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giovedì 27 giugno 2019

Scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma..

L'immagine può contenere: 1 persona, in piedi


Quella che si sta combattendo a Roma da ormai 3 anni attorno al mega business dei rifiuti è una guerra studiata a tavolino e condotta senza esclusione di colpi: bersaglio grosso fiaccare la resistenza di una Sindaca determinata a spezzare una volta per tutte il modello old style, fatto di discariche e inceneritori, grazie al quale, da decenni, a Roma banchettavano indisturbati comitati d'affari composti da monopolisti, ecomafie e politici con le mani in pasta. 
Roba che pesa miliardi. 

Quando alla bestia gli sottrai l'osso o solo tenti di sottrarglielo, si incazza, è la dura legge della natura. 
Virginia Raggi, sola pur in mezzo a tanta gente, sta pagando per questo. 
Una guerra sotterranea fatta di studiati ritardi, incidenti di percorso creati ad arte e veri e propri atti criminali, stanno mettendo in ginocchio Roma, oggi oggettivamente sopraffatta dai rifiuti, e la sua Sindaca. 

Il tutto a spese dei contribuenti romani sia in termini di pecunia (paghiamo una Ta.Ri. fra le più alte d'italia anche perché sempre più spesso chiamati a sopportare lo scotto del conferimento fuori regione), che di salute. 
Sono gli stessi romani che oggi, col cassonetto pieno sotto casa, lungi dal comprenderne le cause, si fanno sobillare dalle menzogne di una stampa locale che ha ingaggiato una campagna feroce contro la Sindaca, che se poi quella stampa ha un patron che si chiama Caltagirone, il palazzinaro romano con quote in Acea amante degli inceneritori, è un caso. Come è un caso che proprio la Raggi al Caltagirone lo ha escluso dalla costruzione del nuovo Stadio. 
E non poteva mancare, nel plotone d'esecuzione della Raggi Salvini, la prima donna del momento che, con le sue esternazioni quotidiane al vetriolo, ne vorrebbe la testa per piazzare i suoi fedeli, i figli di Alberto da Giussano, al Campidoglio. Roba che solo a pensarci mi vengono i brividi. 

Purtroppo la gente ha la memoria corta o, semplicemente, non è consapevole che questo stato di cose parte da lontano. 
Gravi responsabilità sono da addossare alle Giunte capitoline degli ultimi 30 anni, almeno. 
Se solo mettiamo insieme tutti gli ingredienti del recente passato, ne esce fuori una miscela esplosiva:

A partire dalla chiusura, nel 2003, della discarica di Malagrotta, la "buca" più grande d'Europa, chiusura imposta dalla UE in forza di un direttiva che fa divieto di smaltimento dei rifiuti non preliminarmente trattati, a Roma è stato tutto un ricercare soluzioni tampone e non strutturali, tutta roba neanche lontanamente parente di un sistema ecosostenibile e rispettoso dell'ambiente che amministrazioni responsabili avrebbero sentito l'obbligo di ricercare . 

Per circa 40 anni Roma se l'era cavata a buon mercato sversando i suoi rifiuti "tali e quali" dentro una buca, trasformandola in una vera e propria bomba ecologica, che però metteva tutti d'accordo, a partire dagli stessi romani (in ossequio al detto "occhio non vede cuore non duole"), passando per la politica (quella con la p minuscola, da destra a sinistra), fino al monopolista Manlio Cerroni, "l'ottavo re di Roma", avvezzo a concludere i suoi affari con la controllata comunale AMA con una semplice stretta di mano, lo scopri' nel 2016 la Raggi appena insediata, quando incredula non si trovò nei cassetti neanche uno straccio di contratto. 

Ed è così che quando la Raggi è subentrata in Campidoglio si è trovata a gestire, tramite la controllata comunale AMA, il cui gruppo dirigente era più attento a mantenere i suoi privilegi che alla qualità del servizio reso, 4.600 tonnellate di rifiuti al giorno di cui appena 2.000 di differenziata e ben 2.600 tonnellate di indifferenziata il cui trattamento era stato affidato alla cura di soli 4 impianti (TMB), costretti a lavorare h24 al limite della capienza e di cui 2 di proprietà AMA e 2 di proprietà del solito, immarcescibile, Manlio Cerroni, nel frattempo costretto ad operare sotto tutela di un commissario prefettizio perchè la sua Co.La.Ri. era stata raggiunta da interdittiva Antimafia, procedimento sfociato in un processo che per 4 anni lo avrebbe visto sul banco degli imputati e poi prosciolto in primo grado. 

In questa situazione di estrema fragilità strutturale, tenendo fede al programma per il quale i romani l'avevano votata, appena insediata Virginia Raggi ha licenziato un piano rifiuti che punta tutto sulla raccolta differenziata, che i rifiuti li valorizza prevedendo la costruzione di impianti di compostaggio e recupero, e che porta con sé il progetto di riconversione degli impianti esistenti al recupero di materia, un progetto di medio periodo che avrebbe relegato nel passato parole come discarica e inceneritore. 
Ed è da lì che sono cominciati i guai per Virginia. Come in un piano ben studiato tutti gli attori hanno giocato la loro parte in commedia. 

A cominciare dalla Regione Lazio a trazione Pd dove un Zingaretti, latitante dal 2012 dal licenziare un nuovo piano rifiuti per l'individuazione di nuovi impianti regionali, pur di mettere in difficoltà la Raggi ha continuato a fare melina fino a beccarsi ben 2 sentenze del TAR, la prima del 2016 e la seconda nel 2018 che di fatto lo commissariava. 
Fino a che nel gennaio di quest'anno lo ha prodotto il piano mister Zingaretti, ma cercando di imporre alla Sindaca la realizzazione di un'altra discarica, quella di Pian dell'Olmo, rispolverando un vecchio progetto di Cerroni già bocciato anni addietro e ben sapendo che la Raggi non ne avrebbe mai accettato la realizzazione e che sta provocando in queste ore la reazione sdegnata degli abitanti della zona e dei quartieri limitrofi. 

E che dire degli stessi dipartimenti comunali che, insieme alla sovrintendenza archeologica, a maggio scorso hanno silurato la realizzazione dei 2 impianti di compostaggio previsti nel piano Raggi a Cesano e Casal Selce? Due stabilimenti che avrebbero consentito di trasformare, sull'area metropolitana di Roma, l'umido in compost, un fertilizzante naturale per l'agricoltura. 
Vien quasi da ridere, se non ci fosse da piangere, a pensare che un manipolo di dirigenti comunali, che per decenni hanno tollerato che i rifiuti romani si sversassero tali e quali in una cloaca massima, indifferenti al fatto che si appestavano intere generazioni di romani, oggi sacrifica l'inizio di una riconversione ecologica della filiera dei rifiuti di Roma sull'altare del piano regolatore e supposte criticità paesaggistiche e archeologiche. 

L' era Raggi, fra l'altro, verrà ricordata anche per gli incendi seriali dei cassonetti (700 circa, un danno di mezzo milione di lire che i romani pagheranno di loro tasca). 
Tutte casualità? 
Così come: sarà una casualità che per ben tre volte nel 2018 un bando AMA di 225 milioni per l'esportazione dei rifiuti prodotti dai TMB è andato deserto? 
Ma il colpo più basso alla Raggi, quello che la sta mettendo KO, scaturisce da una sequela di eventi incredibili che si sono succeduti negli ultimi mesi e che sembrano essere stati pensati da chi conosce bene la fragile macchina impiantistica su cui poggia la filiera dei rifiuti indifferenziati romani. 

A dicembre 2018 il TMB Salario di proprietà AMA, quello che da solo trattava 750 tonnellate di rifiuti al giorno, viene completamente distrutto dalle fiamme e non riaprirà mai più. 
A marzo di questo anno tocca all'altro impianto Ama di andare a fuoco, quello di Rocca Cencia. Dopo essere stato a lungo sotto sequestro, ha riaperto a singhiozzo per poi guastarsi a fine maggio per il sovraccarico di lavoro. 
E in questa situazione drammatica, dulcis in fundo, è arrivata, a sorpresa, la mossa di Cerroni, che con una tempistica perfetta da aprile ha chiuso parzialmente per manutenzione i 2 TMB del suo Consorzio Colari e riaprirà solo dopo l'estate. 

Come in una partita a scacchi, il sistema mafiopolitico romano ha dato scacco matto a Virginia Raggi, la regina di Roma.

domenica 18 novembre 2018

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati. - Veronica Ulivieri

Padova, Terra dei Fuochi: “fabbrica” di rifiuti abbandonata da 14 anni. Bonifiche a rilento e la prescrizione salva gli imputati

Oltre 50mila tonnellate di immondizia tossica e pericolosa in un sito di una società che faceva da fulcro di un traffico illecito di monnezza sepolta sotto linee ferroviarie e autostrade. L'azienda è fallita, l'area con la spazzatura è rimasta (vicino a un canale a rischio esondazione). I residenti: "Puzza terribile, avremo un cancro". Chi paga? Le casse pubbliche. Ma le procedure vanno a rilento. Anche perché la Regione non risponde a sindaci e comunità.

Più di 50mila tonnellate di rifiuti anche tossici e pericolosi, ammassati da 14 anni in due capannoni fatiscenti, a ridosso delle case e vicino a un canaleSembra lo scenario di uno degli angoli più degradati della Terra dei fuochi e invece il sito della ex C&C si trova nella ricca provincia di Padova, tra i comuni di PernumiaBattaglia Terme e Due Carrare. Nei primi anni Duemila è stato il fulcro di un lucroso traffico illecito di monnezza finita sepolta in opere pubbliche e private, compresa la linea ferroviaria dell’Alta velocità. Ora, mentre i condannati in primo grado si sono visti condonare le pene o hanno beneficiato della prescrizione, i cittadini aspettano invano la bonifica, ammorbati dall’odore acre che, a distanza di anni, i rifiuti continuano a sprigionare e preoccupati per le conseguenze sulla salute e sull’ambiente. Qui, ci sono stati in questi anni un inizio di incendio sedato in tempo e una tromba d’aria a 100 metri di distanza, mentre il vicino canale, le cui acque arrivano al fiume Brenta e da lì al mare, ha rischiato più volte di esondare. Se non ci sono state conseguenze drammatiche si deve soprattutto alla fortuna. Meno alle istituzioni, che tra lentezze e mancanza di risorse sono riuscite in questi anni ad avviare solo i primi interventi. Presto grazie a fondi regionali 4500 tonnellate di monnezza dovrebbero essere portate via dal capannone. Ma le altre 45mila rimarranno.
Monnezza sepolta nelle opere pubbliche. La storia comincia nel 2002, quando Fabrizio Cappelletto mette in piedi la C&C, un’attività per produrre conglomerati cementizi dai rifiuti in due stabilimenti, uno nel Padovano e l’altro in provincia di Venezia. L’azienda però, come riveleranno le indagini del Corpo forestale di Treviso con l’inchiesta “Il mercante di rifiuti”, è il centro di un traffico illecito di monnezza. Nello stabilimento, infatti, secondo gli investigatori arrivano rifiuti di ogni tipo, compresi scarti pericolosi e contaminati da alti livelli di idrocarburi e metalli pesanti. Nonostante siano inadatti a finire nei sottofondi stradali, vengono impastati con sabbia e cemento in miscele puzzolenti e inviati in cantiere, mettendo in piedi, scrive il giudice nella sentenza di primo grado indulgendo a una citazione letteraria, un “enorme e immondo commercio di anime morte”. 
Così, con l’aiuto di complici e ditte conniventi pagate per ricevere l’impasto, il “Conglogem” inventato dall’azienda finisce sotto la linea dell’Alta Velocità Padova-Venezia, e viene usato nella costruzione di uno svincolo stradale a Padova, così come in altri cantieri pubblici e privati in VenetoEmilia Romagna e Lazio. “Il composto era così tossico da aver inquinato l’ambiente nei cantieri dove è stato usato. In teoria i siti noti sono già stati bonificati, ma di fatto è impossibile sapere tutti i luoghi dove è stato usato, perché nessuno degli imputati ha mai fatto dichiarazioni in merito”, spiega a ilfattoquotidiano.it Francesco Miazzi del comitato Lasciateci respirare, che insieme all’associazione la Vespa e al comitato Sos C&C porta avanti la protesta da anni.
“Puzza terribile, moriremo tutti con un cancro”. Le indagini sulla C&C cominciano nel 2004, dopo le proteste dei cittadini. “Una puzza terribile, c’è ammoniaca. Moriremo tutti con un cancro da qualche parte”, dice un’impiegata dell’azienda a Cappelletto in una telefonata intercettata dagli inquirenti nello stesso anno. Odore che, secondo il giudice del tribunale di Venezia, non poteva non sentire chi accettava il Conglogem in cantiere e che tutt’oggi, nelle giornate di vento, la gente continua ad avvertire intorno alla ex 
fabbrica, poi messa sotto sequestro nel 2005. A preoccupare non è solo la puzza in sé: “I due capannoni hanno le pareti spanciate, quando piove ci sono infiltrazioni d’acqua e si formano pozzanghere di percolato, con il rischio concreto di diffusione degli inquinanti nell’ambiente”, dice Miazzi. “Dentro i cumuli arrivano anche a 7 metri di altezza e sono addossati ai pilastri in metallo e alle pareti in lamiera, mettendo a rischio la struttura visto che potrebbero risultare corrosivi”, aggiunge il sindaco di Battaglia Terme Massimo Momolo. “Se viene un’alluvione, una bufera o tromba d’aria è un problema. Dal canale vicino al sito l’acqua poi va a finire in laguna”, spiega il collega di Pernumia, Luciano Simonetto.
Per i rifiuti chi paga? Le casse pubbliche. I lavori per ripristinare l’area, invece, sono partiti molto tempo dopo: nel 2009 il sito è stato incluso tra quelli di interesse regionale da bonificare e nel 2010, cinque anni dopo il sequestro dei capannoni, sono state rimosse le 3.500 tonnellate di rifiuti anche pericolosi ammassati all’esterno. Le spese, si legge nella relazione sul Veneto della commissione bicamerale Ecomafie del 2016, sono state coperte “solo in parte dalle fideiussioni che la società C&C, per legge, avrebbe dovuto prestare a favore dell’amministrazione provinciale per poter operare”. L’azienda era già stata dichiarata fallita nel 2005, mentre anche la Cedro, proprietaria dei capannoni dove operava la C&C è uscita di scena grazie a una sentenza del Tar secondo il quale – al contrario di ciò che sostenevano Comune e Provincia – non c’è stata responsabilità della Cedro per abbandono dei rifiuti e inquinamento.
Presto nuovi lavori, ma nessun piano per la bonifica.Nel frattempo, nel 2009, gli 11 imputati sono stati condannati in primo grado complessivamente a 40 anni di reclusione, ma a causa della prescrizione intervenuta nel 2012 il processo è sfociato in un nulla di fatto. Gli altri nove imputati, tra cui Cappelletto, hanno patteggiato: come si legge nella relazione della commissione Ecomafie, per tutti la pena è stata condonata. 
Oggi, mentre alcuni dei personaggi coinvolti nell’inchiesta invocano il diritto all’oblio chiedendo di cancellare il proprio nome da alcuni siti web, la collettività si trova a portare sulle spalle tutto il peso delle oltre 50mila tonnellate di rifiuti rimaste nella ex C&C. Tra poco dovrebbero iniziare i lavori, finanziati dalla Regione con 1,5 milioni di euro, per rimuovere 4500 tonnellate. A preoccupare è però quello che rimarrà: una montagna da circa 44mila tonnellate di monnezza contaminata e un’area da bonificare, con costi stimati per oltre 10 milioni di euro e nessun segnale chiaro di nuove risorse stanziate dal bilancio regionale.
La Regione non risponde a sindaci e consiglieri.
“Nei tre Comuni”, spiega Momolo, “a fine ottobre abbiamo approvato all’unanimità tre mozioni per chiedere alla Regione un piano di intervento pluriennale da 2 milioni di euro all’anno”. Pochi giorni dopo il consiglio regionale del Veneto ha approvato all’unanimità una mozione presentata dal consigliere di Liberi e Uguali Piero Ruzzante, che impegna la giunta a elaborare un piano per la completa bonifica, finanziandolo nel 2019 con 2 milioni di euro delle risorse previste dalla legge speciale per Venezia. “In sede di discussione di bilancio, tra poche settimane, verificheremo che tale impegno venga mantenuto. Dopo quindici anni le 50mila tonnellate di rifiuti tossici sono ancora lì, è inaccettabile che non ci sia ancora un piano per la bonifica del sito. La giunta Zaia è avvisata: la salute dei cittadini non può più aspettare”, ha detto Ruzzante. Alla domanda se intenda stanziare le risorse chieste dai tre sindaci e dai consiglieri, la Regione non risponde a ilfatto.it. Da Venezia si limitano a ricordare la mozione e spiegare che “potrebbero essere necessari dagli 11 ai 15 milioni di euro per smaltire il tutto”. Il sindaco Simonetto si dice fiducioso e attacca i comitati dei cittadini, che pure hanno contribuito a scrivere le tre mozioni comunali: “Sto cercando di fare quello che è possibile, ma non posso chiedere alla Regione di darmi domattina un altro milione. Tra comitati e rompiscatole ce ne sono dappertutto, i soldi però sono riuscito a portarli a casa io. Tutti questi soloni sono andati anche a Bruxelles ma non ho visto il risultato. Io con la Regione del Veneto ho un buon rapporto, sono sicuro che mi daranno risposte”.
Fonte: ilfattoquotidiano del 18.11.2018

giovedì 9 gennaio 2014

Rifiuti Roma, 7 arresti: ci sono il patron di Malagrotta Cerroni e dirigenti regionali. - Nello Trocchia

Rifiuti Roma, 7 arresti: ci sono il patron di Malagrotta Cerroni e dirigenti regionali


Inchiesta per associazione a delinquere. Sequestro da 18 milioni. Ai domiciliari "l'imperatore dell'immondizia", monopolista nel Lazio. Con lui anche l'ex presidente della Regione Landi e due funzionari confermati di recente da Zingaretti: Fegatelli (che è arrivato a ricoprire 10 incarichi) e De Filippis (già condannato dalla Corte dei conti per un danno erariale da 750mila euro).

Sette persone sono state arrestate dai carabinieri del Noe di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei rifiuti del Lazio. Tra questi anche l’imperatore dei rifiuti di Roma, “l’ottavo re” che ha vissuto negli anni di centrodestra e centrosinistra come il padrone, il monopolista nella gestione del pattume sia nella capitale che nel Lazio: Manlio Cerroni, proprietario dell’area della discarica di Malagrotta, è finito ai domiciliari. Un’inchiesta, quella della Procura di Roma, che scompagina un sistema di potere giocato in forza del controllo della catena di comando a rischio di lasciare la Città eterna inondata di rifiuti. Sistema che ha fatto comodo alla politica, incapace di scelte e di governare il ciclo.
Con Cerroni agli arresti domiciliari altre 6 persone: imprenditori, ma anche funzionari pubblici. Si tratta in questo caso dei dirigenti regionali Luca Fegatelli (“l’uomo dei 10 incarichi”) e Raniero De Filippis. Agli arresti Francesco Rando, uomo di fiducia dell’avvocato e gestore della Pontina Ambiente. Rando gestisce anche la E.giovi srl che, insieme al Consorzio Co.la.ri., è tra le aziende principali dell’avvocato che fatturano in media 150 milioni di euro all’anno. Non è l’unico collaboratore di Cerroni coinvolto nell’inchiesta: anche altri due storici assistenti dell’avvocato sono finiti ai domiciliari, Pino Sicignano (direttore della discarica di Albano Laziale) e Piero GioviAssociazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti e truffa sono tra i reati contestati a vario titolo agli indagati. La Guardia di Finanza di Roma ha nel frattempo sequestrato beni mobili ed immobili per 18 milioni di euro. 
L’inchiesta da VelletriNe ha fatta di strada Cerroni, una vita in sella dai tempi della sindacatura nel piccolo paese di Pisoniano, in provincia di Roma, anni Cinquanta – quando si faceva immortalare vicino a Giulio Andreotti - fino all’ascesa da imprenditore. Cerroni ha costruito un impero controllando la mega discarica di Malagrotta che per 30 anni ha ingoiato i rifiuti di Roma, di Fiumicino e della città del Vaticano. Società in tutta Italia e anche all’estero, un patrimonio sconfinato e impianti costruiti in mezzo mondo. Ora l’epilogo dei domiciliari.
L’inchiesta è partita nel 2009, condotta dai carabinieri del Noe di Roma agli ordini del colonnello Ultimo e del capitano Pietro Rajola PescariniLa Procura di Velletri, pm Giuseppe Travaglini, aveva chiesto gli arresti, ma il gip nell’aprile 2012 ha trasferito gli atti per competenza alla Procura capitolina. Sotto accusa era finita la gestione del polo industriale di Albano Laziale, dove Cerroni, con la Pontina Ambiente, gestisce una discarica e un Tmb, impianto di produzione del cdr, le balle dei rifiuti da incenerire. Secondo l’accusa veniva prodotto cdr in misura inferiore rispetto a quanto veniva poi fatto pagare ai Comuni conferitori, con risparmio per il privato che spendeva di meno per smaltirlo in discarica, che in tanto si esauriva prima, piuttosto che per incenerirlo. I Comuni pagavano per un servizio che non ricevevano procurando così un vantaggio alla società di Cerroni. L’inchiesta per competenza si è spostata a Roma, i pm Alberto Galanti e Maria Cristina Palaia sotto la guida del procuratore Giuseppe Pignatone, hanno chiesto le misure cautelari, accolte dal gip Massimo Battistini.
Il funzionario a disposizione
Se c’è l’imprenditoria non può mancare il funzionario regionale, anche lui ai domiciliari, si tratta di Luca FegatelliNotizie riguardo l’indagine, che oggi ha portato all’esecuzione delle misure cautelari, erano già state pubblicate eppure Fegatelli, anche quando Nicola Zingaretti è stato eletto presidente della Regione, è rimasto in sella con una sfilza di incarichi (ilfattoquotidiano.it ne contò 10). Tra questi anche quello didirettore dell’agenzia regionale per i beni confiscati. Fegatelli è stato dirigente della direzione regionale energia e rifiuti fino al 2010 prima di passare a capo del dipartimento istituzionale e territorio, ruolo che oggi ricopre. Per gli inquirenti è stato a disposizione del gruppo imprenditoriale, è risultato il vero regista, l’uomo chiave della strategia “cerroniana” in Regione. Insieme a Cerroni ai domiciliari finiscono i suoi uomini di sempre, i fedelissimi che da anni sono stati ai vertici della galassia di imprese dell’avvocato. 
Poi c’è Raniero De Filippis. Prima direttore del dipartimento del territorio (dal 2007 al 2010), poi attualmente alla guida della direzione regionale ambiente e politiche abitative. De Filippis, con Fegatelli, fu tra i “fortunati” che vide il suo incarico prorogato da Renata Polverini in extremis del suo mandato da governatrice (che stava esaurendosi sotto i colpi degli scandali). E lo stesso funzionario si è “distinto” anche per la coincidenza di avere come collega – funzionario in Regione Lazio – il nipote Alessandro. Anche De Filippis è stato confermato da Zingaretti nonostante tutto. Nonostante la Corte dei Conti lo avesse condannato a risarcire la Regione accertando un danno erariale di 750mila euro. E nonostante nel 2002 avesse già patteggiato 5 mesi per abuso d’ufficio e falso ideologico per vicende legate ad una comunità montana di cui era stato commissario liquidatore.
L’assessore al telefono
Ai domiciliari anche Bruno Landi, ex presidente della Regione Lazio negli anni Ottanta, craxiano di ferro, presidente di Federambiente Lazio, che ha ricoperto diversi ruoli nelle società dell’avvocato da Viterbo a Latina. Landi è stato il punto di contatto con il mondo della politica. Quella politica che ha sempre acconsentito alle richieste dell’avvocato per lo spettro della spazzatura in strada e l’incapacità dei partiti di avviare un ciclo di gestione dei rifiuti. Negli atti, l’informativa dei carabinieri del Noe inviata alla Procura di Velletri, anche una telefonata con l’attuale assessore regionale Michele Civita (estraneo all’inchiesta), quando era assessore in Provincia. Conversazioni che raccontano il ruolo e il potere di Cerroni. Era il 2010. I carabinieri scrivono nell’informativa: “L’assessore, sebbene in un primo momento sembra tenere testa alle pretese dell’avvocato, alla fine soccombe dietro la paura di creare un problema igienico-sanitario simile a quello vissuto dalla città di Napoli, così come paventato dal Cerroni stesso”. Un potere e un ruolo chehanno affascinato anche Goffredo Sottile (pure lui estraneo all’indagine), ultimo commissario per l’emergenza rifiuti a Roma, che anche in pubblico aveva espresso apprezzamenti per l’avvocato. Nonostante l’indagine in corso a carico di Cerroni – nota già dallo scorso anno – Sottile ha insistito per affidargli la gestione della nuova discarica che avrebbe servito Roma dopo Malagrotta. Ipotesi poi tramontata. Tramontata come la rete di potere dell’anziano avvocato.

giovedì 10 gennaio 2013

Catania, la mafia nel racket dei rifiuti 27 arresti, 16 funzionari pubblici indagati. - Giorgia Mosca


Catania, la mafia nel racket dei rifiuti 27 arresti, 16 funzionari pubblici indagati


Operazione della Dia del capoluogo siciliano. I reati: associazione mafiosa, traffico di armi e droga, truffa aggravata ai danni di Ente pubblico. Impegnati 250 uomini delle forze dell'ordine. La Aimeri Ambiente: ci tuteleremo, società estranea.

CATANIA - Erano le cosche a gestire il business dei rifiuti con gli appalti per la raccolta e lo smistamento in discarica in 14 centri del Catanese (Bronte, Calatabiano, Castiglione di Sicilia, Fiumefreddo, Giarre, Linguaglossa, Maletto, Maniace, Mascali, Milo, Piedimonte Etneo, Randazzo, Riposto e Sant'Alfio), come anche ad Enna, a Milano e a Torino. Milioni di euro che rimpinguavano le tasche della malavita organizzata, infiltrata all'interno dell'Aimeri Ambiente srl, azienda che opera nel ciclo di rifiuti dell'area ionica-etnea come aggiudicataria dell'appalto bandito dalla Ato Ct1 Joniambiente. 

L'organizzazione riusciva ad ottenere notevoli profitti attraverso la falsificazione dei formulari relativi alla raccolta e al conferimento in discarica dell'umido e della differenziata facendo credere che il servizio, in realtà inesistente, funzionasse alla perfezione. E inoltre attivava il ricorso alle procedure di somma urgenza, come ad esempio l'eliminazione di micro discariche o la pulizia di caditoie e margini stradali, affidandole a ditte conniventi. Altro elemento portante era la mancanza assoluta di controlli sostanziali, ma solo formali, da parte di amministrazioni pubbliche come comuni e la stessa Joniambiente.   

Ventisette i provvedimenti di custodia cautelare in carcere e ai domiciliari che sono stati emessi dal Gip di Catania e molteplici i reati contestati: associazione di stampo mafioso, associazione per delinquere, traffico di rifiuti, traffico di sostanze stupefacenti, traffico di armi aggravato dal metodo mafioso e truffa aggravata ai danni di ente pubblico. Inoltre, tutti i documenti afferenti agli appalti conferiti all'Aimeri, come anche alla Sicilia Ambiente e Alkantara 2001, sono stati acquisiti. Nell'ambito della stessa inchiesta dalla quale è emerso anche un traffico di stupefacenti, sono state disposte 16 perquisizioni ancora in corso: 16 amministratori comunali e diversi funzionari sono indagati. Tra loro il sindaco di Mascali, Filippo Monforte. Il reato ipotizzato nei suoi confronti è corruzione. Lo ha confermato lo stesso amministratore che ha ricevuto un'informazione di garanzia. "Per il momento non ho alcunchè da dire", ha commentato. Nello stesso Comune indagati anche l'assessore ai Lavori pubblici, Rosario Tropea, e il dirigente responsabile del settore, Bruno Cardillo. Indagato anche l'ex assessore all'Ambiente del Comune di Giarre, Piero Mangano.

Nell'operazione sono stati impegnati 250 uomini tra poliziotti, carabinieri e finanzieri che questa mattina, insieme con il personale del reparto Volo della polizia di Reggio Calabria e delle unità cinofile, hanno portato a termine il blitz, condotto dalla Dia e coordinato dalla Dda della Procura della Repubblica di Catania. Non è ancora completamente definito il giro degli affari: le indagini continuano e potrebbero esserci risvolti a giorni. Ci potrebbero essere dei collegamenti con gli attentati incendiari di alcuni mesi fa all'interno dell'Aimeri subito dopo l'arresto di Russo, elemento di spicco del clan Cinturino. 

Ecco i nomi degli indagati. Per associazione per delinquere di tipo mafioso i nomi di spicco sono: Roberto Russo, responsabile tecnico operativo della Aimeri Ambiente, insieme con Salvatore Tancona, commerciante, e Gianluca e Carmelo Spinella. Per associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti gli indagati sono Alfio e Carmelo Tancona, gravitanti anche nell'orbita dei Cappello Bonaccorso, Nico Marino Benedetto e Santo Cristaldi già ai domiciliari per spaccio, Arianna Ingegneri, Alessandro e Francesco Mangano nonché Mauro Miceli, Salvo Musumeci, Giuseppe Sciacca, Girolamo Zappala', Antonino La Spina e Sebastiano Vitale. Gli altri arrestati dovranno rispondere di detenzione di armi da fuoco, associazione per delinquere e traffico illecito di rifiuti.
La Aimeri Ambiente dichiara "la più totale estraneità rispetto alla vicenda, considerandosi con tutta evidenza parte lesa ed annunciando la propria costituzione in giudizio come parte civile". L'azienda precisa che "le persone colpite dai provvedimenti giudiziari sono dipendenti ed ex dipendenti con mansioni di secondo piano e che comunque risponderanno personalmente dei reati per i quali sono accusati, alcuni reati addirittura completamente estranei all'attività svolta dalla società". "Infine - si legge in una nota - si evidenzia che l'equivoco sul presunto coinvolgimento dell'azienda, diffuso erroneamente da alcune fonti di informazione, comporta già da ora un danno gravissimo per Aimeri ambiente che si riserva di agire per la piena tutela dei propri diritti e della propria immagine". La società si dice "pronta a garantire, come sempre, la massima disponibilità a collaborare con le Autorità competenti per fare luce sulle gravi vicende di cui ancora, tuttavia, non conosce nel dettagli i particolari".