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giovedì 25 febbraio 2021

Financial Times: la scommessa di Tesla sui bitcoin è un’idiozia ambientale. - Jonathan Ford

 

Le aziende tecnologiche dovrebbero evitare di sostenere soluzioni energivore e insensate. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo  del processo di produzione dei bitcoin: circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile.

Qualche settimana fa Elon Musk ha messo 100 milioni di dollari per finanziare un bando per sistemi innovativi per la rimozione dell’anidride carbonica dall’aria o dall’acqua. Per aggiudicarsi una fetta del premio occorre “creare e dimostrare una soluzione che consenta di estrarre l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera o dagli oceani e stoccarla in modo ecologico e in via permanente”.

La mossa ha senz’altro dato a Musk un’occasione per lucidare alla sua immagine green, ma ha anche offerto una buona sponda a tutti gli acquirenti delle sue auto elettriche, che avranno un motivo in più per sentirsi orgogliosi di far parte della famiglia Tesla: l’ambiente. Tuttavia, prima di buttar giù senza fiatare questa versione verde del magnate del tech, clienti e azionisti farebbero meglio a guardare un po’ più nel dettaglio il modo in cui Tesla spende effettivamente il loro denaro.

La settimana scorsa l’azienda ha rivelato di aver investito 1,5 miliardi di dollari in bitcoin e ha annunciato che intende accettare pagamenti in criptovaluta, anche se “inizialmente in misura limitata”. Tra le esultanze dei fan, il valore del bitcoin è schizzato sopra i 48.000 dollari. Quanto a Tesla, si è subito detto che questa mossa per ingraziarsi i ricchi speculatori in criptomoneta le farà vendere più auto.

C’è solo un problema: è molto difficile fa convivere l’entusiasmo per i bitcoin con l’ambientalismo. Perché i bitcoin non sono per niente innocui per l’ambiente, anzi dal punto di vista delle emissioni risultano un’enorme e inquinante idiozia, e l’ovazione dei tifosi di Elon Musk non fa che peggiorare il loro impatto.

Solitamente, chi critica i bitcoin tende a dipingerli come una cosa inutile, che non produce reddito e non ha una funzione. C’è un altro argomento da considerare, ovvero che le conseguenze ambientali di questo giocattolo per speculatori finaziari sono molto serie. Il “mining”, il processo con cui si aumenta la disponibiltà di criptomoneta, consuma una quantità impressionante di elettricità, perché si base su un funzionamento h 24 di computer costantemente connessi. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo totale del processo di produzione dei bitcoin a circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile, di 20 milioni di abitanti. Una singola transazione in bitcoin utilizza la stessa quantità di energia richiesta da 436.000 pagamenti attraverso il circuito Visa.

Né si tratta di energia particolarmente pulita. Come ha sottolineato ancora de Vries, i “minatori” di bitcoin non sono interessati alle fonti di energia rinnovabile, più care e a rischio intermittenza. Dovendo far funzionare le loro macchine 24 ore su 24, 7 giorni su 7, molti prefersicono collocare i loro server in posti dove l’elettricità è a basso costo e magari è alimentata a carbone, come in Iran, nella provincia dello Xinjiang in Cina o in Kazakistan. Lo scorso autunno un gruppo di bitcoin mining ha persino evitato la chiusura di una centrale a carbone nel Montana.

Questa predilezione per i combustibili fossili produce un’impronta di carbonio enorme. Secondo uno studio del 2019, l’intensità di carbonio del network dei bitcoin si aggirerebbe tra 480 e 500g di CO2 per chilowattora (KWh) di elettricità. Per fare un paragone, l’impronta della rete elettrica del Regno Unito è di circa 250g CO2/KWh.

L’ingresso di Tesla in questo circuito probabilmente peggiorerà questi numeri. Quanto più i prezzi del bitcoin salgono tanto più è forte l’impulso a diventare potenziali minatori. La Judge Business School dell’Università di Cambridge ha rilevato che negli ultimi giorni il consumo di energia dei bitcoin è salito a livelli equivalenti a 121 TWh di consumo annuale, ovvero approssimativamente la quantità di energia assorbita dall’intera economia dei Paesi bassi.

Naturalmente, il bitcoin non è l’unico servizio digitale che consuma quantità folli di elettricità. Anche la Silicon Valley è molto vorace: l’Agenzia internazionale dell’energia riporta che nel 2019 i data center sparsi in tutto il mondo hanno divorato circa 200 TWh.

È vero che i giganti tecnologici statunitensi stanno cercando di ridurre le emissioni associate alle loro attività aumentando gli acquisti di energia rinnovabile. Ma se le big tech tendono ad accaparrarsi quanta più energia verde possibile, agli altri non rimane altro che ricorrere alle forme di produzione più “sporche”.

La scelta di Musk è molto discutibile. È difficile immaginarsi come le azioni di Tesla potranno rimanere in qualunque portafoglio verde se l’azienda comincerà a investire in bitcoin. Eppure, al momento il rating di sostenibilità dell’azienda assegnato dal compilatore dell’indice MSCI è di livello “A”.

L’ascesa delle criptovalute è l’esempio lampante di quanto sia difficile raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni finché le aziende tecnologiche saranno incentivate a sviluppare applicazioni sempre più energivore (Zoom e Netflix, per fare due esempi). La Silicon Valley vagheggia di risolvere questa contraddizione con soluzioni ingegneristiche non testate, come la cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria. Musk ha addirittura ventilato l’ipotesi di inviare persone su Marte, come una sorta di polizza assicurativa rispetto a quello che succederà sul nostro pianeta. Ma la verità è che la soluzione potrebbe essere ben più “terrena”, e risiedere nella capacità dei governi di tassare le esternalità e frenare la domanda galoppante.

Fonte: FT

Traduzione di Riccardo Antoniucci

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/15/financial-times-la-scommessa-di-tesla-sui-bitcoin-e-unidiozia-ambientale/6101601/

lunedì 8 gennaio 2018

Parte la missione spaziale (segreta) «Zuma»: il vettore è di Elon Musk. - Leopoldo Benacchio



La segretissima missione spaziale americana chiamata Zuma è finalmente partita, dopo un paio di rinvii nei mesi scorsi. Il vettore però non è Nasa, come ci si aspetterebbe almeno qui in Europa per un satellite in cui tutto, a parte lo strano nome, è secretato, ma la compagnia SpaceX, di Elon Musk.

Il satellite è partito come carico pagante, come si dice in campo spaziale, del Falcon 9, il vettore oramai collaudatissimo della compagnia, al suo ventunesimo decollo e successivo rientro a terra del primo stadio perfettamente riuscito. Per inciso Space X è la prima e unica compagnia, al momento, a poter vantare questo record di riutilizzo di parti così importanti, ingombrati e costose. Questa particolarità sviluppata da SpaceX va vista come la vera idea rivoluzionaria della compagnia, che ha come obiettivo finale la costruzione di razzi vettori completamente riutilizzabili, progetto che sta portando avanti con notevole successo dato che ha già riutilizzato cinque volte, per lanci successivi, un primo stadio del razzo vettore che era stato recuperato da un volo precedente.

Sembra insomma che la tanto decantata politica del low cost, perseguita con scarso successo da Nasa con lo Space Shuttle negli anni Ottanta e Novanta, che alla fine costò più di una missione convenzionale per i tanti guasti e rinvii, sia realizzata solo oggi proprio dal vulcanico imprenditore Musk, che con le automobili Tesla, le batterie elettriche per la casa dello stesso marchio e SpaceX ha realmente contribuito a rinnovare un mondo un po’ asfittico e povero di intraprendenza.

Il lancio alle ore 2 italiane.
Il lancio di Zuma è comunque avvenuto alle ore 2 italiane di questa mattina e dopo 2 minuti e 19 secondi il primo stadio si è separato dal secondo e ha iniziato a tornare a terra, dove è arrivato dopo otto minuti dal decollo. Allo stesso tempo il secondo stadio ha continuato verso lo spazio e portato in orbita il satellite realizzato dalla Northrop Grumann, un fornitore industriale storico della difesa americana. L’altezza raggiunta dal satellite viene classificata come Leo, orbita bassa in parole povere, sui 400 chilometri circa, come la Stazione Spaziale Internazionale.

Il «mistero» di SpaceX.
È la compagnia costruttrice che ha scelto la SpaceX come vettore, dopo aver stabilito che era quella che presentava il miglior prezzo, in condizioni di sicurezza del lancio ineccepibili.
Fin qui tutto bene insomma e occorre dire che il fatto che questa nuova ed efficiente compagnia spaziale privata utilizzi la piattaforma 39esima del centro spaziale Nasa intitolato a Kennedy fa una certa impressione, dato che fu quello da cui partirono i voli Apollo per la Luna dalla fine degli anni Sessanta.

Pochi gli indizi per capire cosa debba fare il satellite e chi lo gestirà, se una agenzia civile o militare, certo il segreto fa pensare a questa seconda ipotesi. L’orbita, anche se la si conosce pure questa approssimativamente, può starci per entrambe le ipotesi e per compiti di sorveglianza o trasmissione, tipicamente. In ogni modo SpaceX ha già portato due volte nello spazio carichi militari: in particolare, lo scorso settembre, ha messo attorno alla terra l’aereo navetta militare X37B, una specie di mini shuttle. La caccia al vero scopo della missione spaziale Zuma è appena cominciata ma forse il vero segreto è semplicemente che anche la Difesa Usa, o qualche altro importante Ente che ha bisogno di un occhio nello spazio, vuole spendere un po’ meno.

http://www.ilsole24ore.com/art/tecnologie/2018-01-08/parte-missione-spaziale-segreta-zuma-vettore-e-elon-musk-165744.shtml?uuid=AEFnQ6dD

Leggi anche:

http://www.ilsole24ore.com/art/motori/2017-12-20/elon-musk-non-abbiamo-bisogno-partner-ma-se-qualcuno-si-fa-avanti-non-chiudiamo-porta-100632.shtml?uuid=AEaMrDVD

e anche: 

http://www.ilsole24ore.com/art/motori/2018-01-04/tesla-delude-attese-nuovi-ritardi-la-model-3-ma-vendite-continuano-ad-aumentare-113308.shtml?uuid=AEbp52aD