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martedì 3 novembre 2020

Milano, rapina in banca in piazza Ascoli: banditi scappati dai tombini, ostaggi indenni. - Gianni Santucci

 

L’assalto intorno alle 8.30 in un’agenzia dell’istituto Crédit Agricole. I dipendenti erano stati bloccati all’orario di apertura. I rapinatori sono entrati dai sotterranei, da un buco del pavimento, e si sono allontanati per la stessa via.

Allarme martedì mattina a Milano, intorno alle 8.30, per una rapina in banca all’agenzia del Crédit Agricole di via Stoppani, angolo piazza Ascoli. Alcuni rapinatori avrebbero assaltato la filiale dopo aver aggredito le due persone presenti all’interno, il direttore e uno dei dipendenti, mentre una terza collega è riuscita a scappare. Sul posto è intervenuta immediatamente la polizia, che con una decina di auto ha circondato l’agenzia e bloccato il traffico nella piazza, in una zona centrale della città, tra viale Abruzzi e piazzale Loreto. Diversi bus e tram sono rimasti fermi ai lati della piazza.

I rapinatori hanno fatto irruzione all’orario di apertura, intorno alle 8.35. «Sono entrati dai sotterranei, da un buco nel pavimenti, eravamo in tre all’interno dell’agenzia, quando mi sono accorto ho urlato “c’è una rapina” e una collega è riuscita a scappare», racconta il direttore della filiale. All’esterno sono subito arrivate una decina di auto della polizia, che hanno circondato il palazzo, bloccato gli accessi alla piazza e predisposto un’area di sicurezza per evitare rischi per i passanti.

I banditi sarebbero poi riusciti a fuggire attraverso le condotte fognarie, infilandosi nei tombini, dove proseguono le ricerche degli agenti. Gli ostaggi sono illesi: il personale del 118 ha visitato il direttore e il dipendente, sotto choc. Il direttore ha parlato tenendo del ghiaccio sulla nuca ed ha spiegato che c’è stata «una breve colluttazione ma non hanno infierito su di me». Non è ancora chiaro quanti fossero i rapinatori.

venerdì 17 luglio 2020

Ior: scandali, soldi, misteri e la guerra di Francesco. - Pino Corrias

Ior: scandali, soldi, misteri e la guerra di Francesco

Chiudere le porte dello Ior e riaprire quelle del Paradiso. Sarà vero? Riuscirà papa Francesco a rimediare ai molti peccati commessi dalla banca vaticana, disfacendone le trame, i cristalli, il salone di marmo che si specchia dentro al cerchio magico del Torrione Niccolò V, dove i santissimi soldi transitano da ottant’anni in un rumoroso silenzio, sgocciolando delitti, tradimenti e sangue?
Tanti gironi capovolti ne hanno segnato la storia, il più profondo inciso da Paul Marcinkus, atletico di spalle e di sguardo, che regnò vent’anni – dal 1969 all’89, anno di molti portenti – dentro la sua nuvola di sigari Avana, trafficando in miliardi di dollari, conti sempre cifrati di correntisti anonimi, poteri oscuri, massoneria italiana e americana, dittatori sudamericani, banche tropicali, amabili signore del jet set, campi da golf.
Nato a Cicero, quartiere di Chicago, due isolati dal villone di Al Capone, figlio di un lavavetri lituano, Paul Casimir Marcinkus, detto Chink, detto Il Gorilla, scalò la vita in clergyman, Rolex al polso e scarpe fatte a mano. Fu guerriero di due papi, l’esangue Paolo VI che se ne invaghì nominandolo vescovo e principe della santa cassaforte dove non sono ammessi assegni, solo oro, contante e bugie. E poi Karol Woytila, che lo arruolò nella sua guerra planetaria contro il comunismo, mandandolo a finanziare Solidarnosc, la piccola leva scovata nei cantieri di Danzica, con cui avrebbe sollevato l’intero mondo d’Oltrecortina.
Tra i due papi – già diventati santi grazie alle impazienze del marketing vaticano – la sottile interferenza di papa Luciani, quello del “Dio è più mamma che padre”, che il trentaduesimo giorno del suo papato stabilì l’urgenza di rimuovere Marcinkus dal suo vascello pirata, ma che purtroppo fu rimosso per sempre nella notte del suo trentatreesimo giorno, sepolto senza autopsia, con coda infinita di sospetti e cattive leggende sui veleni che assomigliano a infarti, e infarti che assecondano la cattiva provvidenza.
Nei suoi vent’anni di presidenza Ior, non c’è scandalo italiano, o mistero, come la scomparsa di Emanuela Orlandi, dove prima o poi non compaia la sua fuoriserie nera, con l’autista al volante e la sacca delle mazze da golf nel portabagagli. Sta parcheggiata al centro della bancarotta del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi che a forza di finanziare i generali argentini, tramite la P2 di Licio Gelli, sbrigare il traffico di tangenti socialiste e democristiane – compresa la maxi tangente Enimont, 108 miliardi in certificati del tesoro portati dal giovane Luigi Bisignani, figlioccio di Andreotti, pupillo di Gianni Letta – e infine riciclare i soldi dei diavoli di Cosa nostra, chiude la sua parabola a Londra, appeso al Ponte dei Frati neri. E la coda della sua Mercedes 500 Sl, transita dentro l’avventura dell’altro campione della finanzia andreottiana, Michele Sindona, patron della Banca Privata, oltre che titolare dei flussi del denaro mafioso che navigavano attraverso lo Ior fino alle isole Cayman, Barbados, Antigua per ritornare indietro immacolati.
Avventura che costò la vita a Giorgio Ambrosoli che per conto del tribunale di Milano ricostruiva la segreta contabilità di quel gigantesco scandalo, ucciso da un killer venuto apposta dall’America, ingaggiato da Sindona. A sua volta liquidato nel carcere di Voghera, da un caffè avvelenato, altro dettaglio offerto dell’identica cattiva provvidenza.
E pensare che lo Ior era nato a fin di bene. Voluto da Pio XII nel cupo anno 1942, mentre il tallone di ferro del Terzo Reich ancora si estendeva fino a Stalingrado. Diventa operativo a fine guerra, quando il primo presidente, il laico Bernardino Nogara, trasforma le piccole monete della fede raccolte dalle migliaia di cattedrali e parrocchie d’ogni latitudine, in grandi investimenti immobiliari del Vaticano, un migliaio di palazzi a Roma, un milione nel mondo.
La minuscola Città del Vaticano, 0,44 chilometri quadrati, 900 abitanti, moltiplica il suo potere, protetta dai riverberi millenari della croce, più prosaicamente dalla politica al di qua del Tevere che in base ai Patti lateranensi le concede tutti gli onori dello Stato estero: 180 ambasciate accreditate, una poltrona in tutte le principali istituzioni transnazionali, a cominciare dall’Onu. Nessun onere. Lo Ior viaggia dentro il medesimo privilegio. E sa come sfruttarlo, rendendosi impermeabile a tutte indagini, a tutte le rogatorie.
Quando Giovani Paolo II decide di rimuovere il suo amico Marcinkus dal suo stremato vascello, alla vigilia degli Anni Novanta, gli scandali non finiscono. Tocca ai nuovi rampanti affacciarsi nel suo unico salone, protetto da nove metri di mura esterne, con un unico sportello e un unico bancomat che offre i suoi servizi anche in latino. Entrano in scena i rinnovati eroi dell’era berlusconiana, la cricca dei costruttori romani ingaggiati dal re della Protezione civile Guido Bertolaso ai tempi del G8 alla Maddalena, bruciati 400 milioni di euro, e poi a L’Aquila, passerella planetaria sulle macerie e i morti. Imprenditori come Diego Anemone, quello del Salaria Sport Village, e Angelo Balducci, gentiluomo di sua santità, tutti titolari di conti allo Ior, proprio come Andreotti ai tempi suoi, o l’incredibile Luciano Moggi, estimatore ricambiato del cardinal Ruini.
Poi tocca ai Giampiero Fiorani, presidente della Popolare di Lodi che confesserà i versamenti in nero nelle casse vaticane. Siamo ai tempi dei “furbetti del quartierino”, a cui seguono quelli dei Vatileaks, rivelazoni sulla gestione e il riciclaggio dei soldi, coinvolto nelle indagini il cardinale Tarcisio Bertone, quello dell’attico da 750 metri, con traffico di documenti segreti, e un colpevole scovato a tempo di record, un tale Paolo Gabriele, niente meno che il maggiordomo, come nei gialli da due lire. Il quale non chiude il danno, ma lo spalanca, fino alle impensabili dimissioni di Benedetto XVI: “Gli eventi hanno portato tristezza nel mio cuore”.
Così che quando papa Francesco si affaccia per la prima volta dai sacri palazzi, 17 marzo 2013, augurando “buon pranzo!”, sta parlando a tutti, tranne che agli gnomi dello Ior. Da allora vara una riforma all’anno dell’Istituto, liquida i presidenti, cambia i consigli di amministrazione, ma neanche l’elogio della povertà, né la santa Amazzonia fanno il miracolo. Probabile che fino a quando non verranno smantellate le mura, il sacro Torrione resterà la prigione che era nel Quattrocento, ma con un unico prigioniero, il Vaticano.

venerdì 26 luglio 2019

Nuovo scandalo milionario per Armando Siri. - Lirio Abbate e Paolo Biondani

Nuovo scandalo milionario per Armando Siri

Ecco i documenti inediti dell'indagine ispettiva della Banca Centrale di San Marino sui prestiti senza garanzie al senatore della Lega. In ottobre 750 mila euro all’allora sottosegretario. E tre mesi fa altri 600 mila a una ditta presentata dal suo portaborse. Tra incontri segreti, atti cancellati, carte tenute nascoste. Ora trasmesse alla procura di Milano.


Un prestito politico, contrario a tutte le regole bancarie. Un favore economico deciso da un banchiere di San Marino con una motivazione tenuta segreta: creare un rapporto di ferro con un potente senatore della Lega, in grado di condizionare il governo italiano. Eccola qua, scritta nero su bianco, la vera ragione del mutuo estero da 750 mila euro ottenuto il 16 ottobre 2018 dall’allora sottosegretario Armando Siri, poi costretto a lasciare la poltrona di viceministro delle Infrastrutture perché indagato per una diversa storiaccia siciliana di corruzione. Un finanziamento decennale concesso dalla banca al politico senza nessuna garanzia, di nessun tipo. A cui è seguito un secondo prestito di favore, finora del tutto ignoto: altri 600 mila euro sborsati dallo stesso istituto di San Marino, appena tre mesi fa, grazie alla raccomandazione di un portaborse dello stesso senatore leghista. Un doppio intreccio tra banche, soldi e politica dove spuntano documenti cancellati, atti scomparsi, consulenze misteriose e troppe altre anomalie. Per cui il prestito di Siri, già sotto indagine a Milano, ora è sotto inchiesta pure a San Marino.
In Italia l’istruttoria penale nasce nel gennaio scorso da una segnalazione anti-riciclaggio firmata da un notaio milanese, Paolo De Martinis, che non ha esitato a denunciare le più vistose anomalie dell’affare immobiliare architettato da quel suo importante cliente, che era da poco diventato viceministro della Lega. Appena ha incamerato il prestito di San Marino, Siri ha usato 585 mila euro per comprare un palazzo di circa mille metri quadrati a Bresso, alla periferia di Milano, intestandolo però alla figlia. Un immobile che stranamente, nonostante il mutuo, non è stato ipotecato dalla banca per garantirsi la restituzione del prestito. Quando un’inchiesta giornalistica di Report ha rivelato la denuncia del notaio alle autorità anti-riciclaggio, il leader della Lega, Matteo Salvini, ha difeso pubblicamente, come sempre, il suo senatore: «Siri ha fatto solo un mutuo in banca, come milioni di italiani». Ora però L’Espresso ha scoperto che il prestito di Siri è finito al centro di un’indagine ispettiva ordinata dalla Banca Centrale di San Marino, che ha confermato e allargato le accuse, scoprendo anche un’altra «operazione correlata». Un secondo prestito di favore, collegato sempre al ruolo politico di Siri. Gli atti sono stati già trasmessi per rogatoria anche alla Procura di Milano.
L’autorità di vigilanza di San Marino ha concluso la sua istruttoria proclamando che entrambi i finanziamenti risultano «in contrasto con i principi di sana e prudente gestione» che ogni banca dovrebbe rispettare, tanto da esporla a «un elevato rischio reputazionale oltre che di mancato recupero del credito». Mentre i responsabili dei controlli anti-riciclaggio (Agenzia d’informazione finanziaria, Aif) hanno denunciato tutto alla magistratura.

A San Marino, dopo anni di scandali bancari sempre più gravi, con indagini anche italiane contro masse di evasori fiscali e accuse di riciclaggio di tangenti e soldi sporchi di tesorieri mafiosi, l’intero sistema dei controlli è stato commissariato. I nuovi vertici della Banca Centrale e dell’Aif lavorano da mesi su inchieste molto delicate, che mettono in allarme i potentati politici ed economici, tra minacce, contro-denunce e forti pressioni interne e internazionali. Nonostante queste manovre, l’istruttoria sul prestito di Siri è molto approfondita e dettagliata. Le carte degli ispettori ricostruiscono tutte le anomalie e identificano protagonisti e comprimari dei due finanziamenti collegati a Siri, con vari personaggi sorprendenti. Una specie di allegra brigata del mutuo facile, che comprende un banchiere di Verona, un «esponente istituzionale» di San Marino, un’affascinante consulente, un barista del metrò di Milano, una società del Delaware e naturalmente lui, il senatore della Lega.
La prima sorpresa è la cifra. Siri ha ottenuto un prestito di 750 mila euro: un valore più alto del prezzo dell’immobile. Dopo aver girato alla figlia i soldi per l’acquisto della palazzina, le tasse e tutte le altre spese, a conti fatti gli sono rimasti in tasca almeno 110 mila euro. Eppure la banca non gli ha chiesto «nessuna garanzia, né reale né personale», come annotano gli ispettori: il politico non ha dovuto ipotecare l’immobile oggetto del mutuo e nemmeno firmare una fideiussione. Un finanziamento al buio, insomma, che risulta deciso il 16 ottobre 2018, come «prestito personale», da un singolo manager: il direttore generale della Banca agricola commerciale (Bac) di San Marino, Marco Perotti. Un banchiere di Verona, che era stato capo-area per il Veneto di un istituto italiano. La durata del prestito a Siri è di dieci anni: il doppio del limite massimo (5 anni) previsto dalle normative interne. E per i primi tre anni gli viene concesso il beneficio del «pre-ammortamento»: il politico potrà pagare solo gli interessi, per iniziare a restituire il capitale solo a partire dal 2022. Il senatore senza garanzie ha ottenuto anche un tasso di straordinario favore: un interesse fisso del 2,125 per cento, meno di metà della media (4,90) applicata ai normali clienti negli stessi mesi. Gli ispettori hanno esaminato tutti gli altri «prestiti personali» erogati dalla Bac dall’ottobre 2018 al maggio 2019, accertando che «a parte il finanziamento concesso a Siri, quello di importo più elevato è di 12 mila euro e la durata più lunga è di quattro anni».
Le anomalie più gravi riguardano documenti bancari che risultano spariti, cancellati o alterati. I computer della Bac, in particolare, registrano che la banca aveva ottenuto le visure della società Meditalia srl: l’impresa di Siri che è andata in fallimento, con una procedura giudiziaria durata dal 2007 al 2015, che ha provocato un’inchiesta penale per bancarotta fraudolenta. Questa informazione però è stata «omessa» nelle carte del mutuo. La banca registra il fallimento dell’azienda del politico solo il 17 ottobre 2018, il giorno dopo l’approvazione del prestito, quando Siri è ormai diventato un suo debitore (senza garanzie), aggiungendo solo allora che «da Wikipedia emerge pena patteggiata per bancarotta fraudolenta». Si tratta della condanna di Siri che era stata già rivelata pubblicamente da L’Espresso.
Quindi le autorità di vigilanza scoprono un altro rischio ignorato. In aprile l’Aif segnala agli ispettori della Banca Centrale che «il signor Siri risulta indagato dalle Procure di Roma e Palermo per il reato di corruzione, con riferimento ad agevolazioni in favore di imprese considerate vicine all’imprenditore pregiudicato Vito Nicastri, che secondo gli investigatori avrebbe finanziato la latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro». È la famosa tangente di 30 mila euro che l’avvocato siciliano Paolo Arata, ex parlamentare di Forza Italia e presunto socio occulto di Nicastri, avrebbe promesso al sottosegretario della Lega in cambio di un emendamento, per far incassare soldi pubblici al “re dell’eolico” arrestato per mafia. Nella stessa lettera riservata, l’Anti-riciclaggio avverte di aver acquisito il contratto di acquisto del palazzo al centro del mutuo, da cui risulta che «il compratore non è Armando Siri, ma la figlia Giulia, studentessa di 24 anni». Che ha ricevuto i soldi dal padre «a titolo di liberalità». Il risultato, scrivono gli inquirenti, è che «il finanziamento non garantito è stato erogato a una persona diversa dall’intestataria dell’immobile, rendendo ancora più difficoltosa un’eventuale rivalsa della banca in caso di mancata restituzione del prestito». A quel punto il vicedirettore della Bac convoca «d’urgenza» la figlia di Siri, per farle firmare almeno una fideiussione. Ma all’incontro, fissato il primo giugno, la ragazza non si presenta, probabilmente «a causa dell’opposizione della madre», che non sembra aver gradito la scelta di usare la figlia come unica garante del mutuo di famiglia.
Nel verbale finale gli ispettori, dopo aver elencato queste e molte altre anomalie del prestito di Siri, esaminano la delibera del consiglio di amministrazione della Bac, che il 31 ottobre 2018 ha ratificato il finanziamento al politico italiano. Davanti ai superiori il manager Perotti informa che alla riunione decisiva con Siri, «tenutasi il 22 settembre 2018 a San Marino», erano presenti, oltre a lui, il vicedirettore, il responsabile di una filiale e una consulente esterna, che «ha organizzato l’incontro per il tramite della conoscenza con lo stesso direttore generale». Ed è proprio quella «consulente conosciuta da Perotti» ad aver «presentato», cioè segnalato alla banca, il senatore Siri. La mediatrice vive a Verona, la città del banchiere, e pubblica su Internet, oltre alle foto, le sue preferenze politiche: è una donna molto bella, bionda, occhi azzurri, è figlia di un industriale veronese e ha simpatie dichiarate per Matteo Salvini, Giorgia Meloni, vari consiglieri comunali dalla Lega a CasaPound e, guarda caso, Armando Siri. Il finanziamento al senatore risulta caldeggiato anche da un «esponente istituzionale» di cui la Bac non fa il nome: probabilmente è un politico di San Marino.
Il verbale degli ispettori documenta che solo di fronte al consiglio d’amministrazione il banchiere Perotti rivela la reale motivazione del prestito al senatore della Lega: «Il tema di principale interesse, considerata l’importante posizione del sottosegretario, è di avere degli scambi per creare una relazione di lunga durata».
Il direttore chiude l’intervento «senza riferire di aver già deliberato il finanziamento di 750 mila euro», una cifra superiore, secondo gli ispettori, al limite massimo dei suoi poteri personali. Ma il consiglio della Bac non obietta nulla, né sulla mancanza di garanzie né sulla motivazione politica del prestito: creare un rapporto duraturo all’insegna degli «scambi» di cortesie tra il senatore della Lega e la banca di San Marino.
Anche le verifiche della Bac sulla capacità di Siri di restituire il prestito si basano sul suo stipendio politico. L’esperto di economia della Lega ha infatti presentato una dichiarazione dei redditi da cui risulta che le sue attività di imprenditore, quelle sopravvissute alla bancarotta, gli rendono solo duemila euro al mese. Alla banca deve però restituire 8 mila euro al semestre per il primo triennio e ben 9.167 euro al mese per i successivi sette anni. Quindi Siri manda a San Marino la sua busta paga di senatore: tra stipendio e indennità parlamentare, 15 mila euro al mese. Che si aggiungono ad altri 5 mila euro previsti come affitti futuri della palazzina di Bresso. Gli inquirenti però osservano che la paga del parlamentare è legata all’effettiva durata della carica, che è sempre «incerta»: il politico può perdere la poltrona alle elezioni successive, magari anticipate. Mentre gli affitti della palazzina non spettano a lui, ma alla figlia. Conclusione degli ispettori: il mutuo di Siri è fuorilegge sotto tutti i profili.
Quindi arriva il bis. Tra maggio e giugno scorsi, l’Aif denuncia alla Banca Centrale «una ulteriore operazione di finanziamento accordata dalla Bac senza le normali garanzie e al di fuori delle procedure», che risulta «correlata» con il prestito a favore di Siri. Si tratta di un secondo mutuo «anomalo» di durata decennale: altri 600 mila euro, concessi anche in questo caso senza alcuna ipoteca. Il beneficiario è una società italiana, Tf Holding srl, che risulta controllata da due «baristi milanesi». Il legame con il senatore della Lega emerge dalle deposizioni dei dirigenti della Bac: quella società è stata «presentata» alla banca di San Marino da «Marco Luca Perini, capo segreteria del sottosegretario e senatore Armando Siri». Il braccio destro del politico leghista, annotano a questo punto gli ispettori, è «figlio di Policarpo Perini, titolare dell’agenzia immobiliare che ha gestito la vendita della palazzina di Bresso al senatore Siri». Il capo della sua segretaria risulta anche «acquirente in proprio di una mansarda nello stesso edificio, con rogito stipulato il 31 gennaio 2019 dal notaio De Martinis»: «medesimo giorno, medesimo notaio, medesimo venditore e medesima palazzina», evidenziano i controllori, dell’affare che Siri ha intestato alla figlia.
Il rapporto finale degli ispettori della Banca Centrale sottolinea un’ulteriore anomalia: il nome di Perini come «presentatore» della società non è stato mai registrato nelle carte e nei computer della Bac, anche se viene confermato dallo stesso direttore generale dell’istituto.
Per appoggiare il prestito ai fortunati baristi, il segretario politico di Siri è andato di persona nella banca di San Marino, il primo marzo 2019, lo stesso giorno del deposito della domanda di mutuo firmata dall’amministratore e azionista di maggioranza della Tf Holding, Fiore Turchiarulo. La società, che prende nome dalle sue iniziali, non offre il massimo delle garanzie: gli ispettori segnalano che «ha iniziato l’attività solo il 7 aprile 2018», ha un capitale sociale di 80 mila euro, si limita a incassare gli affitti da un bar che appartiene allo stesso titolare ed è proprietaria di un unico immobile, che però risulta già ipotecato a favore di una banca diversa (italiana), a garanzia di un altro mutuo di 300 mila euro. Nonostante questi problemi, la Bac di San Marino non chiede «nemmeno un’ipoteca di secondo grado» alla società presentata dal capo della segretaria di Siri. Si accontenta delle fideiussioni personali dei due soci del bar e di una loro familiare, che però non hanno altre proprietà. Vivono del loro lavoro: Turchiarulo ha un reddito annuo netto di 7.307 euro, il suo socio minore (con il 3 per cento), che fa il barista a tempo pieno, guadagna 1.300 euro al mese, versatigli dallo stesso patron della Tf Holding.
Nelle carte della banca, Turchiarulo è indicato come titolare del noto Marilyn Cafè di Milano, dove però esistono diversi locali omonimi. Una verifica nella sede mostra che quello giusto è il bar del mezzanino della metropolitana di Rogoredo. Vende panini, pizzette, brioche, cappuccini, gelati: un locale di pochi metri quadrati, sotto la stazione dei treni, in mezzo ai corridoi di accesso alla linea gialla del metrò. All’uscita della stazione, in via Cassinis, c’è un altro bar, più grande, fresco di ristrutturazione: si chiama Post Office, in omaggio al vecchio ufficio postale di Rogoredo, e appartiene sempre a Turchiarulo, che lo gestisce tramite un’omonima società controllata. La sua Tf Holding ha comprato quell’immobile nell’ottobre 2017 per 350 mila euro. Con un mutuo normale di una banca italiana, quella che ha ottenuto una regolare ipoteca per il debito residuo, quantificato dagli ispettori in 293 mila euro. È proprio il Post Office a pagare l’affitto alla neonata Tf. Offre hamburger con patatine, pizze e piatti caldi per la pausa pranzo, oltre a ottimi aperitivi, ma la sera, nonostante la bravura dei baristi, soffre i problemi di questa periferia: dietro il locale c’è il famigerato «bosco dell’eroina», la centrale dello spaccio per i disperati. Accanto, c’è una bella palazzina d’epoca, su due piani, tutta transennata: è l’ex “alberghetto di Rogoredo”.
La società di Turchiarulo ha chiesto il prestito a San Marino proprio per ristrutturare quell’immobile storico, vincolato dalla Soprintendenza. Sul cartello del cantiere c’è scritto «manutenzione ordinaria». I dipendenti spiegano che i lavori sono quasi finiti: ospiterà negozi, che apriranno «in autunno». Mentre i clienti augurano buona fortuna alla nuova impresa di Turchiarulo, gli ispettori si preoccupano della mancanza di garanzie reali per la banca di San Marino. E segnalano l’intera serie di anomalie del mutuo di 600 mila euro intermediato dal segretario di Siri: la durata decennale, il debito già esistente, l’ipoteca a favore di una banca concorrente. E una bruttissima storia di carte alterate, che non dipende certo dai due ignari baristi milanesi.
Il 12 aprile 2019 la filiale della Bac chiude la verifica sulla Tf Holding con un parere negativo, motivato dalla «mancanza di garanzie reali» e dall’insufficienza delle fideiussioni dei baristi, segnalando che hanno redditi limitati, versati proprio dalla società da finanziare, e «non hanno proprietà immobiliari personali». Il 16 aprile l’ufficio crediti conferma il verdetto: mutuo bocciato. La richiesta di prestito viene però trasmessa comunque ai vertici della banca «vista la conoscenza e la buona relazione della società con la direzione generale». Nel secondo parere il rapporto viene precisato: è una «relazione diretta» con un manager della Bac. Nella versione cartacea degli atti, gli ispettori trovano solo il secondo parere, che però «non riporta le frasi sulla conoscenza diretta del cliente da parte della direzione generale». Una cancellazione scoperta dopo uno scontro con la banca: gli ispettori sentono subito puzza di bruciato, ma non possono accedere all’archivio informatico completo. Quindi insistono per sbloccare i computer, dove trovano le versioni originali di entrambi i pareri negativi. Con la conferma del ruolo decisivo della «direzione generale», che è stato «eliminato nella versione cartacea, l’unica trasmessa alla Banca Centrale».
Il mutuo di 600 mila euro raccomandato dal segretario di Siri risulta approvato, proprio il 16 aprile 2019, dal vicedirettore generale della banca di San Marino. Senza spiegare perché ha deciso di ignorare i due pareri tecnici negativi. L’esame delle informative anti-riciclaggio documentano un’ulteriore «soppressione» di dati. Tra marzo e aprile, i computer della Bac registrano sei versioni delle informative, sempre più ricche di notizie sulla società che chiede il mutuo. L’unica frase scomparsa riguarda il direttore generale. Nella prima versione dell’informativa, il cliente Tf Holding risulta «presentato da Perotti Marco». Dalla seconda versione in poi, il dato viene cancellato. Nell’apposito spazio “cliente presentato”, si legge “no”.
Di fronte alla massa di anomalie dei due prestiti collegati a Siri, gli inquirenti dell’Aif comunicano alla Banca Centrale di aver «denunciato all’autorità giudiziaria un sospetto misfatto di amministrazione infedele», addebitabile al banchiere Perotti e in parte al suo vice, «con potenziale danno per il patrimonio della banca e per i risparmi della clientela».

I controllori di San Marino non sanno spiegarsi cosa ha spinto il braccio destro di un senatore della Lega a raccomandare al banchiere della Bac la società dei baristi milanesi. L’Espresso ha scoperto un legame politico: Turchiarulo è stato candidato nella lista «Italia nuova», fondata da Siri prima di entrare nella Lega di Salvini. Ma negli atti societari c’è anche una traccia di rapporti d’affari. La ditta di Turchiarulo ha comprato il bar del metrò di Rogoredo nel 2008, con la vecchia insegna “Marilyn pizza”, da una società chiamata Metropolitan coffee and food srl. Che pochi mesi dopo ha lasciato l’Italia e si è trasferita nel Delaware, un paradiso fiscale interno agli Stati Uniti, famoso per garantire l’anonimato. Almeno fino a quando era ancora italiana, però, la società del bar di Rogoredo era gestita da Armando Siri. Che ha rinunciato alla carica di «amministratore unico» nel 2007, proprio mentre falliva l’altra sua società italiana, quella che ha spinto lo stratega economico e fiscale della Lega a patteggiare una condanna, a sua dire ingiusta, per bancarotta fraudolenta.

http://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2019/07/25/news/un-milioneper-siri-1.337285

mercoledì 20 febbraio 2019

I file segreti di Soros: ecco come il miliardario "filantropo" manovra il mondo. - Lorenzi Giarelli

Rivoluzioni, diritti umani, finanza spregiudicata: la fondazione di George Soros è stata hackerata e migliaia di file segreti sono stati pubblicati svelando gli intrighi del ricchissimo imprenditore americano.


Il paradosso del miliardario di sinistra è noto e ritorna spesso nelle campagne elettorali della destra: chi propone progressismo sociale e uguaglianza economica o non è davvero di sinistra o non è davvero ricco. Una terza via, poco lusinghiera, aumenta l'imbarazzo della scelta: il magnate di turno potrebbe avere qualcosa da nascondere, da intendersi come interessi economici o politici in ballo.

Che i miliardari comandino il mondo non è soltanto roba da complottisti: accade da qualche millennio e nessuno se ne meraviglia. Ma vedersi sbattere nero su bianco le manovre di uno di questi magnati fa un certo effetto. Nelle scorse settimane la fondazione di George Soros, la Open Society, è stata hackerata e sono finiti online migliaia di documenti relativi alle attività gestite o finanziate dal miliardario di origini ungheresi. Si tratta di campagne elettorali, fondazioni umanitarie, associazioni per i diritti, società di ricerca che hanno ricevuto fondi per operare o indirizzare il consenso verso temi cari a George, vicino al Partito Democratico americano.

In questi 2.576 file pdf – consultabili su DCLeaks – è scritto che Soros avrebbe cercato di condizionare i risultati in ognuno degli Stati Europei in cui si è votato nel 2014. L'obiettivo di Soros era quello di contrastare i partiti anti-europeisti e favorire le politiche di integrazione interna ed esterna (relative all'ingresso dei migranti).

Si parla anche del coinvolgimento diretto di Soros nella gestione di rivolte sparse per il mondo, tra cui quella Ucraina, e di una pioggia di quattrini data ad associazioni in favore dell'aborto, dell'eutanasia e dei diritti LGBT. Ma c'è anche il sostegno diretto a candidati politici, come quello a Hillary Clinton - circa 8 milioni di euro - per scongiurare il pericolo Trump. Soros ci aveva già provato nel 2004, quando aveva fatto di tutto per non far vincere George W. Bush, arrivando a donare, secondo il Central for Responsive Politics, la bellezza di 23 milioni di dollari a 527 associazioni legate a John Kerry, allora condidato democratico.


La notizia dei file hackerati è di portata mondiale, eppure molti dei più grandi giornali, soprattutto americani, non ne hanno parlato.

Nell'home page del sito contenente i file hackerati si legge un riassunto ben poco lusinghiero: “Soros è l'architetto o il finanziatore di più o meno ogni rivoluzione o colpo di stato nel mondo negli ultimi 25 anni. Spilla sangue a milioni e milioni di persone solo per diventare più ricco lui”.

D'altra parte Soros è sempre stato un uomo controverso. Nato in Ungheria, di famiglia ebrea, è dovuto fuggire alla persecuzione nazista. Astuto, calcolatore, spregiudicato (soprattutto sulla pelle degli altri). Divenne celebre quando, nel 1992, riuscì a mandare sul lastrico la Banca d'Inghilterra e a far uscire dalla SME (il Sistema Monetario Europeo) sia la sterlina, sla lira italiana: il 16 settembre Soros vendette pacchi di sterline allo scoperto, approfittando del tentennamento della Banca inglese nell'aumentare i tassi di interesse e a far fluttuare il tasso di cambio. Mentre nella finanza di due Paesi regnava il caos, Soros andava a dormire con un miliardo netto di guadagno grazie alla sua speculazione.

Come si concilia, allora, questa spregiudicatezza finanziaria con l'animo da filantropo? Si concilia, dice lui, con il fatto che il lavoro da speculatore, se non lo facesse lui, lo farebbe qualcun altro, e che ciò che conta è cercare di cambiare il sistema. Che ci stia provando o meno non si può dire: intanto Soros si arricchisce, tanto che il suo patrimonio personale si aggira, a quanto pare, sui 25 miliardi di dollari.

Niente male, per un ex allievo di Karl Popper che predica una revisione del sistema. Nota a margine: i Soros Leaks hanno smascherato molti degli interessi del miliardario. Per molti sarà stata soltanto la conferma di ciò che si sospettava da anni, ma in ogni caso la notizia è di rilevanza mondiale, eppure in pochi ne hanno parlato. Baluardi del buon giornalismo come il New York Times o il Washington Post non ne hanno fatto menzione, persino il Guardian ne fa soltanto un rapido accenno in un editoriale. Gli interessi in campo, è evidente, pesano. Mentre Soros continua ad arricchirsi, nessuno si meraviglia più che la politica conti meno della finanza. Se credere ai leader politici non serve più, allora dobbiamo adattarci, e sperare che il miliardario di turno non abbia simpatie troppo diverse dalle nostre.

https://www.linkiesta.it/it/article/2016/09/26/i-file-segreti-di-soros-ecco-come-il-miliardario-filantropo-manovra-il/31887/?fbclid=IwAR3zL4wm8gCIH5BKLRmeauM8M1j6ugRe_qTnF22bTOr7SpGx_l7YeReB4OU

Leggi anche: 
https://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/17/usa-le-mail-hackerate-a-george-soros-finiscono-online-e-architetto-di-ogni-colpo-di-stato-degli-ultimi-25-anni/2979321/

e anche:
https://www.osservatoriogender.it/attacco-hacker-george-soros-tutti-documenti/

sabato 14 ottobre 2017

GIUSTIZIA ALL’ITALIANA – BONIFAZI, TESORIERE PD, INDAGHERA’ SUL MANCATO SUOCERO.. - Mattia Feltri per la Stampa



GIUSTIZIA ALL’ITALIANA – BONIFAZI, TESORIERE PD, INDAGHERA’ SUL MANCATO SUOCERO: IL PADRE DI MARIA ELENA BOSCHI, PIERLUIGI, NONCHE’ GENITORE DI UN SUO SOCIO DI STUDIO – E’ NELLA COMMISSIONE PARLAMENTARE SULLE BANCHE CHE DOVRA’ FARE LUCE SULLA BANCA ENTRURIA.

Sono un po' tutti cascati dal pero. Ma come, davvero? Davvero ve la siete presa? Eh, pare di sì, accidenti. Ecco che è successo: nella commissione d' inchiesta sulle banche è stato inserito Francesco Bonifazi.

Magari non tutti sanno chi è Bonifazi, quindi si produrrà una breve biografia prefessional-politico-sentimentale. Francesco Bonifazi, fiorentino, quarantuno anni, tesoriere del Partito democratico, è amico di vecchia data di Maria Elena Boschi con la quale lavorò, nel decennio scorso, allo studio dell' avvocato Tombari.

boschi bonifaziBOSCHI BONIFAZI
Maria Elena Boschi è figlia di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, ora fallita, e per il cui fallimento sono stati chiesti 576 milioni di risarcimento, quindici dei quali (quasi sedici) al medesimo Pier Luigi Boschi. Bonifazi a Firenze ha uno studio legale di cui è socio Emanuele Boschi, fratello di Maria Elena e pertanto figlio di Pier Luigi. Dunque, se vi foste persi per strada, Bonifazi indagherà sul padre del socio, nonché padre dell' amica e compagna di partito.

pier luigi boschiPIER LUIGI BOSCHI

Questa mirabolante serie di coincidenze ha leggermente contrariato (ma come, davvero? Davvero ve la siete presa?) i risparmiatori-investitori di Etruria che l' altra notte hanno affisso uno striscione sullo facciata dello studio di Bonifazi: «Babbo amico fratello, Etruria al macello». A questo punto a perdere le staffe è stato proprio Bonifazi, che ha annunciato querela perché, dice, non c' è nessun mistero, è tutto alla luce del sole. Ed è proprio questo il problema: alla luce del sole si vede meglio.





martedì 29 novembre 2016

"Banca al servizio della mafia", amministrazione giudiziaria a Paceco. - Romina Marceco

Risultati immagini per banche

L'Istituto Grammatico avrebbe concesso prestiti agevolati ai boss del Trapanese.

Una banca a disposizione degli esponenti della mafia trapanese. Nei posti di responsabilità sedevano personaggi che agevolarono, secondo le indagini della procura di Palermo e della Finanza, le attività di soggetti legati alla criminalità organizzata.

Su 1.600 soci della Banca di credito cooperativo di Paceco “Senatore Pietro Grammatico” in 357 hanno precedenti penali e tra questi in 11 per reati riconducibili al mondo di Cosa nostra. Adesso l’istituto di credito, su disposizione della sezione misure di prevenzione di Trapani, è passata ad un’amministrazione giudiziaria per sei mesi. Il primo caso, in Italia, in cui una banca viene sottoposta a un provvedimento del genere. Altri casi in Sicilia hanno colpito aziende come la Newport e la Italgas.

Ad essere agevolata dal mancato controllo sulle operazioni sarebbe stata soprattutto la famiglia mafiosa Coppola. Uno dei Coppola, Rocco, ha occupato la sedia di direttore di una delle cinque filiali della banca, quella di Trapani. Giuseppe Coppola, socio della banca, ottenne un prestito di 40 milioni di lire nel 1996. Eppure le indagini accertarono che lui e la moglie avevano messo a disposizione la loro casa per un summit mafioso. Un occhio, anzi tutti e due, sarebbero stati chiusi sulla concessione di mutui e sulla normativa antiriciclaggio. Ma ci sarebbe di più. Alla moglie del fratello di un collaboratore di giustizia, Francesco Milazzo, venne concesso di prelevare 120 mila euro dal suo conto senza segnalare l’operazione come “sospetta”. Questa la giustificazione del responsabile dell’Antiriciclaggio: «È prevalsa la conoscenza del carattere della cliente, sensibilmente suggestionata dalle notizie negative dei telegiornali e dei mercati».

Un altro cliente della banca, Pietro Leo, padre della attuale responsabile dell’area clienti dell’istituto di credito, sarebbe vicino ad ambienti mafiosi. Eppure, hanno ricostruito dagli accertamenti i finanzieri, ha ottenuto un mutuo di 237 mila euro con un enorme vantaggio: ne doveva restituire solo 135 mila in dieci anni.


http://palermo.repubblica.it/cronaca/2016/11/29/news/_banca_al_servizio_della_mafia_amministrazione_giudiziaria_a_paceco-153057190/

giovedì 6 ottobre 2016

Deutsche Bank accusata di collusione con Mps.

Deutsche Bank

Deutsche Bank accusata per collusione con Mps per aver nascosto le perdite dell’istituto italiano. L'istituto di credito tedesco nel 2013 avrebbe trasformato crediti in derivati.


Deutsche Bank, incriminata per collusione con Monte dei Paschi  per nascondere le perdite dell’istituto italiano, avrebbe occultato la transazione e decine di altre nei propri bilanci, secondo una verifica dell’istituto di vigilanza della Germania. E’ la ricostruzione fatta da Blomberg che ha potuto visionare una delle perizie.

I dirigenti di Deutsche Bank avrebbero trattato 103 operazioni simili, per un valore complessivo di 10,5 miliardi di euro (11,8 miliardi di dollari) per 30 clienti secondo la perizia, una copia della quale è stata vista da Bloomberg. L'istituto di credito tedesco avrebbe regolato la contabilizzazione di 37 di quei trade nel 2013, oltre a quello di Monte Paschi , trasformandoli da crediti, che erano stati tenuti fuori dai bilanci, in derivati.
L'uso diffuso di una transazione che è ora oggetto di un procedimento penale mette in evidenza l'appetito del creditore per la complessità in un momento in cui la banca stava espandendo il suo impero a reddito fisso. Mentre Deutsche Bank da allora ha tagliato le attività rischiose ed eliminato migliaia di posti di lavoro per rafforzare il capitale, enormi spese legali sono diventate una fonte di crescente preoccupazione per gli investitori, facendo crollare le azioni.
L'audit ha rilevato che, mentre Monte Paschi  è stato l'unico cliente che ha usato una transazione per fare un maquillage ai propri bilanci, Deutsche Bank non ha registrato correttamente operazioni simili con banche fatte dall’Italia all’Indonesia tra il 2008 e il 2010. Il rapporto ha anche detto che i vertici non hanno autorizzato correttamente l’operazione Monte Paschi , o rivisto adeguatamente la transazione dopo aver ricevuto un mandato di comparizione da parte della Federal Reserve Usa nel 2012.
Monte Paschi ha rivisto i conti nel 2013, dopo che queste transazioni sono venute alla luce, e ulteriormente rivisto i risultati nel 2015 su richiesta dell’autorità di vigilanza italiana. Deutsche Bank ha riaffermato che l’operazione non ha influenzato la sua redditività, e che la banca non ha rivisto gli utili prima del 2013, perché l'effetto complessivo non era significativo, ha sottolineato l'audit. Deutsche Bank alla fine di settembre del 2013 aveva un patrimonio di circa 1800 miliardi di euro.
"Deutsche Bank nel settembre 2013 ha riclassificato il modo in cui registrava sui libri contabili un certo numero di cosiddette operazioni pronti contro termine, riclassificazione che però non ha avuto alcun impatto sugli utili di Deutsche Bank", riportava la mail di Adrian Cox, portavoce della sede londinese della banca. "Il fatto che tali operazioni sono state trasformate in prestiti non comporta una connessione tra loro e con il caso particolare di Monte Paschi ."
Deutsche Bank e sei dirigenti, attuali ed ex, tra cui Michele Faissola (che ha curato i tassi globali a quel tempo) e Ivor Dunbar (ex co-responsabile del mercato dei capitali), sono stati incriminati da un tribunale di Milano il 1 ° ottobre 2008 per la transazione Monte Paschi  . Entrambi, insieme al co-ceo di Deutsche Bank Anshu Jain, hanno lasciato l'azienda.

Di recente la richiesta del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di 14 miliardi di dollari per risolvere un'indagine sulla vendita di titoli garantiti da mutui residenziali, che è stata respinta dalla banca, ha sollevato le domande tra alcuni investitori e clienti circa la capacità di Deutsche Bank di resistere ai costi legali in attesa del giudizio. Il ceo John Cryan ha inviato una nota al personale la scorsa settimana dicendo che la banca è più sicura che in qualsiasi momento negli ultimi due decenni.

“I mercati sono rimasti scossi dalla possibilità che altri incidenti del genere debbano ancora accadere”, ha spiegato un analista londinese di Kepler Cheuvreux ai clienti il 29 settembre. L'istituto di credito ha circa 29 miliardi di euro di asset cosiddetti di livello 3, che sono i più difficili da valutare: il loro valore di mercato di circa 16 miliardi di euro fa tremare i polsi.

La verifica è stata effettuata dalla società di revisione contabile Peters Schoenberger & Partner, ed è stata commissionata da BaFin, il regolatore finanziario mercati tedesco, nel gennaio 2014 per esaminare il ruolo di Deutsche Bank nell’operazione Monte Paschi  e come i manager avevano reagito alla successiva indagine interna. La banca italiana aveva utilizzato il credito per nascondere una perdita da trading in una precedente operazione condotta con Deutsche Bank, come riportato da Bloomberg nel 2013. La verifica si è conclusa nel dicembre 2014.
Secondo l’audit, “La gestione del rischio da parte di Deutsche Bank per quanto riguarda una complessa operazione di finanziamento strutturato come quella con Mps  era palesemente inadeguata e inefficace, dati i rischi reputazionali impliciti”.

Conosciuti internamente come pronti contro termine migliorati, i deal sono stati tenuti fuori bilancio da Deutsche Bank annullandoli attraverso passività separate create nelle transazioni, secondo i documenti esaminati da Bloomberg. Deutsche Bank ha venduto le garanzie dei prestiti che il mutuatario aveva fornito, come per esempio i titoli di Stato, creando un obbligo per la banca di restituire alla fine i bond. Nella contabilità originale il credito è stato compensato da tale obbligazione, facendola di fatto scomparire. Tutto ciò avrebbe dato al bilancio Deutsche Bank un aspetto più sano aumentando i coefficienti patrimoniali.
Secondo la perizia, l’operazione di maquillage ha permesso di non contabilizzare subito le perdite e di poter invece beneficiare della contabilità per competenza e quindi di contabilizzarle nel corso di un periodo di tempo più lungo.

La revisione ha detto che Fed controllo di accordo Monte Paschi  di Deutsche Bank alla fine del 2011 ha portato a un mandato di comparizione qualche mese più tardi. BaFin ha espresso preoccupazione per la Deutsche Bank di "cosmesi di bilancio" poco dopo.