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martedì 27 maggio 2014

Fondazioni bancarie, cosa rimane della filantropia tra un’inchiesta e l’altra. - Chiara Brusini

Fondazioni bancarie, cosa rimane della filantropia tra un’inchiesta e l’altra


Nel 2013 Cariplo, Compagnia di San Paolo, CRT, Cariverona e Cariparo hanno approvato erogazioni per un totale di 418 milioni. Di questi, 118 sono andati ad arte e cultura e poco più a ricerca e istruzione. Con qualche nome noto e un conflitto di interessi: Cassa di risparmio di Torino - il cui presidente siede nel cda dell'Editrice La Stampa - assegna risorse per comprare “Fiat Panda o equivalenti” destinate alla protezione civile.


Il loro nome negli ultimi tempi compare sui giornali più per i legami pericolosi con banche finite sotto inchiesta per mala gestione che per la loro attività primaria. Eppure le fondazioni bancarie che fanno riferimento all’Acri di Giuseppe Guzzetti (vicepresidente l’ex numero uno di Banca Carige Giovanni Berneschi, finito ai domiciliari giovedì scorso) dovrebbero essere innanzitutto gli enti per eccellenza deputati a finanziare attività senza scopo di lucro e di rilevante utilità sociale. Ma, anche da questo punto di vista, gli enti pubblico-privati nati a fine anni novanta con la legge Amato-Carli - relatore l’ex senatore Luigi Grillo tornato recentemente alla ribalta per il caso Expo - per sostituire lo Stato in capo alle banche pubbliche e perseguire finalità “di interesse pubblico e di utilità sociale” (grazie ai dividendi incassati dagli istituti controllati o partecipati) hanno sempre avuto un ordine di priorità un po’ diverso da quello del cittadino medio. E il contrasto diventa stridente in una fase di pesante crisi che vede oltre 1 milione di famiglie (i dati arrivano dall’Istat) non percepire alcun reddito da lavoro. Tant’è: nella rosa dei loro venti possibili settori di intervento, che spaziano dall’assistenza agli anziani alla sicurezza alimentare, passando per l’istruzione e la salute pubblica, le fondazioni continuano a privilegiare l’arte e i beni culturali. Un patrimonio ricchissimo che ha indubbiamente grande bisogno di fondi per la conservazione, il restauro e la valorizzazione. Resta il fatto, però, che a scapito delle primarie necessità sociali non tutelate, la scelta degli enti è quella di destinarvi oltre il 30% delle risorse - circa 1 miliardo ogni anno – a disposizione del sistema delle 88 fondazioni italiane. Che in pancia, va ricordato, hanno ancora partecipazioni in 15 banchee il 18% del capitale della Cassa depositi e prestiti (Cdp), la società pubblica che gestisce il risparmio postale.
I dati riassuntivi (relativi al 2012) raccolti dall’Acri, l’associazione che le raccoglie tutte e alla cui guida siede, da 14 anni, il sempreverde Guzzetti strenuo difensore delle sistema delle fondazioni, raccontano di un attivo complessivo di 51 miliardi – costituito per il 96% da attività finanziarie – e di erogazioni per 305,3 milioni ad Arte, attività e beni culturali, per 144,8 milioni a Educazione, istruzione e formazione e per 124 milioni all’Assistenza sociale. Seguono Ricerca (a cui sono stati destinati 118,5 milioni) e, al quinto posto,Volontariato, filantropia e beneficenza (117,3 milioni). Escludendo il caso eclatante della Fondazione Mps che non ha ancora pubblicato il bilancio 2013 e che negli ultimi anni ha abdicato al suo scopo sociale per non mollare la presa sulla disastrata banca senese, salvo poi delegare allo Stato il salvataggio dell’istituto, come impiegano le risorse i primi cinque enti italiani, cioè Cariplo (che ha in pancia il 4,9% di Intesa Sanpaolo, appena dato però in gestione a Quaestio capital management), Compagnia di San Paolo (che di Ca’ de Sass ha il 9,7%), Cassa di risparmio di Torino (azionista di Unicredit con il 2,5%), Cariverona (anch’essa socia di Unicredit, con il 3,5%) e Cariparo (proprietaria del 4,25% di Intesa Sanpaolo)? Nel 2013, tutte insieme hanno messo a disposizione dei territori 418 milioni di euro. Di questi denari 177 milioni sono andati alle attività con dirette ricadute sulle persone, dalla sanità al volontariato. Spulciando i bilanci non mancano però le sorprese. Ecco, nel dettaglio, come sono stati ripartiti i fondi.



DA CARIPLO 44 MILIONI A CULTURA, SPICCIOLI A OSPEDALI – La Fondazione Cariplo, presieduta da Guzzetti (al suo fianco Mariella Enoc e il numero uno di Confcommercio Carlo Sangalli), l’anno scorso ha registrato un avanzo di gestione di 209 milioni e deliberato la concessione di contributi a 1.047 progetti in tutte le province lombarde, per un controvalore totale 138,8 milioni. Ai quali vanno sommati 6 milioni di accantonamenti per i fondi regionali di volontariato. Si arriva così a quota 144,4 milioni, nettamente sotto la “media storica” che, tra il 1998 e il 2013, è stata di 180 milioni l’anno. La relazione sulla gestione indica che la fetta principale della torta, 44,1 milioni – comunque quasi il 10% in meno rispetto al 2012 – è stata devoluta ad arte e cultura: dal sostegno alle imprese culturali fondate da giovani, alle iniziative per “avvicinare nuovo pubblico”. Oltre 6 milioni sono stati destinati al bando “Valorizzare il patrimonio culturale attraverso la gestione integrata dei beni” e altrettanti a “Valorizzare le attività culturali come fattore di sviluppo delle aree urbane” (tra i beneficiari l’Associazione culturale Aprile – Esterni per il progetto Milano film network e Arci Milano per Spazio Mil_Carroponte).
Non mancano poi contributi “di carattere istituzionale”, concessi a pioggia – senza bando – alla Fondazione Teatro alla Scala (3,2 milioni) come al Piccolo Teatro (800mila euro), al Fondo ambiente italiano (250mila euro) come al Centro nazionale prevenzione e difesa sociale onlus (200mila euro). Seguono i Servizi alla persona, con 38 milioni, a cui vanno però aggiunti 19,8 milioni contabilizzati sotto la voce “filantropia e volontariato”. Nell’ambito dei servizi la fondazione milanese ha privilegiato assistenza sociale, attività internazionali e istruzione, a cui sono andati 21 milioni, housing sociale (6,15 milioni, di cui quasi 1 per il progetto Cenni di cambiamento di Polaris Investment, di cui la stessa Fondazione è socia), infrastrutture sociali (4 milioni) e inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati (3,2 milioni). Spiccioli, invece, a microcredito, ospedali e altri servizi sanitari.
E tra i destinatari di alcune specifiche “erogazioni istituzionali” spunta un nome recentemente salito agli onori delle cronache: l’Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone, struttura presso la quale Silvio Berlusconi sta svolgendo i servizi sociali in seguito alla condanna per frode fiscale, ha ricevuto 500mila euro. Il doppio rispetto al Banco alimentare. Al terzo posto per volume di erogazioni c’è poi, con 26,4 milioni, la ricerca scientifica (soprattutto medica, agronomica e sui nuovi materiali), la cui delega in cda è stata affidata a Catia Bastioli, ad di Novamont e neo presidente di Terna. In coda l’ambiente (10,5 milioni). Infine va sottolineato che Cariplo, nel 2013, ha centrato un tasso di rendimento del patrimonio netto del 10,09%, grazie a investimenti in azioni (40%), obbligazioni (altrettanto), valuta (13%) e “mission connected”, “che perseguono finalità coerenti con la missione istituzionale”. Tra questi, per esempio, quelli in Banca Prossima, in veicoli di private equity quali Clessidra, Mandarin e Equinox, in fondi infrastrutturali come F2i e di venture capital come Innogest e Next. Ma anche la quota in Cdp.
COMPAGNIA DI SAN PAOLO RIMANDATA IN TRASPARENZA  - La Compagnia di San Paolo, fresca di cambio al vertice – dopo l’addio di Sergio Chiamparino, candidato alla presidenza della regione Piemonte, la poltrona di presidente è stata occupata dal vice Luca Remmert, a lungo consigliere Unicredit – nel 2013 ha erogato al territorio 124 milioni, che salgono a quasi 130 se si tiene conto delle somme recuperate da stanziamenti di anni precedenti. Prima della crisi, nel 2007, la cifra ammontava a oltre 210 milioni. Altri tempi, anche in termini di risultati di bilancio: allora era in attivo per 467 milioni, ora solo per 176. L’ultimo esercizio a guida Chiamparino ha visto l’ente deliberare 781 stanziamenti. In testa le politiche sociali, con 47,3 milioni, seguite da ricerca e istruzione (41,7), patrimonio artistico (15,2), attività culturali (14,6) e sanità (5 milioni). Il bilancio, però, non dettaglia i singoli interventi e non riporta i destinatari. Tutte le informazioni in merito vengono di solito inserite nel rapporto annuale, che per il 2013 non è ancora disponibile. Per trovare qualche nome occorre scandagliare il sito web. E anche qui le informazioni sono parziali: il file con l’esito dei bandi dell’area politiche sociali, per esempio, è un lungo elenco di cooperative, associazioni, fondazioni, comuni e parrocchie “i cui progetti saranno oggetto di contributo”. Dentro – a dispetto della trasparenza – non c’è nemmeno un numero: “gli enti riceveranno comunicazione scritta riguardante l’ammontare deliberato”, informa la stringata nota.
L’ultimo progetto presentato punta a rivitalizzare – in collaborazione con il comune – gli antichi Quartieri militari della Torino settecentesca, trasformando entro il 2015 i palazzi di San Celso e San Daniele in un polo di ricerca sul Novecento. Oltre a erogare contributi, poi, l’istituto svolge anche attività di gestione diretta di progetti, attraverso una manciata di “enti strumentali” come l’Ufficio Pio, la Fondazione per la Scuola, il Collegio Carlo Alberto, l’Istituto superiore Mario Boella (ricerca nel settore ict) e la Human genetics foundation. Quanto agli investimenti, la compagnia vantava a fine 2013 un portafoglio di attività finanziarie del valore di 5,8 miliardi di euro, in recupero rispetto ai 5,2 del 2012 grazie a un rendimento che ha superato il 16 per cento. La partecipazione in Intesa pesa il 48%, gli investimenti mission-related (tra cui il fondo di social housing Immobiliare Abitare Sostenibile Piemonte) il 3 per cento.
CRT PUNTA SULL’ARTE E LE FIAT PANDA – Sul territorio piemontese la Compagnia di San Paolo “convive” con la potente fondazione Cassa di risparmio di Torino, nota come Crt. Sui cui conti 2013, pur chiusi con un avanzo di 42 milioni, pesano non poco il sostegno – leggi sottoscrizione dell’aumento di capitale – prestato alla Unicredit di Federico Ghizzoni e i minori dividendi incassati. Tanto che, già quest’anno, la fondazione potrebbe decidere di scendere sotto il 2,5% nel capitale della banca. Si vedrà. Certo è che la prima conseguenza è stata un calo delle risorse destinate al territorio: 41 milioni, meno di un quarto rispetto a quanto erogato nell’anno record 2009. Di questi, ben 22 milioni sono andati a “progetti propri”, cioè realizzati direttamente da Crt o da terzi ma sulla base di linee guida comunicate attraverso bandi o inviti a presentare proposte. L’area Arte e cultura è saldamente al primo posto, con 17 milioni spalmati su 647 interventi: si va dal “progetto proprio” Not&sipari per la promozione di musica, teatro e danza (2,8 milioni) al supporto a 17 istituzioni del territorio come Castello di RivoliFondazione Sandretto Re RebaudengoMuseo nazionale del cinema e Circolo dei lettori (4,8 milioni). Passando per gli 1,4 milioni a sostegno delle attività della Fondazione arte moderna e contemporanea, emanazione della stessa Crt. Solo 738mila euro, invece, a “iniziative e richieste del territorio”. Al secondo posto l’area Istruzione e ricerca, con 12,3 milioni per 143 interventi. Qui fanno la parte del leone – 4,8 milioni complessivi – il Master dei talenti (borse di studio per tirocini all’estero) e il progetto Diderot (corsi e conferenze per i ragazzi delle scuole primarie e secondarie), seguiti dalle borse di dottorato e ricerca e dai contratti per visiting professor stranieri offerti nell’ambito del progetto Lagrange (sullo studio dei sistemi complessi).
Buon ultimo il welfare, a cui sono stati destinati in tutto 10,7 milioni, divisi tra volontariato e filantropia (6,5, più 1,1 milioni andati ad alimentare il fondo speciale per il volontariato), salute pubblica (1,8) e “altri settori”. Con alcune curiosità, a voler essere maliziosi: 1,5 milioni sono andati al progetto Missione soccorso, che finanzia l’acquisto di autoambulanze – quasi sempre Fiat Ducato o Doblò, come emerge dalle immagini delle Giornate del soccorso – e al bando Safety vehicle, che assegna risorse da utilizzare per veicoli allestiti per le attività di protezione civile. “Fiat Panda o equivalenti”, specifica il regolamento diramato dalla fondazione, il cui presidente Antonio Maria Marocco, ex consigliere Unicredit, è stato nel cda della cassaforte degli Agnelli, Exor e siede ancora in quello dell’Editrice La Stampa – gruppo Fiat.
PER CARIVERONA DISAGIO AL PRIMO POSTO – Quanto a Cariverona, la fondazione presieduta daPaolo Biasi ha deciso l’anno scorso erogazioni per 61,5 milioni, di cui 17,2 a volontariato, filantropia e beneficenza. Su questi oltre 4 milioni sono stati concentrati sulla disabilità, 1,9 su azioni contro il disagio sociale (dormitori, centri accoglienza, un fondo di solidarietà per famiglie in difficoltà), 1,6 sui servizi per i minori in affido e altrettanto su progetti per i detenuti. Tutti gestiti da cooperative, comuni e diocesi del vicentino, del veronese e del bellunese. Altri 16 milioni sono andati a arte e beni culturali (di cui 4 per restauri), 14,3 a salute e medicina preventiva e riabilitativa (4,3 milioni per informatizzare le strutture sanitarie, 8,5 per l’acquisto di macchinari), 5,7 a istruzione e formazione (soprattutto dotazioni informatiche per le scuole, ma anche sostegno a corsi finalizzati all’inserimento nel mondo del lavoro), 4,5 all’assistenza agli anziani (sia a domicilio sia in strutture residenziali) e 2,4 alla ricerca. I fondi vengono assegnati attraverso bandi o per iniziative sollecitate direttamente dall’ente.
DA CARIPARO 13 MILIONI ALLE “CATEGORIE DEBOLI” - Infine la Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo ha approvato nel corso del 2013 l’assegnazione di 54 milioni di euro – a fronte di un avanzo di 55,6 milioni. Le somme maggiori (13,4 milioni) sono andate in questo caso all’assistenza e tutela delle categorie deboli. In particolare 3 milioni sono finiti in un fondo straordinario di solidarietà a favore dei disoccupati e 250mila euro a un progetto di sostegno per chi si prende cura dei malati di Alzheimer. Oltre 11 milioni hanno invece finanziato la ricerca scientifica, 10,9 arte e cultura (dalla mostra su Pietro Bembo a Padova agli archivi storici della regione), 8,5 progetti legati all’istruzione (il Polo universitario di Rovigo ha per esempio ricevuto 4 milioni per le attività didattiche) e 6,5 sono stati destinati a salute e ambiente. Sport, protezione civile, sicurezza alimentare e agricoltura si sono divisi la fetta più piccola, circa 3 milioni.

giovedì 1 maggio 2014

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit. - Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit


Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l'azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po' di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l'istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.

Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.
La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.
LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativa dichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità mediante consulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.
E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.
LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di 1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.
IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamente riconosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.
Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex ad Alessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.

sabato 6 ottobre 2012

I banchieri non pagano la crisi. E delle regole per ora non c’è traccia. - Giorgio Faunieri


I banchieri non pagano la crisi. E delle regole per ora non c’è traccia


Di una riduzione degli stipendi dei grandi manager della finanza si parla ininterrottamente dallo scoppio della bolla dei subprime. Ma nei fatti ancora niente è accaduto, con l'eccezione della bozza Liikanen, presentata pochi giorni fa a Bruxelles. Nell'attesa di qualcosa di concreto, intanto, i super banchieri mondiali continuano a incassare somme milionarie, indipendentemente dai risultati. Ecco quanto guadagnano.

Sono quattro anni che si valuta di introdurre un tetto agli stipendi dei banchieri ma fino a oggi non si è fatto nulla. Ed è molto probabile che le cose non cambieranno. L’ultima proposta in ordine di tempo è arrivata dal report Liikanen, la proposta per una regolamentazione del settore bancario europeo elaborata dal membro finlandese della Bce, Erkki Liikanen, su mandato della Commissione Europea. La bozza di riforma, presentata pochi giorni fa a Bruxelles, suggerisce, fra le altre cose, di pagare i bonus ai banchieri almeno in parte in azioni e obbligazioni della banca stessa, di modo che, in caso di fallimento di quest’ultima, i manager non percepiscano la parte variabile della loro retribuzione.
Il suggerimento è, allo stato delle cose, molto vago, e la lobby dei banchieri avrà a disposizione tutto il tempo necessario per depotenziare questa regola prima della sua effettiva entrata in vigore. Resta inoltre da capire per quale motivo un banchiere che porta al fallimento la sua banca debba percepire la parte fissa dello stipendio, che in molti casi supera il milione di euro. E, comunque, anche se venisse applicata in maniera severa la regola proposta da Liikanen non si potrebbe ancora parlare di un vero e proprio tetto agli stipendi. Fino al 2007, ovvero fino alla scoppio della crisi finanziaria, si diceva che imporre dei limiti agli stipendi avrebbe fatto scappare i banchieri migliori verso Paesi senza tetti.
La storia recente ha insegnato che i banchieri più pagati – e dunque i migliori secondo il ragionamento che andava tanto di moda – sono quelli che hanno provocato i disastri maggiori, non solo per le banche che dirigevano (vedi Richard Fuld di Lehman Brothers e Alessandro Profumo di Unicredit che ha preso una liquidazione da 40 milioni di euro mentre la banca era costretta a fare tre aumenti di capitale in tre anni per non fallire) ma per l’intero sistema finanziario mondiale che è arrivato a un passo dal collasso.
Negli ultimi quattro anni la Gran Bretagna è riuscita a vietare i bonus alle banche che hanno ricevuto aiuti statali ma queste ultime hanno cercato di restituire gli aiuti il prima possibile – in alcuni casi mettendo di nuovo a rischio la propria stabilità finanziaria – proprio per tornare a pagare i bonus. Gli episodi di autoregolamentazione sono stati rari e molto limitati nel tempo. Sull’onda del furore popolare per i rischi corsi nel biennio 2008-2009 le banche hanno ridotto i compensi ai manager ma sono prontamente tornati ad alzarli non appena la grande paura è passata (grazie agli enormi sforzi messi in campo dagli Stati e dalle banche centrali). Di recente lo stesso governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, ha parlato della necessità di tagliare gli stipendi dei banchieri, facendo riferimento a “dinamiche dei sistemi di remunerazione non coerenti con l’attuale fase congiunturale e non sufficientemente ancorati ai risultati di medio‐lungo periodo”.
Nel maggio scorso aveva espresso (inascoltato) lo stesso concetto: “Le remunerazioni degli amministratori e dell’alta dirigenza devono essere indirizzate all’obiettivo del contenimento dei costi”. Uno studio della Uilca-Uil ha rivelato che il monte retribuzioni 2011 degli amministratori delegati dei primi undici gruppi bancari italiani è cresciuto nel complesso del 36,23% rispetto all’anno precedente, per un totale di 26,067 milioni, anche a causa delle dimissioni di quattro top manager che hanno comportato buone uscite per complessivi 9,7 milioni. Lo stipendio medio degli amministratori delagati è risultato 85 volte quello del bancario medio (il record è di 101 volte nel 2007).
Nel marzo scorso i sindacati dei bancari Fiba, Fabi, Fisac, Uilca, Sinfub, Ugl credito e Dircredito hanno chiesto pubblicamente di limitare questo rapporto a 20 volte ma anche il loro appello (rivolto al presidente del consiglio Mario Monti, al presidente dell’Abi Giuseppe Mussari e allo stesso Visco) è rimasto inascoltato. A livello mondiale, secondo il calcoli del Financial Times, le retribuzioni dei dirigenti e degli amministratori delegati delle maggiori banche lo scorso anno sono aumentate del 12% con un guadagno medio complessivo pari a 12,8 milioni di dollari. L’incremento delle retribuzioni riguarda gli stipendi netti e non, invece, i bonus e i benefit extra. I premi conferiti attraverso le azioni sono invece cresciuti del 22%.
L’amministratore delegato di JPMorganJamie Dimon è sempre in cima alla top ten per il secondo anno di seguito con una retribuzione di 23,1 milioni di dollari, circa l’11% in più rispetto all’anno precedente. Al secondo posto c’è l’ad di Citigroup, Vikram Pandit, con un guadagno pari a 14,9 milioni di dollari. Non se la passava male neanche Bob Diamond, amministratore delegato di Barclays (che si è pero’ dimesso in seguito allo scandalo della manipolazione del tasso Libor), con una retribuzione annua pari a 20,1 milioni di dollari, e Antonio Horta-Osorio di Lloyds Banking Group, che può vantare un compenso di 15,7 milioni di dollari. In Italia il record spetta all’amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, che ha incassato 2,19 milioni (1,58 in compensi fissi e 338mila euro in “bonus e altri incentivi” riferiti “al solo pagamento di incentivi differiti” relativi al 2009 e 2010, come si legge nella relazione sulla politica retributiva del gruppo). Seguito dal suo ex presidente Dieter Rampl (1,8 milioni di euro).