. Invece, per la durata di sei anni, il canone chiesto è di soli 14.752,80 euro all’anno, pari a 1.229, 40 euro al mese. Altro che sconto, quello fatto a Buzzi dal Comune è un vero e proprio saldo.




http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11730485/Mafia-Capitale--un-mese-fa.html

lunedì 9 febbraio 2015

Roma, Eur Spa vuole vendere patrimonio per pagare la Nuvola di Fuksas. - Marco Pasciuti

Roma, Eur Spa vuole vendere patrimonio per pagare la Nuvola di Fuksas

L'ente ha convocato per lunedì 9 un'assemblea degli azionisti per cambiare lo statuto e mettere in vendita parte degli immobili di proprietà allo scopo di ripianare i debiti, tra cui quelli generati dalla costruzione del centro congressi non ancora terminato. Il Comitato di Quartiere Eur insorge e i dipendenti temono per i posti di lavoro. "E' un'operazione pericolosa", conferma il presidente Borghini.

Cambiare lo statuto e mettere in vendita parte del patrimonio allo scopo di ripianare i debiti dell’ente, tra cui quelli generati dalla costruzione della Nuvola di Fuksas. E’ lo scopo dell’assemblea degli azionisti convocata da Eur spa per il 9 febbraio: vendere i gioielli di famiglia, un pregiato portafoglio di opere monumentali del razionalismo italiano con oltre 70 ettari di verde, uscire il prima possibile dal concordato in bianco ed evitare che parte degli edifici finiscano alle banche. “Si vende il patrimonio pubblico per pagare debiti fatti da amministratori poco lungimiranti”, protesta il Comitato di quartiere Eur. “E’ un’operazione pericolosa“, spiega Pierluigi Borghini, presidente dell’ente.
Il momento è difficile, non solo per il clamore mediatico suscitato dal coinvolgimento di Riccardo Mancini, ex amministratore delegato, e di Carlo Pucci, ex direttore commerciale dell’Ente, nell’inchiesta Mafia Capitale. Il problema è che l’ente attraversa da tempo un mare di difficoltà finanziarie che lo scorso dicembre hanno portato il consiglio di amministrazione a chiedere l’ammissione al concordato in biancoEntro il 24 aprile gli amministratori sono chiamati a presentare al giudice delegato un piano che prevede due possibilità: la ricapitalizzazione o l’alienazione di parte dei beni. Ovvero, la vendita dei beni immobili di proprietà che sono pubblici, in quanto l’ente è al 90% controllato dal ministero delle Finanze e al 10% dal Comune di Roma. L’individuazione degli immobili da alienare è affidata a Invimit, società del Tesoro che sta censendo gli edifici che Eur Spa affitta alla pubblica amministrazione. La lista degli immobili, così come quella dei possibili acquirenti, non è ancora nota, ma una certezza c’è: si tratta di opere architettoniche di pregio dal valore elevatissimo, dagli edifici che ospitano i vari musei dell’Eur all’Archivio Centrale dello Stato. Immobili preziosissimi e vincolati.
“Ora devono evitare la bancarotta – spiegano dal Comitato di quartiere Eur, che nei giorni scorsi ha scritto una lettera a sindaco Ignazio Marino, al presidente del municipio e a Borghini per chiedere che i beni non vengano venduti  – ma quando anni fa decisero di costruire la Nuvola sapevano benissimo che non c’erano fondi sufficienti. Non dovevano sperare di vendere un albergo costruito nelle vicinanze per trovare i soldi per fare i lavori (i ricavati della messa sul mercato del super hotel “La Lama” avrebbero dovuto coprire parte dei costi, ma la vendita è ferma, ndr)”.
Gli azionisti “sono convocati –  come da annuncio dato sulla stampa locale – in assemblea ordinaria e straordinaria” “il giorno 7 febbraio in prima convocazione e lunedì 9 in seconda convocazione”. Quello che interessa è l’ordine del giorno della parte straordinaria: “Interventi per garantire la continuità aziendale e la copertura finanziaria delle opere in corso” e “modifica allo statuto sociale (art. 4)”. Ovvero l’articolo che elenca le attività svolte dall’ente. “Lo scopo è quello di modificare lo statuto in modo da consentire la vendita di parti del patrimonio per pagare i debiti della Nuvola”, è la voce che corre in azienda. La Nuvola, il mega polo congressuale la cui costruzione è andata avanti a singhiozzo per anni, ostacolata da un incessante fuoco di veti incrociati tra l’archistar e i vertici di Eur spa.
Di alienazioni in casa Eur spa si parla ciclicamente. “Ma questa volta c’è il concordato da rispettare. I debiti? Noi non dobbiamo ripianare le perdite – conferma il presidente Borghini a IlFattoQuotidiano.it - l’Eur spa chiude da sempre i propri bilanci in utile. Solo che quando uno costruisce un edificio di quel genere e un albergo da 439 stanze, da qualche parte i soldi deve trovarli. Il Comune di Roma 10 anni fa ci ha affidato il pesante incarico di fare questa grande opera e ci ha dato circa 140 milioni sapendo che l’opera costava, da preventivo del 2006, 277 milioni. Più iva, più oneri concessori, più la parcella di Fuksas. Quindi ci ha messo sul collo 400 milioni da pagare dandocene 140. Ora ci servono 133 milioni per completare l’opera”.
I malumori in azienda serpeggiano neanche troppo silenti. Il timore è che l’alienazione di una parte degli immobili di proprietà possa avere ricadute sull’occupazione: “Se vengono venduti gli edifici che amministriamo, una parte dei dipendenti rischierà il posto”. “Sì, è una possibilità – continua Borghini – è un’operazione pericolosa, noi aspettiamo che l’azionista ci indichi la strategia per uscire dal concordato. Se gli azionisti decideranno in questo senso, mi adeguerò”.

domenica 26 maggio 2013

Elezioni amministrative 2013, 7 milioni al voto. Il grande inciucio al test dell’urna. Thomas Mackinson

Elezioni amministrative 2013, 7 milioni al voto. Il grande inciucio al test dell’urna

Domenica e lunedì urne aperte per rinnovare le amministrazioni in 564 comuni. Occhi puntati su Roma, Ancona, Brescia e Siena. Si vota anche in 14 capoluoghi di provincia. Gli scrutini lunedì dalle 15. Ecco le sfide che attendono i maggiori partiti. Battesimo per il governo Letta-Alfano, prova del fuoco per Grillo.

Sette milioni d’italiani tornano al seggio dopo i giorni più pazzi della Repubblica. Lo avevano lasciato solo tre mesi fa, depositando nell’urna un chiaro segnale di cambiamento. Il voto delle politiche di febbraio aveva polverizzato in un attimo vent’anni di bipolarismo e aveva chiesto a tre grandi forze politiche di competere alla costruzione della Terza Repubblica. Da allora gli elettori han visto di tutto e di più, soprattutto il non richiesto: il capo dello Stato tornare al Colle senza averlo mai lasciato, il Pd della “non-vittoria” deflagrare più volte e poi abbracciare il Pdl di Silvio Berlusconi in un governo di pacificazione che passa il tempo a minare e sminare la possibilità di sopravvivere a se stesso. Quello di domani sarà anche un voto sulla pacificazione, sulla politica dell’inciucio. Mario Monti, azionista di minoranza, è quasi scomparso. Ma anche chi ne è rimasto fuori, a ben vedere, ha i suoi problemi. E pure Beppe Grillo, a questo giro, rischia di pagare un alto prezzo in termini di consenso. 
E tuttavia da tempo si dà per vincitore il partito dell’astensione. Gli ultimi giorni di campagna elettorale hanno reso evidenti le difficoltà di “scaldare le piazze”, perfino nelle città che – fra le 564 amministrazioni chiamate al rinnovo – catapultano rapporti di forza, contese e scenari della politica nazionale più convulsa e nebulosa di sempre. Gli ultimi comizi dei big sono stati tutti sotto tono, alcuni sono andati semi deserti. E così rischiano di andare le urne, che si aprono domani mattina alle 8 e fino alle 22 e lunedì dalle 7 alle 15. Terminate le operazioni di voto iniziano gli scrutini e, in caso di ballottaggio per l’elezione dei sindaci, si voterà domenica 9 giugno con le stesse modalità. Per i comuni superiori ai 5 mila abitanti debutta la novità della doppia preferenza di genere, che l’elettore può esprimere sulla scheda per candidati della stessa lista, purché di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda preferenza. “Tempi supplementari” due settimane dopo, il 9 e 10 giugno, quando si terrà l’eventuale ballottaggio negli 89 comuni con più di 15mila abitanti e il primo turno delle comunali in Sicilia. Ecco le partite che contano davvero.
TUTTI HANNO UNA SFIDA DA VINCERE. E MOLTO DA PERDERE
Ci si aspetta un alto tasso di astensione, dunque. E tuttavia non c’è dubbio che di test nazionale si tratti e che ogni forza politica abbia da centrare un obiettivo preciso. Il Popolo delle Libertà gioca in difesa. Al voto vanno infatti la maggior parte dei comuni che avevano svolto le loro amministrative dopo il trionfo del centrodestra alle politiche del 2008. Il Pdl insieme alla Lega Nord può contare su 52 sindaci su 92 città, contro i soli 35 del centrosinistra, la maggior parte di loro esponenti del Pd. In queste città il Pdl punta a una riconferma. Per Berlusconi, sempre più inguiato con la giustizia, anche del teorema secondo cui il consenso delle urne legittima più delle sentenze.
La riconferma il Pd la può trovare invece nei comuni capoluogo, dove i rapporti di forza sono ribaltati, con 9 sindaci democratici, uno di Sel, a Massa Carrara, 4 del Pdl, ed uno a testa per Lega Nord e Udc, Treviso ed Iglesias. Per il partito di Guglielmo Epifani, il voto amministrativo è un test multiplo. Lo è personalmente per il neosegretario, che debutta avendo di fronte a sé il difficile compito di tenere insieme il supporto al governo Letta e una base sempre meno contenta dell’accordo con Berlusconi. Dall’esito si capirà se l’elettorato democratico ha davvero stracciato la tessera o ha ingoiato uno per uno tutti i rospi: dalla mancata vittoria alle politiche di febbraio al balletto di Bersani sul governo coi Cinque stelle, dallo psicodramma del Quirinale e all’abbraccio con il centrodestra suggellato dal governo Letta-Alfano. Non solo. I candidati locali sono anche il frutto delle tante correnti che attraversano e frantumano il partito in vista del congresso d’autunno. Si sono fatte sentire fino all’ultimo con distinguo, veleni, sgambetti e passaggi alla conta dei birilli. Impossibile, dunque, prevedere azioni e reazioni degli elettori democratici.
C’è poi Beppe Grillo con il suo test in 150 comuni. Servirà a confermare o ridimensionare il boom delle politiche. Sotto la lente, per avere un termometro affidabile, il numero di ballottaggi che il Movimento porterà a casa nelle località in cui aveva raccolto più consensi alle politiche 2013. I risultati incassati in Friuli il 21 e 22 aprile scorso, quasi un’appendice del voto di febbraio, hanno registrato una flessione ma era un micro-test. E’ il momento per quello vero. Dal risultato si capirà se Grillo paga un pegno, e quanto pesante, all’indisponibilità a un accordo col Pd, alle polemiche che hanno scandito esordio e attività degli onorevoli a cinque stelle in Parlamento su rimborsi e democrazia interna. Scelta Civica si presenta sfilaccia, con liste locali o in appoggio ad altri candidati. In tutta la Liguria, per dire, non ha un candidato. Per il progetto centrista di Monti&co potrebbe essere un segnale di sopravvivenza.
ROMA, BRESCIA, SIENA E LE ALTRE CITTA’ CHE SCOTTANO
Oltre al conteggio di chi avrà più amministrazioni tra le grandi città al voto – tutti concordano sul punto – il giudizio finale su questa tornata amministrativa sarà determinato dal vincitore di Roma. Match decisivo nella Capitale ma per nulla scontato. In corsa Gianni Alemanno e Ignazio Marino che i sondaggi delle ultime settimane danno in equilibrio, mentre meno prevedibile è il gradimento di De Vito, del M5S, ed il civico Marchini. La fotografia delle piazze dei comizi finali hanno visto San Giovanni decisamente vuota per salutare il candidato Marino, e perfino truppe cammellate a ranghi ridotti per Silvio Berlusconi all’Arco di Costantino. Perfino Grillo fa “quasi il pieno” in Piazza del Popolo. Insomma, se a votare vanno solo i presenti, son guai.
Ad ogni modo non c’è solo Roma. Una delle piazze “calde” è sicuramente Brescia, città che ha visto materializzarsi il divario tra centro destra e centro sinistra “non di governo”. Dove militanti dell’una e l’altra parte sono arrivati agli insulti e alle mani quando mezzo Pdl ha manifestato contro la decisione di non trasferire qui i processi del leader del Pdl. Al voto 141mila cittadini che dovranno scegliere tra vecchio e nuovo. Vecchi, e non per età anagrafica, sono il candidato del centrodestra Adriano Paroli che punta alla conferma e pure lo sfidante del Pd, Emilio Del Bono, già sfidante e perdente nel 2008. Per i Cinque Stelle corre Laura Gamba. Oltre ai tre favoriti sono in corsa sette candidati minori.
Potente il significato simbolico e politico nella sfida per Siena che torna al voto dopo appena due anni. Qui è scoppiato l’ultimo scandalo finanziario d’Italia e ha travolto i democratici (e non solo senesi) come un fiume in piena. Il travaglio interno al Pd ha prodotto una spaccatura tra i consiglieri che ha portato, a maggio dell’anno scorso, alle dimissioni del sindaco Franco Ceccuzzi. Dopo due primarie, il Pd candida Bruno Valentini, dirigente per trent’anni di Mps ma già sindaco di Monteriggioni, e per questo spendibile come “outsider” rispetto ai poteri locali protagonisti del terremoto. Che la partita stia a cuore al Pd lo si è capito con il comizio del neo segretario Epifani.
Tra le partite più importanti c’è quella di Ancona: nel capoluogo delle Marche i cittadini sono senza sindaco dal 27 dicembre 2012. Ovvero, da quando Fiorello Gramillano, del Partito democratico, aveva rassegnato le dimissioni a causa di alcuni problemi interni alla maggioranza di centrosinistra. Diversi i candidati al voto, in una città venuta alla ribalta nelle scorse settimane anche per i dissidi a 5 stelle: il candidato ufficiale Andrea Quattrini era stato criticato da alcuni ex militanti grillini, vicini all’ex candidato del 2009 Mauro Gallegati.
Curiosa la partita di Barletta. Il candidato a sindaco di un centrosinistra in versione allargata arriva direttamente dal Quirdinale, è l’ex portavoce del presidente Napolitano, Pasquale Cascella, attorno al quale si raccolgono Pd, Sc, Cd, Sinistra unita e due civiche.