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giovedì 6 ottobre 2016

Deutsche Bank accusata di collusione con Mps.

Deutsche Bank

Deutsche Bank accusata per collusione con Mps per aver nascosto le perdite dell’istituto italiano. L'istituto di credito tedesco nel 2013 avrebbe trasformato crediti in derivati.


Deutsche Bank, incriminata per collusione con Monte dei Paschi  per nascondere le perdite dell’istituto italiano, avrebbe occultato la transazione e decine di altre nei propri bilanci, secondo una verifica dell’istituto di vigilanza della Germania. E’ la ricostruzione fatta da Blomberg che ha potuto visionare una delle perizie.

I dirigenti di Deutsche Bank avrebbero trattato 103 operazioni simili, per un valore complessivo di 10,5 miliardi di euro (11,8 miliardi di dollari) per 30 clienti secondo la perizia, una copia della quale è stata vista da Bloomberg. L'istituto di credito tedesco avrebbe regolato la contabilizzazione di 37 di quei trade nel 2013, oltre a quello di Monte Paschi , trasformandoli da crediti, che erano stati tenuti fuori dai bilanci, in derivati.
L'uso diffuso di una transazione che è ora oggetto di un procedimento penale mette in evidenza l'appetito del creditore per la complessità in un momento in cui la banca stava espandendo il suo impero a reddito fisso. Mentre Deutsche Bank da allora ha tagliato le attività rischiose ed eliminato migliaia di posti di lavoro per rafforzare il capitale, enormi spese legali sono diventate una fonte di crescente preoccupazione per gli investitori, facendo crollare le azioni.
L'audit ha rilevato che, mentre Monte Paschi  è stato l'unico cliente che ha usato una transazione per fare un maquillage ai propri bilanci, Deutsche Bank non ha registrato correttamente operazioni simili con banche fatte dall’Italia all’Indonesia tra il 2008 e il 2010. Il rapporto ha anche detto che i vertici non hanno autorizzato correttamente l’operazione Monte Paschi , o rivisto adeguatamente la transazione dopo aver ricevuto un mandato di comparizione da parte della Federal Reserve Usa nel 2012.
Monte Paschi ha rivisto i conti nel 2013, dopo che queste transazioni sono venute alla luce, e ulteriormente rivisto i risultati nel 2015 su richiesta dell’autorità di vigilanza italiana. Deutsche Bank ha riaffermato che l’operazione non ha influenzato la sua redditività, e che la banca non ha rivisto gli utili prima del 2013, perché l'effetto complessivo non era significativo, ha sottolineato l'audit. Deutsche Bank alla fine di settembre del 2013 aveva un patrimonio di circa 1800 miliardi di euro.
"Deutsche Bank nel settembre 2013 ha riclassificato il modo in cui registrava sui libri contabili un certo numero di cosiddette operazioni pronti contro termine, riclassificazione che però non ha avuto alcun impatto sugli utili di Deutsche Bank", riportava la mail di Adrian Cox, portavoce della sede londinese della banca. "Il fatto che tali operazioni sono state trasformate in prestiti non comporta una connessione tra loro e con il caso particolare di Monte Paschi ."
Deutsche Bank e sei dirigenti, attuali ed ex, tra cui Michele Faissola (che ha curato i tassi globali a quel tempo) e Ivor Dunbar (ex co-responsabile del mercato dei capitali), sono stati incriminati da un tribunale di Milano il 1 ° ottobre 2008 per la transazione Monte Paschi  . Entrambi, insieme al co-ceo di Deutsche Bank Anshu Jain, hanno lasciato l'azienda.

Di recente la richiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di 14 miliardi di dollari per risolvere un'indagine sulla vendita di titoli garantiti da mutui residenziali, che è stata respinta dalla banca, ha sollevato le domande tra alcuni investitori e clienti circa la capacità di Deutsche Bank di resistere ai costi legali in attesa del giudizio. Il ceo John Cryan ha inviato una nota al personale la scorsa settimana dicendo che la banca è più sicura che in qualsiasi momento negli ultimi due decenni.

“I mercati sono rimasti scossi dalla possibilità che altri incidenti del genere debbano ancora accadere”, ha spiegato un analista londinese di Kepler Cheuvreux ai clienti il 29 settembre. L'istituto di credito ha circa 29 miliardi di euro di asset cosiddetti di livello 3, che sono i più difficili da valutare: il loro valore di mercato di circa 16 miliardi di euro fa tremare i polsi.

La verifica è stata effettuata dalla società di revisione contabile Peters Schoenberger & Partner, ed è stata commissionata da BaFin, il regolatore finanziario mercati tedesco, nel gennaio 2014 per esaminare il ruolo di Deutsche Bank nell’operazione Monte Paschi  e come i manager avevano reagito alla successiva indagine interna. La banca italiana aveva utilizzato il credito per nascondere una perdita da trading in una precedente operazione condotta con Deutsche Bank, come riportato da Bloomberg nel 2013. La verifica si è conclusa nel dicembre 2014.
Secondo l’audit, “La gestione del rischio da parte di Deutsche Bank per quanto riguarda una complessa operazione di finanziamento strutturato come quella con Mps  era palesemente inadeguata e inefficace, dati i rischi reputazionali impliciti”.

Conosciuti internamente come pronti contro termine migliorati, i deal sono stati tenuti fuori bilancio da Deutsche Bank annullandoli attraverso passività separate create nelle transazioni, secondo i documenti esaminati da Bloomberg. Deutsche Bank ha venduto le garanzie dei prestiti che il mutuatario aveva fornito, come per esempio i titoli di Stato, creando un obbligo per la banca di restituire alla fine i bond. Nella contabilità originale il credito è stato compensato da tale obbligazione, facendola di fatto scomparire. Tutto ciò avrebbe dato al bilancio Deutsche Bank un aspetto più sano aumentando i coefficienti patrimoniali.
Secondo la perizia, l’operazione di maquillage ha permesso di non contabilizzare subito le perdite e di poter invece beneficiare della contabilità per competenza e quindi di contabilizzarle nel corso di un periodo di tempo più lungo.

La revisione ha detto che Fed controllo di accordo Monte Paschi  di Deutsche Bank alla fine del 2011 ha portato a un mandato di comparizione qualche mese più tardi. BaFin ha espresso preoccupazione per la Deutsche Bank di "cosmesi di bilancio" poco dopo.

giovedì 1 maggio 2014

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit. - Fiorina Capozzi e Gaia Scacciavillani

Derivati, firme false e dichiarazioni “estorte”, la sentenza Eurobox che condanna Unicredit


Il verdetto di primo grado del Tribunale civile di Salerno non è bastato a salvare l'azienda di imballaggi dal fallimento, ma ha fatto un po' di luce sul rapporto tra banche, imprese e finanza tossica. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che l'istituto milanese è stato condannato a restituire, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano.

Troppo tardi. La sentenza di primo grado del Tribunale Civile di Salerno che il 19 febbraio 2014 ha dato ragione alla Eurobox contro Unicredit, se mai avesse potuto farlo, non è riuscita salvare dal fallimento la società di imballaggi metallici arrivato il 13 marzo scorso. Ma almeno ha fatto un po’ di luce sul rapporto tra banche, imprese e derivati che, in questo caso, è passato anche attraverso firme false e autorizzazioni “estorte”. Anche se i quasi 2 milioni di euro oltre agli interessi e alle spese legali che la banca è stata condannata a restituire a Eurobox, difficilmente ridaranno un lavoro alla quarantina di ex dipendenti della famiglia Mignano che all’inizio della storia, nel 1999, lavoravano per una piccola, ma promettente realtà imprenditoriale (31mila euro di utili su 5,8 milioni di euro di fatturato, con un debito bancario di 1,2 milioni) e che ora sono in mezzo ad una strada. Per di più in una regione, la Campania, dove il lavoro è una merce rara.
La storia è scritta nero su bianco nella sentenza che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare e secondo la quale i contratti con cui Unicredit ha venduto 28 derivati alla Eurobox tra il 2000 e il 2004, non sono validi. Si tratta di prodotti finanziari altamente sofisticati e rischiosi che, lamenta l’azienda, “a dire della banca avrebbero eliminato ogni rischio e assicurato la ‘copertura’ relativa agli affidamenti concessi (quasi 3 milioni di euro, ndr)”. Ma che hanno invece “avuto esiti ampiamente negativi, causando alla società perdite incalcolabili, pari a circa 4 milioni di euro per il solo danno emergente, comprensivo della sorta capitale persa e degli interessi addebitati”, come si legge nel documento nella parte dedicata alle rivendicazioni di Eurobox.
LA FIRMA APOCRIFA SUI CONTRATTI - Alla base delle operazioni, i contratti quadro siglati dalle parti e dai quali dipende la validità delle successive operazioni, ma anche la relativa dichiarazione di operatore qualificato sottoscritta dalla società. Ed è proprio qui che mettono il dito i giudici avallando la posizione di Eurobox. Perché dei due contratti quadro prodotti dalle parti uno è risultato “a firma apocrifa”, quindi falso, in seguito a un accertamento di autenticità mediante consulenza grafica d’ufficio “che ha concluso per la natura apocrifa della firma disconosciuta” dal rappresentante legale della società. E, dunque è “da ritenersi inesistente”. Invece per quanto riguarda il secondo, non disconosciuto, i giudici notano che le operazioni poi realizzate non sono affatto quelle indicate nell’accordo, ma al contrario “presentano caratteristiche strutturali molto più complesse”. In sostanza “la funzione del contratto quadro, consistente nel regolamentare operazioni elementari che la banca avrebbe posto in essere sulle oscillazioni dei tassi di cambio, non ha alcuna attinenza con i prodotti finanziari posti in essere altamente sofisticati e difficilmente comprensibili, basati su di una ‘complessa combinazione di opzioni, parte in acquisto e parte in vendita’ che divenivano sempre più ‘criptici’ e scarsamente trasparenti (…) tanto da vanificare la funzione di copertura”, come scrivono i magistrati sintetizzando la ricostruzione del consulente tecnico d’ufficio. Dall’inquietante ricostruzione, la conclusione circa “la nullità delle operazioni finanziarie, che risulta supportata dall’inesistenza di un contratto quadro sia per i derivati appartenenti alla categoria swap, data la falsità della firma sul contratto quadro disconosciuto, sia per i derivati riconducibili alle opzioni strutturate, data la discrasia tra la previsione relativa all’oggetto dei contratti specifici contenuta nel programma del contratto quadro non disconosciuto e le operazioni in titoli, di tutt’altra natura, concretamente poste in essere”.
E L’ESTORSIONE DELLA DICHIARAZIONE DI COMPETENZA FINANZIARIA - Ma non finisce qui. C’è anche la questione della dichiarazione di “operatore qualificato”. Unicredit, infatti, si era appellata all’artico 31 del Regolamento Consob in base al quale, tra il resto, la nullità dei servizi prestati da un intermediario senza un contratto non si applica nei rapporti tra intermediari autorizzati e operatori qualificati. Definizione, quest’ultima, che oltre agli operatori finanziari include “ogni società o persona giuridica in possesso di una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentate”. Permettendo così alla banca di effettuare transazioni su derivati senza preventive autorizzazioni da parte del cliente. E qui ricasca l’asino. Tra i documenti agli atti c’è infatti una prima dichiarazione di operatore qualificato che “è uno dei tre documenti disconosciuti e risultati a firma apocrifa. Come tale da ritenersi inesistente”, si legge ancora nel documento. Ce n’è poi una seconda, datata 26 aprile 2001, che però, sempre secondo i giudici “è stata indotta dalla banca, la quale era perfettamente a conoscenza della sua contrarietà al vero”. La prova l’ha fornita la testimonianza di un quadro direttivo dell’allora Unicredit Banca d’Impresa che all’epoca era gestore dei rapporti tra la banca e le imprese clienti. “Il teste ha confermato di aver chiesto alla società di dichiararsi operatore qualificato contestualmente alla stipula dei contratti swap nell’anno 2000; ha aggiunto che la società Eurobox srl aveva comunicato alla banca, sin dall’inizio del rapporto, la non conoscenza degli strumenti finanziari ed in particolare dei contratti swap e di aver illustrato di quali prodotti si trattasse, la loro struttura ed i rischi”. E se l’organo amministrativo della società non era in grado di capire il funzionamento degli strumenti più semplici, è la deduzione dei giudici, “a maggior ragione non poteva avere alcuna capacità di comprensione della complessa struttura delle altre e più sofisticate operazioni”.
LA CONDANNA E IL RISARCIMENTO - Da qui la condanna a Unicredit alla restituzione di 1.985.670 euro alla società “ a titolo di indebito oggettivo conseguente alla nullità delle operazioni in derivati”, oltre agli interessi, alle spese processuali nonché a quelle della consulenza tecnica d’ufficio. Niente da fare, invece, per quanto riguarda la richiesta di risarcimento dei danni subiti (quantificati in 2 milioni) in conseguenza primo delle operazioni nulle, secondo del ritiro degli affidamenti e, terzo, delle segnalazioni che Unicredit aveva fatto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia. Questo a causa di questioni meramente tecniche. Per quanto riguarda il primo punto, il rifiuto è motivato proprio della nullità del contratto che esclude la responsabilità precontrattuale. Sulle conseguenze del ritiro degli affidamenti, il no dei giudici al risarcimento è invece motivato dal fatto che Eurobox, appellandosi al recesso immotivato da parte della banca, non ha assolto all’onere di “enunciare le ragioni della sua tesi e fornire la prova del canone di buona fede e del danno risarcibile”. L’azienda avrebbe infine dovuto documentare adeguatamente anche la segnalazione alla Centrale Rischi in quanto il tabulato fornito è inutilizzabile “trattandosi di documento prodotto da una parte già decaduta dalla facoltà processuale e stante l’opposizione della controparte alla sua introduzione nel processo”. E così il risarcimento è stato rigettato.
IL “PADRE” DEL COMMERCIO ITALIANO DEI DERIVATI, PIETRO MODIANO - Se ne riparlerà, probabilmente, in sede penale, dove l’ex imprenditore Rino Mignano ha presentato denuncia contro i vertici di Unicredit per usura su derivati e conti correnti. La prima udienza è in calendario per il prossimo 6 maggio. E scriverà un altro capitolo di una storia che ha dell’incredibile con una banca che presenta in Tribunale documenti con firme false e un’azienda che cade sui derivati fabbricati dalla divisione di Unicredit all’epoca dei fatti guidata da Pietro Modiano, oggi alla guida della Sea, la società che gestisce gli aeroporti di Milano, e della Carlo Tassara, l’indebitata holding del finanziere Romain Zaleski che non fa dormire sonni tranquilli ai banchieri, a partire dalla Intesa SanPaolo di Giovanni Bazoli. Del resto lo stesso Modiano – che ha guidato Unicredit Banca Mobiliare dal 1999 al 2004 e Unicredit Banca d’Impresa dal 2003 al 2004 – aveva ampiamente riconosciuto gli errori della commercializzazione dei prodotti finanziari strutturati ammettendo tra il resto che “ci sono situazioni in cui si sono fatti errori e quindi si deve riparare”.
Il caso della Eurobox ricorda molto da vicino quello della Divania, l’azienda pugliese per il cui fallimento del giugno 2011 la Procura di Bari ha recentemente chiamato in causa i derivati di Unicredit accusando di bancarotta i vertici e gli ex vertici della banca milanese, a partire dall’ex ad Alessandro Profumo oggi al Montepaschi e dall’attuale numero uno, Federico Ghizzoni
La perizia di parte redatta dal consulente Roberto Marcelli racconta che Eurobox nel 1999 era una piccola azienda “in forte espansione, operante nel settore dello scatolame pressoché esclusivamente sul territorio nazionale”. Poi sono arrivati i derivati per coprire esposizioni sul dollaro che in realtà l’impresa aveva solo in minima parte rispetto al proprio fatturato. E, sempre secondo il perito di parte per il quale in Italia i “derivati creativi” siano stati venduti a 35mila aziende, “la banca ha condizionato il mantenimento e l’estensione delle linee di credito della società, alla sottoscrizione dei contratti derivati: in più circostanze si è riscontrata la concomitanza delle due operazioni”. La conclusione, scrive il perito, è arrivata “quando si è raggiunto il limite della capacità di credito del cliente” e l’istituto di credito ha proposto alla società un ultimo prodotto per il progressivo rientro. Ma l’imprenditore si è rifiutato di pagare per la chiusura dell’ultimo derivato. Così Unicredit ha segnalato Eurobox alla Centrale di rischi facendo scattare in automatico le richieste di rimborso di tutti i finanziamenti concessi all’impresa. A quel punto, l’azienda, che ha continuato industrialmente a funzionare (nel 2012 ancora produce utili per 1.500 euro su 90mila euro di fatturato, ma ha accumulato debiti per quasi 11 milioni e ha un patrimonio netto negativo con 8 milioni di perdite riportate a nuovo), è entrata in crisi di liquidità.

mercoledì 19 dicembre 2012

Milano, il giudice condanna 4 banche. “Truffa sui derivati ai danni del Comune”.


Milano, il giudice condanna 4 banche. “Truffa sui derivati ai danni del Comune”


Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa dovranno pagare una multa di un milione ciascuno. Confiscati 88 milioni di euro. Pene fino a 8 mesi inflitte a 9 manager. Assolto il direttore generale di Palazzo Marino all'epoca della giunta Albertini. Il pm Robledo: "Sentenza storica". Era un processo "pilota" a livello internazionale.

Il tribunale di Milano ha condannato 4 banche accusate di una truffa sui derivati ai danni del Comune di Milano. Il giudice Oscar Magi ha condannato a una pena pecuniaria di un milione di euro ciascuno Deutsche Bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa Bank. La sentenza ha anche disposto la confisca di 88 milioni di euro ai quattro istituti di credito. I fatti contestati risalgono al 2005.
Magi ha condannato 9 imputati tra manager o ex a pene comprese tra i sei mesi e gli otto mesi e 15 giorni, e ne ha assolti quattro, come richiesto dall’accusa. I condannati sono Marco Santarcangelo e Antonia Creanza (8 mesi e 15 giorni di carcere e 90 euro di multa ciascuno), Tommaso Zibordi (7 mesi e 15 giorni e 80 euro di multa), Gaetano Bassolino (7 mesi e 70 euro di multa), Carlo Arosio, William Francis Marrone, Fulvio Molvetti e Matteo Stassano (6 mesi e 15 giorni di reclusione e 60 euro di multa), Alessandro Foti (6 mesi e 50 euro di multa).  Tra gli imputati assolti due funzionari delle banche, Simone Rondelli (JP Morgan) e Francesco Rossi Ferrini (JP Morgan), e Mario Mauri e Giorgio Porta, rispettivamente all’epoca dei fatti consulente e dirigente del comune sotto la giunta Albertini. Gli istituti sono stati condannati per la violazione della legge 231 del 2001, quella che dispone la responsabilità amministrativa delle aziende per reati commessi dai propri dipendenti. Si conclude così uno dei primi processi a livello internazionale con al centro i derivati. In caso di condanne e assoluzioni il giudice ha accolto le richieste della stessa Procura.
Secondo la Procura, il Comune di Milano sarebbe stato raggirato dalle quattro banche che avrebbero fornito cattive informazioni all’amministrazione comunale in relazione ai contratti stipulati. L’oggetto del processo è uno swap trentennale stipulato nel 2005 su un bond bullet da 1,68 miliardi di euro con scadenza nel 2035.
Una perizia disposta dal giudice Magi aveva stabilito, lo scorso maggio, che le banche, in sostanza, avrebbero male informato il Comune, il quale però avrebbe avuto fretta di concludere l’operazione. Il pm nella sua requisitoria aveva parlato di “aggressione alla comunità per l’opacità dell’operazione”. Lo scorso 21 marzo, invece, il giudice aveva deciso il dissequestro di 108 milioni di euro, sequestrati alle banche in fase di indagini, anche sulla base dell’accordo transattivo raggiunto nei mesi scorsi tra Comune e istituti di credito che porterà nelle casse dell’amministrazione oltre 400 milioni di euro nel giro di alcuni anni. Unica parte civile è l’associazione dei consumatori Adusbef che riceverà 50 milioni di lire di risarcimento.
Il giudice Oscar Magi ha trasmesso alla procura gli atti del processo sui derivati in relazione alla posizione di Angela Casiraghi, ex dirigente a capo del settore finanza del comune di Milano, “in ordine al reato di falsa testimonianza”. La donna condusse le trattative per conto di palazzo Marino con le banche. La Casiraghi era stata sentita sia in fase di indagini che nel corso del processo e la presunta falsa testimonianza farebbe riferimento ad alcune sue affermazioni rese da teste nel dibattimento.
Il procuratore Robledo parla di “sentenza storica, perché è stato riconosciuto il principio fondamentale che ci deve essere trasparenza da parte delle banche nel contrattare con la pubblica amministrazione”.
”Deutsche Bank rimane convinta di avere agito correttamente, come pure i suoi dipendenti. La banca intende, quindi, ricorrere in appello confidando in una risoluzione positiva del processo”. E’ quanto fa sapere l’istituto di credito in una nota diffusa dopo la lettura del dispositivo. Dello stesso avviso anche Ubs e Jp. Sul processo, in ogni caso, incombe anche il rischio prescrizione, “tagliola” che, per la prima parte delle operazioni, potrebbe scattare già da metà gennaio prossimo.