Visualizzazione post con etichetta Magistrati. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Magistrati. Mostra tutti i post

domenica 20 agosto 2023

Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo”. - GIUSTIZIA & IMPUNITÀ Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo” Lettera a Nordio di 320 magistrati in pensione: “La separazione delle carriere stravolgerebbe la Carta. Rischio pm controllati dal governo” - Paolo Frosina

 

“Siamo magistrati in pensione, civilisti e penalisti, giudici e pubblici ministeri, che sentono il bisogno di intervenire contro l’annunciata riforma della separazione delle carriere“. Inizia così la lettera-appello rivolta al ministro della Giustizia Carlo Nordio dalle toghe della sua stessa generazione, che avvertono dei “pericoli” a cui si andrebbe incontro se diventasse realtà l’antico proposito del centrodestra di creare due distinte figure professionali per la magistratura giudicante e requirente. A sottoscrivere il testo sono stati già in 320 in poco più di tre giorni, tra cui alcuni dei magistrati più famosi d’Italia: si va dall’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi agli ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, dall’ex procuratore di Milano Francesco Greco all’ex procuratore di Torino Armando Spataro, dall’ex presidente aggiunto della Suprema Corte, Renato Rordorf, agli ex capi del Dipartimento carceri del ministero Giovanni Tamburino e Dino Petralia. Uniti, nonostante le differenze (anche notevoli) di sensibilità politiche e culturali, nel chiedere al loro ex collega un ripensamento (il 6 settembre avrà inizio l’esame parlamentare delle quattro proposte di legge costituzionale in materia, presentate da Forza Italia, Lega e Azione-Iv).

I firmatari ricordano che già con la riforma Castelli (2005) e ancor più con la riforma Cartabia (2022) della legge sull’ordinamento giudiziario “sono già stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra”: al momento, infatti, il cambio di funzione è possibile una sola volta e nei primi dieci anni di carriera, con l’obbligo di trasferirsi in un altro distretto. E infatti a sceglierlo, negli ultimi anni, sono state poche decine di magistrati. Ma il problema, sottolineano le toghe in pensione, è di principio: la riforma “stravolgerebbe l’attuale architettura costituzionale che prevede non solo l’appartenenza di giudici e pm a un unico ordine giudiziario, indipendente da ogni altro potere, ma anche un unico Csm“, il Consiglio superiore della magistratura, l’organo di autogoverno. E a chi sostiene che questo stato di cose “darebbe un vantaggio al pm rispetto al difensore” ribattono che la tesi “non ha alcun fondamento, perché i giudici guardano alla rispondenza agli atti e alla logica degli argomenti delle parti, e non certo alla posizione di chi li propone; se fosse fondato questo sospetto, anche il giudice dell’impugnazione non dovrebbe far parte della stessa carriera del precedente grado di giudizio”.

È “essenziale”, invece – scrivono gli ex magistrati – “che il pm abbia in comune con il giudice la stessa formazione e cultura della giurisdizione, godendo anche della stessa indipendenza, perché la sua azione deve mirare all’accertamento della verità, e deve poter essere rivolta nei confronti di chiunque, senza alcun timore”. E in questo senso la separazione delle carriere farebbe “perdere all’Italia una peculiarità dataci dai padri costituenti che molti colleghi all’estero ci invidiano, vale a dire avere realizzato una vera autonomia dell’ordine giudiziario, perché solo con un pubblico ministero indipendente si ha la garanzia che potrà essere portata davanti al giudice qualsiasi persona che abbia commesso un reato”. Oggi infatti – prosegue la lettera – “il pm, proprio perché organo di giustizia, è obbligato a cercare anche le prove favorevoli all’indagato e non di rado chiede l’assoluzione: avverrebbe lo stesso con un pm formato nella logica dell’accusa e del tutto separato dalla cultura del giudice?”. Non solo: “Oggi il pubblico ministero è valutato dal Consiglio superiore della magistratura anche per il suo equilibrio e non certo per il numero di condanne che è riuscito ad ottenere. Ci sorprende che i fautori delle carriere separate non vedano i pericoli di un corpo specializzato nel sostenere l’accusa che, secondo i promotori della riforma, agirebbe senza essere sottoposto ad alcun controllo”. A meno che, concludono, “il vero intento non sia quello di consentire al governo di controllare l’azione del pubblico ministero”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/08/19/lettera-a-nordio-di-320-magistrati-in-pensione-la-separazione-delle-carriere-stravolgerebbe-la-carta-rischio-pm-controllati-dal-governo/7265504/

sabato 15 maggio 2021

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara: non ci sono più i magistrati di una volta? Le inchieste di FQ MillenniuM in edicola.


Il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 15 maggio, racconta la crisi di credibilità delle toghe. Di Matteo: "Se non cambiamo noi ci cambieranno altri". Gli scandali del passato e il ruolo della riforma Mastella. Che, dice Palamara, "ha aperto al carrierismo sfrenato". E alla possibilità per la politica di condizionare le nomine. "Per tenere buono il rottweiler", dice oggi Mastella. Intanto spunta il primo sindacato alternativo all'Anm, contro la logica delle correnti. Fra gli animatori, Clementina Forleo e Alfredo Robledo.

Ieri Falcone e Borsellino, oggi Palamara. Non ci sono più i magistrati di una volta? Il mensile FQ MillenniuM, diretto da Peter Gomez, nel nuovo numero in edicola da sabato 15 maggio racconta la crisi di credibilità della magistratura italiana, travolta dal caso Palamara che ha svelato intrighi, spartizioni correntizie e accordi con la politica nelle nomine ai vertici delle procure più importanti, a cominciare da quella di Roma. A questo si è poi aggiunto il caso Amara sui verbali d’interrogatorio usciti dalla Procura di Milano e recapitati in forma anonima al Fatto Quotidiano e poi a Repubblica. Un cambio di era rispetto alla lunga stagione dello scontro fra magistratura e politica, del pool antimafia di Palermo e del pool anticorruzione di Milano, delle polemiche roventi sui processi a Silvio Berlusconi?

«Bisogna rendersi conto che da troppo tempo ormai i magistrati liberi, coraggiosi e indipendenti vedono il Consiglio superiore della magisratura come un organo dal quale diffidare, fonte di possibili ritorsioni», accusa Nino Di Matteo, magistrato della procura nazionale antimafia che del Csm fa parte, in una lunga intervista al mensile. Della crisi di credibilità delle toghe ora prova ad approfittare la politica, mette in guardia il magistrato che in Sicilia ha indagato sulle stragi e sulla Trattativa: «Ci dobbiamo rendere conto che se il cambiamento non parte da noi, saranno altri a cambiare la magistratura, per limitarne l’autonomia e l’indipendenza e subordinarla al potere politico». Una tentazione che Di Matteo attribuisce a «una volontà trasversale ai vari schieramenti politici».

Ma davvero la vicenda Palamara è indice di una degenerazione, o certe pratiche ci sono sempre state, e la differenza la fa solo il software spia “trojan” inoculato dalla Procura di Perugia nello smartphone del magistrato sotto inchiesta? Da un lato, ricostruisce FQ MillenniuM, di simili intrighi è costellata la storia giudiziaria italiana, basti pensare ai magistrati iscritti alla loggia P2, al “porto delle nebbie” di Roma dove finivano per arenarsi le inchieste che toccavano il potere, fino alle manovre per sbarrare la strada a Giovanni Falcone al vertice dell’ufficio istruzione di Palermo. E, in anni più recenti, il caso P3 e i tentativi di condizionare la Corte costituzionale sul Lodo Alfano che avrebbe garantito l’immunità all’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi.

Dall’altro lato, però, negli anni una svolta c’è stata, ed è la riforma Mastella del 2007, portata avanti dal governo di centrosinistra guidato da Romano Prodi. La riforma ha abolito il criterio dell’anzianità per le nomine di vertice e ha attribuito maggiori poteri al procuratore capo rispetto ai suoi sostituti. E ha finito per introdurre «il carrierismo sfrenato che porterà la magistratura a cambiare pelle», dice a FQ MillenniuM proprio Luca Palamara. I curricula dei diversi candidati spesso sono perfettamente equiparabili e allora «sul merito prevale l’appartenenza alla corrente». Nel contempo, per i politici si è aperta la possibilità di provare ad addomesticare certe procure spingendo un candidato gradito: «L’idea di responsabilizzare il procuratore, rafforzando le sue prerogative, può essere vista anche nell’ottica di individuare dei procuratori di riferimento», ammette Palamara.

In qualche modo lo ammette anche Clemente Mastella, pur rivendicando la bontà di quella rivoluzione. In quel periodo storico, ricorda al mensile, «c’era una forma di narcisismo dei magistrati, tutti volevano essere Di Pietro, perché volevano andare sui giornali». Dopo la riforma, «il procuratore capo non poteva più restare al suo posto a vita, ma gli attribuimmo un potere maggiore, così che non dovesse più sottostare al diktat di un sostituto che magari era appena arrivato e non aveva esperienza. È vero: il potere del pm da diffuso diventa gerarchico. Lo rivendico come fattore positivo». E se questo apre la strada al politico che intende “scegliere” il capo della Procura che si occupa o potrebbe occuparsi di lui o del suo partito? «C’è sempre una forma di paura dei politici, data la forza della magistratura, quindi tenti di tenerti buono il rottweiler. Però è sbagliato».

Sulla crisi di credibilità della magistratura intervengono sul mensile fra gli altri Gian Carlo Caselli, che ripercorre anche il suo rapporto con Magistratura democratica, e Luigi De Magistris, che parla di un “golpe giudiziario” ai suoi danni, che lo ha portato a lasciare la toga per darsi alla politica, fino a diventare sindaco di Napoli. La rivolta contro il sistema Palamara – o meglio, contro il sistema ben più generalizzato che le intercettazioni a Palamara hanno solo in parte messo a nudo – ha spinto alcuni colleghi a tentare un’impresa senza precedenti: la creazione di un sindacato alternativo all’Associazione nazionale magistrati, storica e solitaria rappresentanza delle toghe italiane. Ad animarlo fra gli altri Clementina Forleo e Andrea Mirenda, con l’appoggio di Alfredo Robledo. Tre magistrati che – raccontano – hanno subito attacchi e provvedimenti disciplinari anche perché sprovvisti dell’ombrello di una corrente. Il nuovo sindacato Mia (Magistrati italiani associati) conta al momento una trentina di supporter. Nello Statuto in discussione, dichiara Mirenda, giudice di sorveglianza a Verona, ci sarà «la rotazione degli incarichi direttivi e semidirettivi e il sorteggio dei membri del Csm, come anticorpi decisivi contro il rischio di dar vita all’ennesima corrente».

IlFQ

venerdì 14 giugno 2019

Come volevano silurare il Pm del caso Renzi. - Simone Di Meo - La Verità



È come Chernobyl. Le radiazioni che arrivano dall’ inchiesta di Perugia contaminano e rendono inabitabili le ovattate sale del Csm dove ieri, nel giro di un pomeriggio, è andata in scena la prima parte della grande resa dei conti. Il togato Gianluigi Morlini (ex Unicost) si è dimesso dall’ incarico, pur non essendo indagato. Ha ammesso di aver incrociato il deputato renziano Luca Lotti a un dopocena con altri colleghi il 9 maggio 2019: «so di avere compiuto un errore dovuto a leggerezza», ma «senza che io lo sapessi o lo potessi prevedere».

È però finito comunque sotto inchiesta disciplinare su decisione del procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio così come gli altri tre consiglieri che, nei giorni scorsi, insieme a lui si erano autosospesi: Corrado Cartoni, Antonio Lepre e Paolo Criscuoli (che nel frattempo ha lasciato la commissione disciplinare).

L’ atto di incolpazione riguarda tanto gli incontri, ritenuti «non casuali», con Lotti e il deputato del Pd Cosimo Ferri («estranei alle funzioni consiliari», si legge nelle carte) quanto il presunto dossier preparato per azzoppare candidati scomodi nella corsa per la Procura di Roma, come il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo (che coordina le indagini sulla famiglia Renzi, inchieste che hanno portato all’ arresto dei genitori dell’ ex premier), che emerge come il vero obiettivo delle manovre dell’ ex ministro Lotti.

L’ atto contiene anche stralci di intercettazioni, raccolte col virus spia incolpato nel cellulare dell’ ex segertario dell’ Anm Luca Palamara (indagato per corruzione), che catturano le voci dei partecipanti (tra cui due uomini non identificati, uno dall’ accento meridionale e un altro dall’accento settentrionale).

Lotti appare impegnato a dare il timing della nomina del procuratore di Roma che dovrà reggere la pubblica accusa contro lo stesso Lotti nel processo Consip («Io strategicamente vi darei il suggerimento di chiudere tra il 27, 28 e 29») e a coordinare le attività («si vira su Viola, sì ragazzi», afferma in tono familiare, notano gli inquirenti). Di rilievo anche la conversazione di Palamara in cui dice che ha un «collega» (omissis) «che ha raccolto tutte queste cose in un dossier… tutte le cose che non andavano su questa inchiesta (concorsi in sanità, ndr) e su Creazzo, e su… (inc) e ha fatto l’ esposto».

E prosegue: «Quindi non è proprio…non una cazzata, voglio dì…non è passata come una cazzata». Il mattatore degli incontri – si legge nell’ atto di incolpazione – è sempre Lotti. Che in un altro brano sembra molto preoccupato del destino di Creazzo: «Poi però a Torino chi ci va? Scusate se vi faccio ‘sta domanda». Palamara risponde: «Torino secondo me è ormai aperta». E il deputato del Pd controreplica: «Non so, però per me è un pizzico legata alla difesa d’ ufficio che devono fare loro due di una situazione fiorentina che sinceramente ve lo dico con franchezza è imbarazzante…».

Interviene anche l’ ex consigliere Csm, Luigi Spina: «Cioè, l’ unico che se ne va… e noi te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile». Un altro interlocutore domanda: «Ma non ha fatto domanda per Torino Creazzo?» E Lotti, evidentemente informato, assicura: «No, no». Palamara spiega dall’ alto della sua esperienza: «Se lo mandi a Reggio liberi Firenze». E Lotti: «Se quello di Reggio va Torino, è evidente che questo posto è libero. E quando lui capisce che non c’ è più posto per Roma, fa domanda (per Reggio Calabria, ndr) e che se non fa domanda non lo sposta nessuno, ammesso che non ci sia, come voi mi insegnate… (voce fuori campo interviene: «un altro motivo». E Luca ragiona: «A norma di regolamento un altro motivo». Il riferimento sembra all’ esposto che dovrebbe affondare Creazzo.

Interviene Ferri: «Ma secondo te poi Creazzo, una volta che perde Roma, ci vuole andà a Reggio Calabria o no, secondo voi?». Palamara taglia corto: «Gli va messa paura con l’ altra storia, no? (…) Liberi Firenze, no?».

Il vero nemico di Luca Lotti e della sua compagnia in quel momento sembra quindi più che il procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ielo, il procuratore di Firenze.

In una giornata dominata da evidenti segnali di una crisi di sistema, si è fatto sentire anche il Colle. E lo ha fatto attraverso fonti raccolte dalle agenzie di stampa che hanno specificato che «il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha mai parlato di nomine di magistrati né è mai intervenuto per esse». Una presa di distanza, anche rispetto alle notizie pubblicate da alcuni quotidiani sui contenuti delle ormai famigerate intercettazioni di Perugia, utile a sottolineare «inoltre che la presidenza della Repubblica non dispone di notizie su indagini giudiziarie e che dal Colle non sono uscite informazioni al riguardo».

«Gli interventi messi in atto sono stati di carattere generale, per richiamare il rispetto rigoroso dei criteri e delle regole preposte alle funzioni del Csm». Riguardo, invece, a Luca Lotti, dal Colle evidenziano «che l’ ultimo incontro risale al 6 agosto 2018 quando è cessato dalla carica di ministro». Dunque, non c’ è stata alcuna riunione successiva.

Di ricostruzioni approssimative, che riguardano la presidenza della Repubblica, parla anche chi, in queste ore, ha potuto raccogliere gli sfoghi di Palamara che avrebbe confidato agli amici di «non aver mai sparso veleni sul Quirinale» come «ho dettagliato nel mio interrogatorio», reso nei giorni scorsi a Perugia.

https://infosannio.wordpress.com/2019/06/13/come-volevano-silurare-il-pm-del-caso-renzi/

mercoledì 12 giugno 2019

Depistaggio Borsellino, dopo 27 anni il colpo di scena: indagati alcuni magistrati.

Risultati immagini per borsellino

Non è più a carico di ignoti l’indagine della Procura di Messina sul depistaggio dell’inchiesta sulla Strage di via d’Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta.
I pm della città dello Stretto hanno iscritto nel registro degli indagati alcuni magistrati del pool che indagò sull’attentato. Agli indagati e alle persone offese oggi la Procura ha notificato l’esecuzione di accertamenti tecnici irripetibili.
Si tratta di due ex magistrati della procura di Caltanissetta, Annamaria Palma e Carmelo Petralia, che si occuparono della prima inchiesta sulla strage.
Gli accertamenti irripetibili riguardano l’analisi di 19 cassette su cui vennero registrati una serie di interrogatori e che potrebbero essere danneggiate dall’ascolto. Da qui l’esigenza che all’esame partecipino i legali delle persone coinvolte con l’ausilio di consulenti.
Dopo 27 anni da quel tragico 19 luglio 1992, dunque, si apre un nuovo squarcio.
Tra coloro che indagarono sulla strage e che gestirono il falso pentito Vincenzo Scarantino, figurano oltre Carmelo Petralia (procuratore aggiunto a Catania) e Anna Maria Palma (avvocato generale di Palermo), anche Nino Di Matteo (attualmente alla Dna) e Giovanni Tinebra (ormai deceduto).
Solo pochi giorni fa Scarantino ha ritrattato le sue accuse ai pm, facendo un clamoroso dietrofront“Non furono i pm a orchestrare il depistaggio sulla strage Borsellino, furono solo i poliziotti. Il dottor Di Matteo non mi ha mai suggerito niente, il dottor Carmelo Petralia neppure. Mi hanno convinto i poliziotti a parlare della strage” (LEGGI QUI). 
Intanto, per il depistaggio (accertato con la sentenza Trattativa), sono indagati e sotto processo proprio tre poliziotti a Caltanissetta: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei.

mercoledì 16 gennaio 2019

Corruzione, arrestati i magistrati Savasta e Nardi. Misura interdittiva per Dagostino, l’ex socio di Tiziano Renzi. - Tiziana Colluto

Corruzione, arrestati i magistrati Savasta e Nardi. Misura interdittiva per Dagostino, l’ex socio di Tiziano Renzi

Il giudice del Tribunale di Roma e il suo collega pm nella Capitale sono in carcere con l'accusa di associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso per fatti commessi tra il 2014 e il 2018 quando erano in servizio a Trani. La procura di Lecce ha ricostruito i flussi di denaro: Savasta avrebbe intascato quasi mezzo milione di euro, Nardi un qualcosa come 1.300.000 euro. Coinvolto anche l'imprenditore: secondo i magistrati di Lecce, Savasta lo avrebbe favorito evitando di fare "i dovuti approfondimenti sul suo conto" in cambio di denaro.

Soldi, diamanti, Rolex, viaggi a Dubai, auto e pure la ristrutturazione di una casa. Per questo i due magistrati Antonio Savasta e Michele Nardi, con l’intermediazione di alcuni avvocati, aggiustavano i processi a carico di facoltosi imprenditori baresi e toscani, tra cui Luigi Dagostinore degli outlet ed ex socio di Tiziano Renzi e Laura Bovoli. È il “programma criminoso” emerso dall’inchiesta coordinata dai pm Leonardo Leone de Castris e Roberta Licci che conta in totale18 indagati. I due magistrati sono ora in carcere, arrestati su richiesta della procura di Lecce che ha ricostruito i flussi di denaro: Savasta avrebbe intascato quasi mezzo milione di euro, Nardi un qualcosa come 1.300.000 euro. Associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso sono le accuse di cui rispondono. I fatti contestati vanno dal 2014 al 2018, ma per i pm ce ne sono altri documentati fino a dieci anni fa, ormai prescritti. I due magistrati erano in servizio a Trani in quel periodo. Ora Savasta è giudice del Tribunale di Roma, mentre Nardi è pm a Roma ed in precedenza gip a Trani e magistrato all’ispettorato del ministero della Giustizia. Per loro il gip Giovanni Gallo ha disposto la misura cautelare più restrittiva, per un motivo ben preciso: era in corso un “gravissimo, documentato e attuale rischio di inquinamento probatorio”, ha spiegato il procuratore capo De Castris.
Il ruolo di Dagostino – Nell’inchiesta, con un ruolo più marginale, è coinvolto anche l’imprenditore Dagostino, socio di Tiziano Renzi e della moglie nella società Party Srl, chiusa dopo due anni a causa – dissero in una nota i diretti interessati – “di una campagna di stampa avversa”. Dagostino era stato arrestato nel giugno scorso a Firenze e la Procura toscana ha poi trasferito una parte del fascicolo a Lecce, competente sui magistrati del distretto di Corte d’Appello di Bari: l’imprenditore, di origini barlettane, era stato indagato a Trani da Savasta per false fatturazioni relative alle sue imprese.. L’allora pm, secondo l’accusa dei magistrati salentini, lo avrebbe favorito evitando di fare “i dovuti approfondimenti sul suo conto” in cambio di denaro: tangenti, scrive il gip nell’ordinanza, da 20mila 25mila euro. Per Dagostino, per cui i pm avevano chiesto i domiciliari, è stato disposto il divieto temporaneo di esercizio dell’attività imprenditoriale e di esercizio degli uffici direttivi per un anno.
I capi d’imputazione – Oltre ai due magistrati, è stato arrestato e condotto in carcere anche l’ispettore di polizia Vincenzo Di Chiaro, in servizio al commissariato di Corato (Bari). Sono stati interdetti dalla professione per un anno invece gli avvocati Simona Cuomo, del Foro di Bari, e Ruggiero Sfrecola, del Foro di Trani. Nardi, Savasta, Di Chiaro e Cuomo rispondono di associazione per delinquere finalizzata ad una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale. Gli altri indagati, 14 in totale esclusi i già citati, sono accusati, a vario titolo, di millantato credito, calunnia e corruzione in atti giudiziari. In particolare Dagostino e Sfrecola sono accusati di corruzione in atti giudiziari.
L’origine dell’inchiesta – L’intera inchiesta ha avuto origine da una serie di attentati dinamitardi avvenuti nel 2015 a Canosa di Puglia, ai danni di un discount, finito nel mirino del clan Piarulli-Ferraro di Cerignola. Così si è scoperchiato il vaso di Pandora da cui è emerso quello che appare come un “programma criminoso indeterminato nel tempo che, attraverso il costante ricorso alla corruzione di pubblici ufficiali, assicurava favori nei confronti di facoltosi imprenditori”. I due magistrati “avrebbero garantito positivi esiti processuali” nelle vicende giudiziarie in cui erano coinvolti gli imprenditori, “in cambio di ingenti somme di denaro e in alcuni casi di altre utilità tra cui anche gioielli e pietre preziose”.
Viaggi, rolex e diamanti – Il magistrato Nardi in particolare, come emerge dall’ordinanza di custodia cautelare, ha ricevuto dell’imprenditore indagato Flavio D’Introno un viaggio a Dubaida 10mila euro, quindi la ristrutturazione di una casa a Roma costata, tra pavimentazione e pitturazione, circa 120/130mila euro. Il tutto, ricostruiscono i pm, “sia quale prezzo della propria mediazione che con il pretesto di dover comprare il favore dei giudici” in un processo presso il Tribunale di Trani in cui D’Introno era imputato e al termine del quale venne comunque condannato. Nardi ricevette poi da D’Introno anche somme di denaro e un orologio Rolex Daytona, per cercare di aggiustare il successivo processo d’Appello. Da ultimo, due diamanti da un carato ciascuno dal valore di 27mila euro per intervenire sul giudizio di Cassazione dopo che la Corte di secondo grado di Bari aveva comunque condannato D’Introno a cinque anni e nove mesi.
Le “tangenti” di Dagostino – Come emerge sempre dall’ordinanza, le indagini hanno provato una serie di versamenti di denaro effettuati, ad esempio, da Dagostino all’avvocato Ruggiero Sfrecola, somme “(almeno in gran parte) dirette a remunerare i favori effettuati dal Savasta nell’interesse” dell’imprenditore: 20mila euro in contanti l’8 maggio 2015; altri 25mila euro tredici giorni dopo; ulteriori 4.500 e 3.500 euro tra gennaio e febbraio 2016. “Proprio nei giorni (precedenti o successivi) a quelli in cui il Dagostino” consegnava all’avvocato Sfrecola le somme – annotano i magistrati – “il pm Savasta compiva le attività in favore di Dagostino”.
I sequestri – Il gip Giovanni Gallo ha anche disposto il sequestro preventivo nei confronti degli indagati di beni che superano complessivamente i due milioni di euro di valore. In particolare, al magistrato Michele Nardi sono stati sequestrati beni per 672mila euro tra cui un orologio Daytona Rolex d’oro e diamanti, all’altro magistrato Antonio Savasta sono stati sequestrati beni per quasi 490mila euro. Altri 436mila sono stati sequestrati rispettivamente al poliziotto Vincenzo Di Chiaro e all’avvocata barese Simona Cuomo. All’imprenditore fiorentino Dagostino e all’avvocato Ruggiero Sfrecola altri 53mila euro.
Hanno collaborato Rosanna Volpe e Daniele Fiori

sabato 26 aprile 2014

Reati ambientali, la legge che fa saltare i processi. E la grande industria ringrazia. - Thomas Mackinson e Francesco Casula


Porto Tolle, Tirreno Power, Ilva: per magistrati ed esperti di diritto il testo in discussione al Senato sembra scritto appositamente per limitare le indagini e mettere a rischio procedimenti in corso. Il Pd si divide. Realacci parla di "eccesso di critica dei magistrati", Casson bolla il testo come un "regalo alle lobby".

Chi inquina paga, ma solo se ha violato disposizioni amministrative, se il danno è irreversibile e la sua riparazione è “particolarmente onerosa” per lo Stato. In altre parole, chi inquina rischia di non pagare affatto. E’ ​all’ultimo giro di boa il testo unificato che introduce nel codice penale i delitti contro l’ambiente. Nelle intenzioni dovrebbe rendere dura la vita a chi infierisce su natura, paesaggio e salute pubblica. Ma il testo, per come è scritto, rischia invece di diventare un lasciapassare anche per le violazioni più gravi e di mettere a rischio anche le indagini e i processi penali già in corso, a partire da quelli sui disastri da inquinamento ambientale provocati dalle centrali termoelettriche di Savona e Rovigo. E anche nell’eventuale processo contro i vertici Ilva, la nuova norma, grazie al parametro dell’irreversibilità, potrebbe trasformarsi in un regalo ai Riva. A lanciare l’allarme sono magistrati ed esperti di diritto dell’ambiente che sperano ancora di sensibilizzare Palazzo Madama dove, in vista dell’approvazione, si ripropone anche lo scontro ideologico tra la destra sensibile alle ragioni dell’industria e la sinistra ambientalista, nonché un ruvido confronto tra le diverse anime di quest’ultima.
Licenziato alla Camera e ora all’esame delle commissioni Ambiente e Giustizia del Senato, il disegno di legge 1345 introduce delitti in materia ambientale, prima puniti solo con contravvenzioni, ad eccezione del traffico illecito di rifiuti (2007) e della “combustione illecita” del decreto Terra dei Fuochi (2014). Viene inoltre introdotto all’articolo 452 ter il “disastro ambientale”, punito con pene da 5 a 15 anni. Mano pesante, dunque, se non fosse che la norma è scritta con tanti e tali paletti da renderne impossibile l’applicazione, almeno ai casi davvero rilevanti. E lo dicono gli stessi magistrati che devono utilizzarlo. Il nuovo testo qualifica infatti il “disastro” come “alterazione irreversibile dell’equilibrio dell’ecosistema” quando quasi mai, per fortuna, il danno ambientale si rivela tale. In alternativa come un evento dannoso il cui ripristino è “particolarmente oneroso” e conseguibile solo con “provvedimenti eccezionali”. Ma il degrado ambientale potrebbe verificarsi anche se ripristinabile con mezzi ordinari. L’estensione della compromissione e del numero delle persone offese cozzano poi con la possibilità che il disastro possa consumarsi in zone poco abitate e non per forza estese.
Il disegno di legge sposta poi in avanti la soglia di punibilità configurando il disastro come reato di evento e non più di pericolo concreto, come è invece il “disastro innominato” (l’art. 434 del codice penale, comma primo), la norma finora applicata dalla giurisprudenza al disastro ambientale. Sinora era stato possibile punire chi commetteva “fatti diretti a causare un disastro”, quando vi era stato il pericolo concreto per la pubblica incolumità, anche senza che il disastro avvenisse perché non sempre il disastro è una nave che perde petrolio, un incendio o un’esplosione che producono evidenza immediata del danno. A volte, come nel caso dell’inquinamento da combustibili fossili e delle microparticelle come l’amianto, il disastro può restare “invisibile” a lungo prima che emergano i segnali della compromissione dell’ambiente e della salute della collettività. Segnali che, a volte, solo le correlazioni della scienza medica e dei periti riescono a individuare tra una certa fonte inquinante e il pericolo concreto di aumento di patologie e degrado ambientale in una certa area. Sempre che i magistrati abbiano potuto disporre le indagini penali.
Il procuratore generale di Civitavecchia Gianfranco Amendola, storico “pretore verde”, sottolinea la terza grave lacuna. “Deriva dalla evidentissima volontà del nuovo testo di collegare i nuovi delitti alle violazioni precedenti”. Il reato può essere contestato solo nelle ipotesi in cui sia prevista una “violazione di disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, specificamente poste a tutela dell’ambiente e la cui inosservanza costituisce di per sé illecito amministrativo o penale, o comunque abusivamente, cagiona un disastro ambientale”. Come se fosse lecito, altrimenti, provocare enormi danni all’ambiente. “Fare addirittura dipendere la punibilità di un fatto gravissimo dall’osservanza o meno delle pessime, carenti e complicate norme regolamentari ed amministrative esistenti significa subordinare la tutela di beni costituzionalmente garantiti a precetti amministrativi spesso solo formali o a norme tecniche che, spesso, sembrano formulate apposta per essere inapplicabili”.
I processi a rischio: da Rovigo alla Terra dei FuochiIl testo di legge sembra sdoganare allora la linea difensiva (finora sconfitta) in alcuni processi celebri, a partire da quello di Radio Vaticana dove, a fronte di prove indiscutibili sulla molestia e la nocività delle emissioni, la difesa si era incentrata sul fatto che la norma contestata (art. 674 c.p.) richiede che l’evento avvenga “nei casi non consentiti dalla legge”. Ma soprattutto apre grandi incognite su quelli ancora da celebrarsi. Allunga un’ombra, ad esempio, sull’appello del processo appena concluso a Rovigo che ha visto condannare gli amministratori di Enel Tatò e Scaroni per le emissioni in eccesso della centrale a olio di Porto Tolle. C’è il rischio concreto, se la norma sarà licenziata così dal Senato, che in sede d’Appello ci sarà una normativa più favorevole ai vertici del colosso energetico che depenalizza proprio il reato per cui sono stati condannati.
“Nel dibattimento la maggior difficoltà è stata proprio quella di individuare specifiche disposizioni violate nella gestione dell’impianto”, spiega il legale di parte civile Matteo Ceruti. Era poi quello il cavallo di battaglia della difesa degli imputati, la non illeicità delle emissioni della centrale che – grazie a deroghe e proroghe connesse per gli impianti industriali esistenti – avrebbe potuto “legittimamente” emettere in atmosfera fino al 2005 enormi quantità di inquinanti, ben oltre i limiti imposti dall’Europa sin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Il Tribunale ha invece condannato gli amministratori per violazione dell’art. 434, 1° comma cp che punisce i delitti contro la pubblica incolumità, evidentemente ritenendo – sulla base delle consulenze tecniche disposte dalla Procura – che l’enorme inquinamento provocato ha comunque messo in pericolo la salute degli abitanti del Polesine e l’ambiente del Parco del Delta del Po”. La stessa fine, a ben vedere, potrebbe fare anche il procedimento penale di Savona che ha condotto al sequestro dei gruppi a carbone della centrale termoelettrica Tirreno Power di Vado Ligure. Il decreto di sequestro emesso dal gip si fonda, tra l’altro, proprio sulla circostanza che per integrare il reato di disastro innominato non è necessario dimostrare che l’impianto abbia funzionato in violazione di specifiche prescrizioni di legge o dell’autorizzazione.
Lo scontro a suon di emendamenti. Il Pd diviso verso l’approvazione Sul testo si annuncia ora, in previsione del rash finale, uno scontro durissimo nelle commissioni Giustizia e Ambiente. Salvo slittamenti, si potranno presentare emendamenti fino al 29 aprile. E mentre la destra sta a guardare, è la sinistra che si ritrova il problema di far passare il testo com’è o tentare di arginare le falle. Ne rivendica la bontà il proponente, Ermete Realacci (Pd) che non lesina stoccate ai critici che “rischiano di mandare la palla in tribuna, quando sono vent’anni che si lotta per avere reati ambientali nel codice penale”. “Non sono un giurista né un magistrato – dice – se ci sono margini per migliorarlo ben venga. Ma ricordo che alcune toghe avevano criticato anche l’introduzione del reato penale di smaltimento dei rifiuti pericolosi che è stato invece determinante per combattere le ecomafie. Senza quel reato le inchieste sulla Terra dei Fuochi non sarebbero state possibili”. Non è una legge su misura delle industrie? “A volte si cerca la perfezione mentre tocca cercare vie praticabili. Questo testo riesce a tenere insieme l’equilibrio delle pene, che devono essere proporzionali rispetto ad altri reati e la certezza del diritto rispetto al quadro normativo, perché non è che se sono un magistrato posso arrestare chi voglio”.
Parole molto diverse da quelle di un altro esponente di punta del Pd, Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia al Senato, per 25 anni toga di peso in fatto di reati e processi ambientali (a partire dal Petrolchimico di Porto Marghera, 1994). Casson ha colto subito nel testo il rischio di un favore ai gruppi industriali sotto assedio delle procure. E ha depositato a sua volta un disegno di legge in materia di reati ambientali. “L’avevo anche detto a quelli di Legambiente quando, a inizio legislatura, erano venuti in Senato a presentare il ddl: il testo, che resta un importante passo avanti, presenta però criticità di impostazione tecnica tecniche tali da impattare pesantemente su indagini e processi in corso. Allora proposi di modificarlo e rinviarlo alla Camera, piuttosto che farlo entrare in vigore così. A questo punto presenteremo emendamenti correttivi che integrino le disposizioni dei due testi, ma sarà dura. Perché c’è una pressione forte da parte del centrodestra per difendere il testo e farlo passare così com’è, ritenendolo perfetto proprio perché l’impostazione è tale da limitare le possibilità dell’azione penale della magistratura”.
Ilva e la norma sull’irreversibilità del danno
Anche a Taranto, nel procedimento contro la famiglia Riva e i vertici dell’Ilva per il disastro ambientale causato dalle emissioni nocive della fabbrica, il nuovo provvedimento legislativo potrebbe rappresentare un assist agli imputati. Già perché per dimostrare che il danno compiuto dalla fabbrica è “irreversibile” sarebbe necessario dimostrare di aver compiuto una serie di tentativi di bonifica che non hanno prodotto risultati. Nel capoluogo ionico, finora, le bonifiche sono state solo una promessa sulla carta: nonostante i mille proclami e la nomina di garanti, commissari e subcommissari, le operazioni di risanamento del quartiere Tamburi e delle zone colpite dalle emissioni dell’acciaieria, a oggi, nessuna operazione è concretamente partita. In un’aula di tribunale, quindi, al di là delle perizie, l’accusa non avrebbe strumenti per dimostrare che quelle operaizoni sono state inutili. Al collegio difensivo, in definitiva, basterebbe puntare sull’assenza di elementi certi per dimostrare che il danno arrecato non è, oltre ogni ragionevole dubbio, irreversibile. Un regalo che, tuttavia, non migliorerebbe di molto la situazione dei Riva che devono rispondere anche di un reato ben più grave come l’avvelenamento di sostanze alimentari per la contaminazione di oltre 2mila capi di bestiame nelle cui carni fu ritrovata diossina proveniente, secondo le perizie del tribunale, dagli impianti dell’Ilva. Un reato, che richiede la corte da’assise come per i casi di omicidio, punito con una reclusione che va da un minimo di 15 anni a un massimo, se l’avvelenamento ha causato la morte di qualcuno, anche con l’ergastolo.