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giovedì 25 febbraio 2021

Financial Times: la scommessa di Tesla sui bitcoin è un’idiozia ambientale. - Jonathan Ford

 

Le aziende tecnologiche dovrebbero evitare di sostenere soluzioni energivore e insensate. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo  del processo di produzione dei bitcoin: circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile.

Qualche settimana fa Elon Musk ha messo 100 milioni di dollari per finanziare un bando per sistemi innovativi per la rimozione dell’anidride carbonica dall’aria o dall’acqua. Per aggiudicarsi una fetta del premio occorre “creare e dimostrare una soluzione che consenta di estrarre l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera o dagli oceani e stoccarla in modo ecologico e in via permanente”.

La mossa ha senz’altro dato a Musk un’occasione per lucidare alla sua immagine green, ma ha anche offerto una buona sponda a tutti gli acquirenti delle sue auto elettriche, che avranno un motivo in più per sentirsi orgogliosi di far parte della famiglia Tesla: l’ambiente. Tuttavia, prima di buttar giù senza fiatare questa versione verde del magnate del tech, clienti e azionisti farebbero meglio a guardare un po’ più nel dettaglio il modo in cui Tesla spende effettivamente il loro denaro.

La settimana scorsa l’azienda ha rivelato di aver investito 1,5 miliardi di dollari in bitcoin e ha annunciato che intende accettare pagamenti in criptovaluta, anche se “inizialmente in misura limitata”. Tra le esultanze dei fan, il valore del bitcoin è schizzato sopra i 48.000 dollari. Quanto a Tesla, si è subito detto che questa mossa per ingraziarsi i ricchi speculatori in criptomoneta le farà vendere più auto.

C’è solo un problema: è molto difficile fa convivere l’entusiasmo per i bitcoin con l’ambientalismo. Perché i bitcoin non sono per niente innocui per l’ambiente, anzi dal punto di vista delle emissioni risultano un’enorme e inquinante idiozia, e l’ovazione dei tifosi di Elon Musk non fa che peggiorare il loro impatto.

Solitamente, chi critica i bitcoin tende a dipingerli come una cosa inutile, che non produce reddito e non ha una funzione. C’è un altro argomento da considerare, ovvero che le conseguenze ambientali di questo giocattolo per speculatori finaziari sono molto serie. Il “mining”, il processo con cui si aumenta la disponibiltà di criptomoneta, consuma una quantità impressionante di elettricità, perché si base su un funzionamento h 24 di computer costantemente connessi. L’economista olandese Alex de Vries ha stimato il consumo totale del processo di produzione dei bitcoin a circa 78 terawattora (TWh) all’anno, a livello globale. È l’equivalente all’assorbimento elettrico dell’intera popolazione del Cile, di 20 milioni di abitanti. Una singola transazione in bitcoin utilizza la stessa quantità di energia richiesta da 436.000 pagamenti attraverso il circuito Visa.

Né si tratta di energia particolarmente pulita. Come ha sottolineato ancora de Vries, i “minatori” di bitcoin non sono interessati alle fonti di energia rinnovabile, più care e a rischio intermittenza. Dovendo far funzionare le loro macchine 24 ore su 24, 7 giorni su 7, molti prefersicono collocare i loro server in posti dove l’elettricità è a basso costo e magari è alimentata a carbone, come in Iran, nella provincia dello Xinjiang in Cina o in Kazakistan. Lo scorso autunno un gruppo di bitcoin mining ha persino evitato la chiusura di una centrale a carbone nel Montana.

Questa predilezione per i combustibili fossili produce un’impronta di carbonio enorme. Secondo uno studio del 2019, l’intensità di carbonio del network dei bitcoin si aggirerebbe tra 480 e 500g di CO2 per chilowattora (KWh) di elettricità. Per fare un paragone, l’impronta della rete elettrica del Regno Unito è di circa 250g CO2/KWh.

L’ingresso di Tesla in questo circuito probabilmente peggiorerà questi numeri. Quanto più i prezzi del bitcoin salgono tanto più è forte l’impulso a diventare potenziali minatori. La Judge Business School dell’Università di Cambridge ha rilevato che negli ultimi giorni il consumo di energia dei bitcoin è salito a livelli equivalenti a 121 TWh di consumo annuale, ovvero approssimativamente la quantità di energia assorbita dall’intera economia dei Paesi bassi.

Naturalmente, il bitcoin non è l’unico servizio digitale che consuma quantità folli di elettricità. Anche la Silicon Valley è molto vorace: l’Agenzia internazionale dell’energia riporta che nel 2019 i data center sparsi in tutto il mondo hanno divorato circa 200 TWh.

È vero che i giganti tecnologici statunitensi stanno cercando di ridurre le emissioni associate alle loro attività aumentando gli acquisti di energia rinnovabile. Ma se le big tech tendono ad accaparrarsi quanta più energia verde possibile, agli altri non rimane altro che ricorrere alle forme di produzione più “sporche”.

La scelta di Musk è molto discutibile. È difficile immaginarsi come le azioni di Tesla potranno rimanere in qualunque portafoglio verde se l’azienda comincerà a investire in bitcoin. Eppure, al momento il rating di sostenibilità dell’azienda assegnato dal compilatore dell’indice MSCI è di livello “A”.

L’ascesa delle criptovalute è l’esempio lampante di quanto sia difficile raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni finché le aziende tecnologiche saranno incentivate a sviluppare applicazioni sempre più energivore (Zoom e Netflix, per fare due esempi). La Silicon Valley vagheggia di risolvere questa contraddizione con soluzioni ingegneristiche non testate, come la cattura diretta dell’anidride carbonica dall’aria. Musk ha addirittura ventilato l’ipotesi di inviare persone su Marte, come una sorta di polizza assicurativa rispetto a quello che succederà sul nostro pianeta. Ma la verità è che la soluzione potrebbe essere ben più “terrena”, e risiedere nella capacità dei governi di tassare le esternalità e frenare la domanda galoppante.

Fonte: FT

Traduzione di Riccardo Antoniucci

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2021/02/15/financial-times-la-scommessa-di-tesla-sui-bitcoin-e-unidiozia-ambientale/6101601/

giovedì 21 gennaio 2021

Bergamo e Brescia prime in Europa per morti da smog.

 

Studio su polveri sottili, nella top ten anche Vicenza e Saronno.

Brescia e Bergamo hanno il tasso di mortalità da particolato fine (PM2.5) più alto in Europa. Nella top ten anche Vicenza (al quarto posto) e Saronno (all'ottavo). E' il risultato di uno studio condotto da ricercatori dell'Università di Utrecht, del Global Health Institute di Barcellona e del Tropical and Public Health Institute svizzero, pubblicato su The Lancet Planetary Health e finanziato dal ministero per l'innovazione spagnolo e dal Global Health Institute.

Lo studio analizza anche la mortalità da biossido di azoto (NO2), con Madrid la città con maggior numero di decessi in Europa, e Torino e Milano rispettivamente al terzo e quinto posto.

I risultati mostrano che 51mila morti premature da PM2,5 e 900 da NO2 potrebbero essere evitate ogni anno, se le città prese in esame riducessero i livelli dei due inquinanti raccomandati dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms). I dati per ogni città sono consultabili sul sito www.isglobalranking.org. Applicando le linee guida Oms sul PM2,5 a Brescia potrebbero essere evitati 232 morti l'anno e a Bergamo 137. Facendo lo stesso con l'NO2 a Torino, ci sarebbero 34 decessi in meno, e a Milano 103. 

https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2021/01/20/bergamo-e-brescia-prime-in-europa-per-morti-da-smog-_e39b8b60-98e2-4f23-a1f0-b98c6148d79e.html

mercoledì 25 novembre 2020

La sterzata della Francia sulla tutela del clima: “Arriva il reato di ecocidio”. - Luana De Micco

 

La proposta di due ministri. Nell'ordinamento entreranno due tipi di contestazioni: la prima è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all'ambiente, la seconda è un “reato per la messa in pericolo grave dell'ambiente”. Previste multe fino a 4,5 milioni e anche la reclusione.

La Francia si prepara ad introdurre nel suo codice penale il concetto di “ecocidio”: inquinare e compiere azioni gravi contro l’ambiente diventeranno dunque reati. L’annuncio è arrivato sulle pagine del settimanale della domenica, Le Journal du Dimanche (JDD), che ha pubblicato un’intervista a due dei ministri, della Giustizia e dell’Ecologia, Éric Dupont-Moretti e Barbara Pompili (nella foto). Parigi fa dunque un passo avanti per rispondere ai problemi legati al cambiamento climatico e anche alle attese della Convenzione cittadina sul clima, un’assembla di 150 francesi dai 16 agli 80 anni, estratti a sorte, che era stata riunita nel 2019 sulla scia del successo delle marce dei giovani per il clima del movimento Fridays For Future promosso da Greta Thunberg. In nove mesi di dibattiti, la Convezione aveva partorito più di 150 proposte di misure, anche molto concrete, da mettere sul tavolo di Emmanuel Macron per rendere più verde la società francese con un obiettivo ben preciso: ridurre le emissioni di gas serra del 40% entro il 2023. Il 29 giugno scorso il presidente francese aveva ricevuto all’Eliseo i 150 cittadini assicurando loro che avrebbe ripreso la maggior parte delle loro proposte (146 in tutto) per portare avanti la “transizione ecologica e solidale” del paese. Una delle misure più forti dunque la creazione di un reato di ecocidio che molto presto dovrebbe diventare realtà. Di reati di fatto, hanno spiegato i due ministri al JDD, ne saranno istituiti due. Il primo è un “reato generale di inquinamento” per danni gravi all’ambiente “che sarà sanzionato con pene dai tre ai dieci anni di reclusione – hanno spiegato Dupont-Moretti e Pompili – in funzione che si sia in presenza di un’infrazione per imprudenza, di una violazione deliberata di un obbligo o di un’infrazione intenzionale”. Le multe andranno dai 375.000 ai 4,5 milioni di euro. Il secondo è un “reato per la messa in pericolo grave dell’ambiente” che “intende penalizzare chi mette in pericolo in modo deliberato l’ambiente violando le norme in vigore”. La pene prevista è di un anno di reclusione e 100.000 euro di multa.

Il reato riguarderà per esempio quelle fabbriche che “scaricano dei prodotti che non hanno un’incidenza concreta immediata sull’ambiente, ma di cui si teme che possano mettere in pericolo l’ambiente, i pesci e gli ecosistemi”. I due nuovi reati saranno iscritti nella legge sin dalla prossima settimana. “Oggi c’è chi sceglie di inquinare perché gli costa meno che pulire. Le cose cambieranno”, ha aggiunto Éric Dupont-Moretti. Molto enfaticamente Barbara Pompili, intervenuta anche alla radio FranceInfo, ha detto: “Il braccio della legge si abbatterà finalmente su tutti i banditi dell’ambiente, tutti quelli che gli recano danno o senza farlo apposta, o perché lo hanno voluto o perché hanno fatto una scelta intenzionale”.

Diverse associazioni, come France Nature Environnement, hanno visto nell’annuncio dei ministri un progresso nella politica ambientale del paese. Altre invece hanno fatto notare che il governo ha rivisto al ribasso, soprattutto sul piano delle sanzioni, le ambizioni del progetto inizialmente proposto dalla Convezione cittadina per il clima che, per esempio, puntava a multe molto più salate, fino a colpire il 20% del fatturato globale delle aziende colte in fallo. Il militante ecologista Cyril Dion ha lanciato a sua volta una petizione online per ricordare a Macron gli impegni presi a giugno con i francesi, raccogliendo in alcuni giorni più di 260.000 firme. Dion ricorda un sondaggio dell’istituto Harris per il quale nove francesi su dieci ritengono che sia “urgente” intervenire in favore del clima.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/11/24/la-sterzata-della-francia-sulla-tutela-del-clima-arriva-il-reato-di-ecocidio/6014398/

venerdì 16 ottobre 2020

Climate change, il 10% più ricco del pianeta responsabile di metà delle emissioni globali. - Elena Comelli



La diseguaglianza accelera sempre più: nell’ultimo quarto di secolo l’1% più ricco ha prodotto 15% delle emissioni, il doppio della metà più povera.

L'emergenza climatica è un problema planetario, ma le origini e le ricadute non lo sono. La causa principale delle emissioni di gas a effetto serra, infatti, è lo stile di vita dei ricchi del mondo, mentre gli effetti pesano prevalentemente sui poveri, cioè sulle popolazioni che abitano nelle zone più calde del pianeta.

Anche la crisi del clima, quindi, è un problema di diseguaglianze, come risulta in maniera sempre più estrema dai rapporti Oxfam sulla “Carbon Inequality”, l'ultimo dei quali analizza la quantità di emissioni per fasce di reddito nel periodo 1990-2015, grazie alla collaborazione con lo Stockholm Environment Institute.

In questi 25 anni, spiega il rapporto, è stata immessa in atmosfera tanta CO2 quanta quella emessa dalle attività umane in tutta la storia precedente. Da chi? Soprattutto dai più agiati del pianeta. Il 10% più ricco della popolazione mondiale (630 milioni di persone) ne ha emessa la metà (52%) e tutti gli altri insieme (7 miliardi) l'altra metà (48%).

Processo in accelerazione.

Un dato che negli anni è peggiorato: tra il 1990 e il 2015 le emissioni annuali sono aumentate del 60%, ma il 5% della popolazione più ricca ha determinato oltre un terzo (37%) di questo aumento.

Non basta. Se si va a disaggregare ancora di più i dati raccolti dall'istituto di Stoccolma, si scopre che in questi 25 anni l'1% più ricco (63 milioni di persone) è responsabile del 15% delle emissioni totali: più di tutti i cittadini dell'Ue e il doppio della quantità (7%) prodotta dalla metà più povera del pianeta, 3,5 miliardi di persone.

Con le emissioni più che raddoppiate in 25 anni, è diventato sempre più difficile contenere l'aumento delle temperature entro 1,5 gradi centigradi rispetto al periodo pre-industriale, la soglia definita più sicura dall'Ipcc e fissata come limite preferibile dall'Accordo di Parigi sul clima.

Carbon budget esaurito.

Oltre alle emissioni cumulative di gas serra nel quarto di secolo preso in esame, il rapporto analizza anche un secondo parametro: il nostro carbon budget complessivo. Dall'analisi risulta che in questi 25 anni il 10% più ricco della popolazione ha consumato un terzo del nostro budget complessivo di carbonio, mentre la metà più povera della popolazione solo il 4%.

In altre parole, l'ammontare massimo di anidride carbonica che può essere rilasciata in atmosfera senza far aumentare la temperatura globale sopra 1,5 gradi centigradi è stato già consumato, per più del 30%, dal 10% della popolazione più ricca del pianeta.

«I consumi eccessivi di una ricca minoranza stanno alimentando la crisi climatica, ma sono le comunità più povere e le giovani generazioni a pagarne il prezzo. Questa estrema diseguaglianza è una conseguenza diretta delle strategie dei nostri governi, che puntano su una crescita economica ad alta intensità di carbonio e fondata sulle disparità», spiega Tim Gore, capo di Oxfam per il clima e del team di autori del rapporto.

Gore ha espresso forte preoccupazione per l'andamento dei prossimi mesi: è probabile che le emissioni di CO2 riprendano rapidamente a crescere man mano che i governi allenteranno i blocchi relativi alla crisi pandemica. «Se le emissioni non continueranno a diminuire di anno in anno, così come le relative diseguaglianze, il budget di carbonio rimanente per restare sotto 1,5 gradi sarà completamente esaurito entro il 2030», commenta Gore.

Un modello economico insostenibile.

«I dati raccolti dal 1990 alla metà degli anni Dieci ci raccontano di un modello economico non sostenibile, né dal punto di vista ambientale né dal punto di vista economico e sociale, che alimenta la diseguaglianza soffocando il pianeta da tutti i punti di vista - sostiene Elisa Bacciotti, responsabile campagne di Oxfam Italia -. Ripartire dal vecchio modello economico pre-Covid, iniquo e inquinante, non può essere un'opzione. I governi dovrebbero cogliere l'opportunità di ridisegnare le nostre economie per costruire un futuro migliore, mettendo un freno alle emissioni dei più abbienti e investendo in settori a basso consumo di CO2».

Per raggiungere questo obiettivo, realisticamente a cambiare dovrebbero essere le abitudini della fascia più ricca del pianeta. Uno studio recente ha rilevato ad esempio che il 10% più ricco delle famiglie utilizza quasi la metà (45%) di tutti i consumi di energia relativi ai trasporti terrestri e tre quarti di tutta l'energia relativa all'aviazione.

Oggi le diseguaglianze nelle emissioni di CO2 sono talmente profonde che, anche se il resto del mondo azzerasse le proprie emissioni di colpo, il 10% più ricco del pianeta esaurirebbe il budget globale di carbonio entro il 2033.

Il rapporto stima infatti che il 10% più ricco dovrebbe ridurre di dieci volte le proprie emissioni pro-capite di CO2 entro il 2030, per mantenere il mondo sulla traiettoria indicata dall'Accordo di Parigi. In questo modo si riuscirebbe a tagliare le emissioni annuali globali di un terzo.

https://www.ilsole24ore.com/art/climate-change-10percento-piu-ricco-pianeta-responsabile-meta-emissioni-globali-ADVygZv

giovedì 19 marzo 2020

Perché l’inquinamento da Pm10 può agevolare la diffusione del virus. - M. Cristina Ceresa

Reuters

Le correlazioni vengono al pettine: l'inquinamento, soprattutto quello atmosferico, potrebbe aver preparato il terreno al Coronavirus e alla sua diffusione. Quantomeno i dati evidenziano una relazione tra i superamenti dei limiti di legge per il Pm10 e il numero di casi infetti da Covid-19.

Lo dimostra uno studio curato da una dozzina di ricercatori italiani e medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima). Leonardo Setti dell'Università di Bologna e Gianluigi de Gennaro dell'Università di Bari hanno passato gli ultimi venti giorni sui dati registrati nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e li hanno incrociati: da una parte quelli provenienti dalle centraline di rilevamento delle Arpa, le agenzie regionali per la protezione ambientale, dall'altra i dati del contagio da Covid19 riportati dalla Protezione Civile, aggiornati al 3 marzo, lasso temporale necessario considerando il ritardo temporale intermedio di 14 giorni pari al tempo di incubazione del virus. La conclusione è che si evidenzia una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di Pm10 e PM2,5 e il numero di casi infetti da Covid-19.

La Pianura padana è in codice rosso anche nello studio: qui si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di due settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico.

Il Pm10 avrebbe, secondo la ricerca, esercitato un'azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell'epidemia. Leonardo Setti lo mette in luce: «Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un'accelerazione alla diffusione del Covid19. L'effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai».

Potrebbe quindi essere questo uno dei motivi per cui la Pianura padana, rispetto alle altre zone d'Italia, ha cullato il virus in maniera più concentrata. A questo proposito è emblematico il caso di Roma, in cui la presenza di contagi era già manifesta negli stessi giorni delle regioni padane senza però innescare un fenomeno così virulento. Brescia è tra le città più colpite per inquinamento e caso di focolai di Coronavirus.

L'idea che l'inquinamento da Pm10 sia facilitatore delle infezioni non è nuova, a partire da polmonite e morbillo. La letteratura è lì a dimostrarlo e a suggerire norme importanti per ridurre l'inquinamento.

Il presupposto con il Coronavirus è lo stesso: il particolato funge da carrier per il trasporto del virus. Anche nell'etere. Forse tanto quanto una stretta di mano: «Più ci sono polveri sottili – afferma Gianluigi de Gennaro, dell'Università di Bari - più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni».

È noto che il particolato atmosferico funziona da vettore di trasporto per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus che si “attaccano” (con un processo di coagulazione) anche per ore, giorni o settimane. Inoltre, sarebbero lunghe le distanze che il virus potrebbe percorrere così trasportato.

Lo studio mette in luce un altro fattore: «L'attuale distanza considerata di sicurezza – fa notare Alessandro Miani, Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) riferendosi allo spazio di un metro - potrebbe non essere sufficiente». Così come evidentemente non sono sufficienti le misure finora adottate per contenere l'inquinamento atmosferico.

https://www.ilsole24ore.com/art/l-inquinamento-particolato-ha-agevolato-diffusione-coronavirus-ADCbb0D?fbclid=IwAR1kCBBxaRQwx-QYP_bdUqqzd7YKSmBSB-Uj2hBzMVqBSVlX41KR1xQKsx0

domenica 18 novembre 2018

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati. - Veronica Ulivieri

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati

Oltre 50mila tonnellate di immondizia tossica e pericolosa in un sito di una società che faceva da fulcro di un traffico illecito di monnezza sepolta sotto linee ferroviarie e autostrade. L'azienda è fallita, l'area con la spazzatura è rimasta (vicino a un canale a rischio esondazione). I residenti: "Puzza terribile, avremo un cancro". Chi paga? Le casse pubbliche. Ma le procedure vanno a rilento. Anche perché la Regione non risponde a sindaci e comunità.

Più di 50mila tonnellate di rifiuti anche tossici e pericolosi, ammassati da 14 anni in due capannoni fatiscenti, a ridosso delle case e vicino a un canaleSembra lo scenario di uno degli angoli più degradati della Terra dei fuochi e invece il sito della ex C&C si trova nella ricca provincia di Padova, tra i comuni di PernumiaBattaglia Terme e Due Carrare. Nei primi anni Duemila è stato il fulcro di un lucroso traffico illecito di monnezza finita sepolta in opere pubbliche e private, compresa la linea ferroviaria dell’Alta velocità. Ora, mentre i condannati in primo grado si sono visti condonare le pene o hanno beneficiato della prescrizione, i cittadini aspettano invano la bonifica, ammorbati dall’odore acre che, a distanza di anni, i rifiuti continuano a sprigionare e preoccupati per le conseguenze sulla salute e sull’ambiente. Qui, ci sono stati in questi anni un inizio di incendio sedato in tempo e una tromba d’aria a 100 metri di distanza, mentre il vicino canale, le cui acque arrivano al fiume Brenta e da lì al mare, ha rischiato più volte di esondare. Se non ci sono state conseguenze drammatiche si deve soprattutto alla fortuna. Meno alle istituzioni, che tra lentezze e mancanza di risorse sono riuscite in questi anni ad avviare solo i primi interventi. Presto grazie a fondi regionali 4500 tonnellate di monnezza dovrebbero essere portate via dal capannone. Ma le altre 45mila rimarranno.
Monnezza sepolta nelle opere pubbliche. La storia comincia nel 2002, quando Fabrizio Cappelletto mette in piedi la C&C, un’attività per produrre conglomerati cementizi dai rifiuti in due stabilimenti, uno nel Padovano e l’altro in provincia di Venezia. L’azienda però, come riveleranno le indagini del Corpo forestale di Treviso con l’inchiesta “Il mercante di rifiuti”, è il centro di un traffico illecito di monnezza. Nello stabilimento, infatti, secondo gli investigatori arrivano rifiuti di ogni tipo, compresi scarti pericolosi e contaminati da alti livelli di idrocarburi e metalli pesanti. Nonostante siano inadatti a finire nei sottofondi stradali, vengono impastati con sabbia e cemento in miscele puzzolenti e inviati in cantiere, mettendo in piedi, scrive il giudice nella sentenza di primo grado indulgendo a una citazione letteraria, un “enorme e immondo commercio di anime morte”. 
Così, con l’aiuto di complici e ditte conniventi pagate per ricevere l’impasto, il “Conglogem” inventato dall’azienda finisce sotto la linea dell’Alta Velocità Padova-Venezia, e viene usato nella costruzione di uno svincolo stradale a Padova, così come in altri cantieri pubblici e privati in VenetoEmilia Romagna e Lazio. “Il composto era così tossico da aver inquinato l’ambiente nei cantieri dove è stato usato. In teoria i siti noti sono già stati bonificati, ma di fatto è impossibile sapere tutti i luoghi dove è stato usato, perché nessuno degli imputati ha mai fatto dichiarazioni in merito”, spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare, che insieme all’associazione la Vespa e al comitato Sos C&C porta avanti la protesta da anni.
“Puzza terribile, moriremo tutti con un cancro”. Le indagini sulla C&C cominciano nel 2004, dopo le proteste dei cittadini. “Una puzza terribile, c’è ammoniaca. Moriremo tutti con un cancro da qualche parte”, dice un’impiegata dell’azienda a Cappelletto in una telefonata intercettata dagli inquirenti nello stesso anno. Odore che, secondo il giudice del tribunale di Venezia, non poteva non sentire chi accettava il Conglogem in cantiere e che tutt’oggi, nelle giornate di vento, la gente continua ad avvertire intorno alla ex 
fabbrica, poi messa sotto sequestro nel 2005. A preoccupare non è solo la puzza in sé: “I due capannoni hanno le pareti spanciate, quando piove ci sono infiltrazioni d’acqua e si formano pozzanghere di percolato, con il rischio concreto di diffusione degli inquinanti nell’ambiente”, dice Miazzi. “Dentro i cumuli arrivano anche a 7 metri di altezza e sono addossati ai pilastri in metallo e alle pareti in lamiera, mettendo a rischio la struttura visto che potrebbero risultare corrosivi”, aggiunge il sindaco di Battaglia Terme Massimo Momolo. “Se viene un’alluvione, una bufera o tromba d’aria è un problema. Dal canale vicino al sito l’acqua poi va a finire in laguna”, spiega il collega di Pernumia, Luciano Simonetto.
Per i rifiuti chi paga? Le casse pubbliche. I lavori per ripristinare l’area, invece, sono partiti molto tempo dopo: nel 2009 il sito è stato incluso tra quelli di interesse regionale da bonificare e nel 2010, cinque anni dopo il sequestro dei capannoni, sono state rimosse le 3.500 tonnellate di rifiuti anche pericolosi ammassati all’esterno. Le spese, si legge nella relazione sul Veneto della commissione bicamerale Ecomafie del 2016, sono state coperte “solo in parte dalle fideiussioni che la società C&C, per legge, avrebbe dovuto prestare a favore dell’amministrazione provinciale per poter operare”. L’azienda era già stata dichiarata fallita nel 2005, mentre anche la Cedro, proprietaria dei capannoni dove operava la C&C è uscita di scena grazie a una sentenza del Tar secondo il quale – al contrario di ciò che sostenevano Comune e Provincia – non c’è stata responsabilità della Cedro per abbandono dei rifiuti e inquinamento.
Presto nuovi lavori, ma nessun piano per la bonifica.Nel frattempo, nel 2009, gli 11 imputati sono stati condannati in primo grado complessivamente a 40 anni di reclusione, ma a causa della prescrizione intervenuta nel 2012 il processo è sfociato in un nulla di fatto. Gli altri nove imputati, tra cui Cappelletto, hanno patteggiato: come si legge nella relazione della commissione Ecomafie, per tutti la pena è stata condonata. 
Oggi, mentre alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta invocano il diritto all’oblio chiedendo di cancellare il proprio nome da alcuni siti web, la collettività si trova a portare sulle spalle tutto il peso delle oltre 50mila tonnellate di rifiuti rimaste nella ex C&C. Tra poco dovrebbero iniziare i lavori, finanziati dalla Regione con 1,5 milioni di euro, per rimuovere 4500 tonnellate. A preoccupare è però quello che rimarrà: una montagna da circa 44mila tonnellate di monnezza contaminata e un’area da bonificare, con costi stimati per oltre 10 milioni di euro e nessun segnale chiaro di nuove risorse stanziate dal bilancio regionale.
La Regione non risponde a sindaci e consiglieri.
“Nei tre Comuni”, spiega Momolo, “a fine ottobre abbiamo approvato all’unanimità tre mozioni per chiedere alla Regione un piano di intervento pluriennale da 2 milioni di euro all’anno”. Pochi giorni dopo il consiglio regionale del Veneto ha approvato all’unanimità una mozione presentata dal consigliere di Liberi e Uguali Piero Ruzzante, che impegna la giunta a elaborare un piano per la completa bonifica, finanziandolo nel 2019 con 2 milioni di euro delle risorse previste dalla legge speciale per Venezia. “In sede di discussione di bilancio, tra poche settimane, verificheremo che tale impegno venga mantenuto. Dopo quindici anni le 50mila tonnellate di rifiuti tossici sono ancora lì, è inaccettabile che non ci sia ancora un piano per la bonifica del sito. La giunta Zaia è avvisata: la salute dei cittadini non può più aspettare”, ha detto Ruzzante. Alla domanda se intenda stanziare le risorse chieste dai tre sindaci e dai consiglieri, la Regione non risponde a ilfatto.it. Da Venezia si limitano a ricordare la mozione e spiegare che “potrebbero essere necessari dagli 11 ai 15 milioni di euro per smaltire il tutto”. Il sindaco Simonetto si dice fiducioso e attacca i comitati dei cittadini, che pure hanno contribuito a scrivere le tre mozioni comunali: “Sto cercando di fare quello che è possibile, ma non posso chiedere alla Regione di darmi domattina un altro milione. Tra comitati e rompiscatole ce ne sono dappertutto, i soldi però sono riuscito a portarli a casa io. Tutti questi soloni sono andati anche a Bruxelles ma non ho visto il risultato. Io con la Regione del Veneto ho un buon rapporto, sono sicuro che mi daranno risposte”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 18.11.2018

giovedì 15 marzo 2018

«Montecchio (Vi), allarme percolato: peggio della Terra dei Fuochi». - Alberto Peruffo



Pubblichiamo la nota di Alberto Peruffo, prima linea del Movimento No Pfas e di altre questioni territoriali, come l’Istanza Unesco per Vicenza. Peruffo aveva già lanciato l’allarme sulla situazione di Montecchio Maggiore con un post su Facebook (clicca qui per leggere). Oggi rivolge 7 domande al Sindaco, agli Assessori preposti – comunali, provinciali, regionali – all’ARPAV, ai Carabinieri del NOE, e se fosse necessario alla Procura.
Ieri sera un gruppo di cittadini di Montecchio esperti di discariche si è riunito dopo aver fatto un sopralluogo presso la discarica Ex Cava Bozzetti dove stanno costruendo la rampa della Superstrada Pedemontana Veneta. Chiediamo a viva voce al Sindaco, agli Assessori preposti – comunali, provinciali, regionali – all’ARPAV, ai Carabinieri del NOE, e se fosse necessario alla Procura, di bloccare il cantiere o di rispondere a queste domande, se veramente hanno a cuore la salute dei propri cittadini, in modo inequivocabile. Altrimenti i lavori vanno bloccati, subito. La situazione è grave. Dopo le recenti forti piogge si vede il percolato stagnare e scendere nel terreno. E si sta cercando di nascondere tutto. Chiediamo risposte precise a domande precise:
1. A che profondità sono appoggiati/ancorati i pali di sostegno della strada?
Chiediamo questo perché è necessaria una verifica immediata, soprattutto su quanto è fonda la vecchia discarica, poiché questa non ha il classico telo di contenimento entrato in uso negli anni successivi, ma ha uno strato di argilla bentonitica + drenaggio, è c’è il serio pericolo che i pali abbiano forato questo strato con il risultato di fare andare il percolato in falda.
2. A fronte di questo evidente sventramento del perimetro di arginatura della discarica, fatto dalla rampa, dove finisce il percolato in circolo, adesso?
Lo stesso che con grande evidenza si vede nelle foto allegate. L’ARPAV qui deve dare una risposta certa e inequivocabile.








Ph: Marta Bortoli
3. Sotto le rampe si vedono degli accumuli di terra di fonderia coperti da teli neri e parte scoperti. Questi scarti sono stati analizzati?
Tutti sanno infatti che pure il fondo della SP 246 – come quella della rampa! – è di terra di fonderia messa in opera dalla stessa ditta indagata per scarti illegali nella Valdastico Sud. Interrogate i responsabili delle vecchie giunte di Montecchio, a riguardo, e fateci sapere cosa fanno in quel luogo quegli scarti.
4. Come mai sulla quota finale della strada hanno tolto la ghiaia in natura che sarebbe stata utile per fare la strada e che può essere – tra le cose – venduta, e al posto di questa hanno messo terra di fonderia come rilevato stradale?
Ci domandiamo se la Giunta attuale e gli organi competenti abbiano controllato e vigilato sui lavori. Un cantiere così osceno non poteva passare inosservato o si voleva farlo passare per tale, visto che tutti ora stanno correndo per coprire le immondizie.
5. Perché sono stati costruiti una serie indefinita di pozzi a fondo perduto lungo tutta la sede stradale essendo questi pozzetti vietati?
Sappiamo tutti dove finisce il fondo perduto. Di fronte a una situazione così delicata e pericolosa ci si aspetterebbe di vedere una canalizzazione con pozzi di recupero collegati tra loro per il filtraggio delle acque su vasche a monte e a valle. Non quelli che abbiamo visto nel cantiere.
6. Con quale folle criterio si dà il via libera a una strada sopra a una discarica dopo aver speso milioni di euro per creare e mettere in sicurezza la discarica stessa?
Sorge il dubbio che come criterio di utilizzo dei soldi della comunità ci sia quello di generare spazzatura da smaltire e soldi da spartire, altrimenti non si investirebbero milioni di euro per poi gettarli dalla finestra e ricominciare tutto da capo.
7. Ed è questo il punto cruciale: riuscirà il vecchio fondo/strato a sostenere 8/10 metri di nuovo materiale, compreso lo schiacciamento dei vecchi rifiuti, senza implodere su se stesso e far uscire senza più nessuna possibilità di recupero il percolato?
Quel percolato lo berranno i nostri figli.
A queste domande vogliamo che rispondano tutte le autorità preposte. Invitiamo i cittadini di Montecchio e non solo, visto che il percolato andrà in falda, di fermare i consiglieri, gli assessori, i sindaci, i tecnici, per farsi dare immediatamente una risposta o di fare in modo che le stesse domande siano portate nelle loro assemblee o davanti alle autorità inquirenti. Perché nessuno di noi in questa terra dorme più sonni tranquilli. Perché oltre ai PFAS di cui la MITENI è la massima responsabile, oltre alla follia della Pedemontana, dovremmo in futuro gestire le discariche tossiche della Paulona, e, ancora peggio, la discarica di via Molinetto dove in anni tristi sono stati sversati dalle concerie prodotti inimmaginabili, ma di cui noi cittadini di Montecchio stiamo ricostruendo la storia e sulla quale chiediamo ora nuovi carotaggi. Peggio della Terra dei Fuochi. E non ultima, nella zona Laghetti tra Montecchio e Montorso, ci è giunta notizia che dei privati stanno trattando per aprire una nuova discarica dove si era formata una piccola oasi di pace e natura. Il fronte dei crimini ambientali qui da noi è vastissimo e per questo il 22 aprile faremo la prima giornata nazionale contro di essi.
Vigilate, domandate, analizzate. O i vostri figli berranno liquame. Delle cui conseguenze nessuno vuole parlare.
Fin quando il pianto e lo sdegno di essere stati cittadini inerti non crollerà sulle vostre case. Insieme a quello di avere avuto dei politici ignavi e una classe dirigente inqualificabile.
Alberto Peruffo
prima linea del Movimento No Pfas e di altre questioni territoriali, come l’Istanza Unesco per Vicenza
Ph foto principale: Marta Bortoli