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giovedì 11 aprile 2024

Alternative sostenibili alla plastica ottenute dai batteri ingegnerizzati.

Queste alternative sostenibili alla plastica sono più resistenti dell’acido polilattico usato di norma.

(Rinnovabili.it) – Gli sforzi per trovare alternative sostenibili alla plastica convenzionale stanno raggiungendo nuovi traguardi. Il lavoro di ingegneri e ricercatori impegnati nella ricerca di soluzioni innovative è in crescita. Restano però alcune sfide aperte. Ad esempio, trovare un materiale che possa offrire le stesse prestazioni delle plastiche tradizionali evitando i loro impatti ambientali.

Oggi sappiamo che l’acido polilattico (PLA) è una delle alternative più promettenti. Si può produrre da fonti vegetali e plasmare con una certa efficienza. Tuttavia, presenta limitazioni legate alla sua fragilità e alla sua degradabilità. Per superare queste difficoltà, i bioingegneri dell’Università di Kobe, in collaborazione con la Kaneka Corporation, hanno sviluppato una tecnica innovativa. Mescolando l’acido polilattico con un’altra bioplastica chiamata LAHB, sono riusciti a ottenere un materiale con proprietà desiderabili, come la biodegradabilità e una maggiore lavorabilità.

Una fabbrica di batteri per produrre plastica biodegradabile.

Il processo ha richiesto l’ingegnerizzazione di ceppi batterici per produrre il precursore del LAHB, manipolando il loro genoma per ottimizzare la produzione. I risultati, pubblicati sulla rivista ACS Sustainable Chemistry & Engineering, indicano la creazione di una “fabbrica di plastica batterica” che produce catene di LAHB in quantità elevate, utilizzando solo il glucosio come materia prima. Con la manipolazione genetica dei batteri, dicono gli scienziati, è possibile controllare la lunghezza delle catene e quindi le proprietà della plastica risultante.

Il materiale ottenuto, chiamato LAHB ad altissimo peso molecolare, è stato aggiunto all’acido polilattico per creare una plastica altamente trasparente, più modellabile e resistente agli urti rispetto all’acido polilattico puro. Inoltre, questa nuova plastica si biodegrada nell’acqua di mare entro una settimana. Potrebbe essere l’anello mancante tra la sostenibilità e la versatilità delle bioplastiche?

Il team che lo ha sviluppato ci crede e guarda al futuro con ambizione. Tra le ipotesi di lavoro future c’è l’uso della CO2 come materia prima per la sintesi di plastiche utili.

https://www.rinnovabili.it/economia-circolare/ecodesign/alternative-sostenibili-alla-plastica-ottenute-dai-batteri-ingegnerizzati/

domenica 13 agosto 2023

Progettati batteri in grado di rilevare il Dna del tumore: lo studio.

 

Sono come 'guardiani' invisibili, in grado di intercettare il nemico in maniera efficiente e veloce. A puntare su di loro è un gruppo di scienziati Usa, che ha ingegnerizzato dei batteri in grado di rilevare la presenza di Dna tumorale in un organismo vivo. Un'innovazione testata con risultati positivi nei topi che potrebbe aprire la strada a nuovi biosensori hi-tech capaci di identificare infezioni, tumori e altre malattie. I ricercatori dell'University of California San Diego e un gruppo di colleghi in Australia hanno descritto il passo avanti su 'Science'. Batteri come questi, in precedenza, erano stati progettati per svolgere varie funzioni diagnostiche e terapeutiche, ma non avevano la capacità di identificare specifiche sequenze di Dna e mutazioni al di fuori delle cellule. Il nuovo progetto - battezzato 'Catch' - nasce per fare proprio questo.

"Quando abbiamo iniziato 4 anni fa, non eravamo nemmeno sicuri che fosse possibile utilizzare i batteri come sensore per il Dna dei mammiferi", spiega il leader del team scientifico Jeff Hasty, professore della UC San Diego School of Biological Sciences e della Jacobs School of Engineering. "L'individuazione di tumori gastrointestinali e lesioni precancerose è un'interessante opportunità clinica a cui applicare questa invenzione". È noto che i tumori disperdono il loro Dna negli ambienti che li circondano. Molte tecnologie possono analizzare il Dna purificato in laboratorio, ma non sono in grado di rilevarlo lì dove viene rilasciato. I ricercatori hanno progettato e testato dei batteri con questa missione, utilizzando la tecnologia Crispr, dell'editing genetico.

"Molti batteri possono assorbire il Dna dal loro ambiente, un'abilità nota come competenza naturale", ha affermato Rob Cooper, co-autore dello studio, del Synthetic Biology Institute della UC San Diego. Hasty, Cooper e il medico australiano Dan Worthley hanno collaborato a un'applicazione di questa idea al cancro del colon-retto. Hanno iniziato a formulare la possibilità di ingegnerizzare i batteri che sono già prevalenti nel colon, come nuovi biosensori che potrebbero essere distribuiti all'interno dell'intestino per rilevare il Dna rilasciato da questo tumore.

Il team statunitense-australiano si è concentrato sull'Acinetobacter baylyi - un candidato con le qualità giuste - ingegnerizzandolo e testandolo come sensore per identificare il Dna di KRAS, un gene che è mutato in molti tipi di cancro e per discriminare tra la versione mutata e quella normale. "È stato incredibile quando ho visto al microscopio i batteri che avevano assorbito il Dna del tumore. I topi con tumori avevano sviluppato colonie batteriche verdi che avevano acquisito la capacità di crescere su piastre antibiotiche", ha affermato Wright.

I ricercatori stanno ora adattando la loro strategia di biosensori batterici a nuovi circuiti e diversi tipi di batteri per rilevare e trattare tumori e infezioni umane. In futuro, riflette Siddhartha Mukherjee, professore associato della Columbia University, non coinvolto nello studio, "le malattie saranno curate e prevenute da cellule, non da pillole. Un batterio vivente in grado di rilevare il Dna nell'intestino offre un'enorme opportunità" di schierare "una sentinella per cercare e distruggere il cancro gastrointestinale e molti altri".

La nuova invenzione richiede un ulteriore sviluppo e perfezionamento, precisano gli scienziati. Il team dell'UC San Diego sta continuando a ottimizzare questa strategia avanzata dei biosensori. "C'è un futuro in cui nessuno dovrà morire di cancro del colon-retto", auspica Worthley. "Speriamo che questo lavoro sia utile a bioingegneri, scienziati, e in futuro ai medici, nel perseguimento dell'obiettivo".

https://www.adnkronos.com/salute/progettati-batteri-in-grado-di-rilevare-il-dna-del-tumore-lo-studio_5i7zxwb2KqtCfY6FcoYlS2

lunedì 18 luglio 2022

Pronti i batteri-cyborg, modificati per combattere i tumori.

Rappresentazione artistica dei batteri-cyborg guidati da un campo magnetico nell'ambiente difficile che circonda i tumori (fonte: Akolpoglu et al., Sci. Adv. 8, eabo6163, 2022.

Combinano robotica e biologia per portare i farmaci solo dove servono.

Pronti i batteri-cyborg, che combinano robotica e biologia per combattere la battaglia contro i tumori: grazie agli elementi artificiali aggiunti, i comuni batteri Escherichia coli riescono ad attraversare l’ambiente ostile del tumore e a portare i farmaci esattamente dove servono.

Li hanno realizzati ricercatori dell’Istituto tedesco Max Planck, che hanno pubblicato il risultato sulla rivista Science Advances. Secondo gli autori dello studio, coordinato da Birgül Akolpoglu, la terapia basata su batteri-cyborg sarebbe minimamente invasiva per il paziente, indolore, e i farmaci svilupperebbero il loro effetto dove necessario e non all'interno dell'intero organismo.

I batteri Escherichia coli sono nuotatori veloci e versatili, in grado di navigare attraverso sostanze anche molto viscose.

Inoltre, sono attratti da ambienti con bassi livelli di ossigeno e alta acidità, due caratteristiche tipiche del tessuto tumorale. Queste capacità sono sfruttate da oltre un secolo nelle terapie anti-cancro basate sui batteri, che si basano sul fatto che i microrganismi, raggruppandosi e crescendo nel punto in cui si trova il tumore, attivano il sistema immunitario dei pazienti. Da tempo si cerca quindi di potenziare i batteri, ma aggiungere componenti artificiali non è un compito semplice, a causa delle complesse reazioni chimiche in gioco.

I ricercatori  sono riusciti a ottenere 86 batteri-cyborg su 100, aggiungendo sulla superficie esterna di E. coli due elementi diversi. Il primo è costituito da nanoliposomi, minuscole vescicole sferiche circondate da membrane che trasportano al loro interno i farmaci anti-cancro. Il secondo elemento sono nanoparticelle magnetiche di ossido di ferro, che servono a potenziare le capacità di movimento dei batteri e a facilitarne il controllo. Guidati da un campo magnetico, i microrganismi riescono a farsi strada fino al tumore e, una volta raggiunta la meta, un laser a infrarossi fa sciogliere i minuscoli contenitori dei farmaci, permettendo il rilascio del farmaco solo dove serve.

mercoledì 18 agosto 2021

I batteri amici dei coralli, li aiutano a sopravvivere al caldo.

I coralli soffrono gli effetti del riscaldamento globale (fonte: KAUST; Morgan Bennett Smith

 Funzionano come un cocktail di probiotici.

Somministrati come una sorta di 'cocktail di probiotici', i batteri possono aiutare i coralli a resistere al riscaldamento degli oceani, che sta distruggendo la simbiosi tra questi organismi e le alghe fotosintetiche, causandone lo sbiancamento e in alcuni casi la morte. Sulla rivista Science Advances una ricerca dell'Università King Abdullah per la scienza e la tecnologia (Kaust) dell'Arabia Saudita propone di manipolare il microbioma corallino per aumentarne la tolleranza allo stress.

Per testare questo approccio, gli studiosi coordinati da Erika Santoro hanno selezionato 6 ceppi di batteri benefici isolati dal corallo Mussismilia hispida, per poi inocularli in colture sperimentali del corallo stesso. Parallelamente hanno esposto i coralli a stress da calore, aumentando la temperatura a 30 gradi nel giro di 10 giorni prima di farli scendere a 26 gradi, monitorandone la salute e misurando la diversità dei batteri e i parametri metabolici, con e senza i probiotici e lo stress da calore.

Inizialmente non è stata notata alcuna differenza: con o senza probiotici infatti i coralli hanno reagito in modo simile al picco di temperatura, sbiancandosi in entrambi i casi. "Dopo aver fatto calare la temperatura, però, abbiamo avuto una piacevole sorpresa nei coralli trattati con i probiotici", rileva Santoro.

Il trattamento con i batteri ha infatti migliorato la ripresa dei coralli dopo lo stress da calore, aumentandone la sopravvivenza dal 60% al 100%. Una terapia che secondo gli studiosi può aiutare a mitigare l'effetto del disturbo da post stress da calore ed a ripristinare la situazione fisiologica e metabolica del corallo. "Usare un probiotico è un'arma efficace per aiutare i coralli ad affrontare lo stress da calore - conclude Santoro - ma dobbiamo anche considerare altri interventi, come la protezione e conservazione, una maggiore consapevolezza e soprattutto la riduzione delle emissioni di gas serra". 

ANSA

giovedì 12 ottobre 2017

Anche i batteri parlano tra loro attraverso il quorum sensing. - Nicola Di Fidio



Il meccanismo che molte cellule batteriche della stessa specie utilizzano per comunicare tra di loro prende il nome di quorum sensing. Si tratta di un fenomeno osservato nella quasi totalità dei batteri, sia Gram-negativi sia Gram-positivi.
Comunicazione significa letteralmente “mettere in comune” e l’evoluzione ha conferito questa importante abilità anche ai batteri (e ad alcuni miceti), i quali hanno sviluppato nel tempo dei particolari meccanismi molecolari, basati sulla regolazione della trascrizione di specifiche molecole segnale in funzione della densità cellulare, al fine di coordinare le proprie azioni ed incrementare le proprie possibilità di sopravvivenza.
Il primo esempio di quorum sensing fu osservato nella seconda metà degli anni ’60 studiando il batterio luminescente Vibrio fischeri (dal 2007 riclassificato nel genere Aliivibrio), il quale è in grado di emettere luce in vitro solo quando la sua concentrazione supera una certa soglia (Fig. 1). Il vantaggio di questo meccanismo consiste in un risparmio energetico, assicurando ai batteri di diventare luminescenti solo quando sono presenti in gran numero, impedendo loro di sprecare energia quando la popolazione è troppo piccola per emettere un segnale visibile.
Figura 1 – Piastra Petri del batterio Gram-negativo bioluminescente Vibrio Fischeri.
Il sistema alla base del quorum sensing è composto da due elementi chiave: il mediatore chimico o molecola segnale, rappresentata solitamente da un omoserina lattone acilato (AHL) per i batteri Gram-negativi e da un oligopeptide per i Gram-positivi, e l’attivatore trascrizionale. La molecola segnale è definita anche autoinduttore, il quale una volta captato da specifici ligandi presenti nel citoplasma o sulla membrana cellulare e, se presente in quantità pari o superiore ad un determinato valore soglia, si lega all’attivatore trascrizionale che, a sua volta, attiva o reprime una serie di geni determinando l’attivazione o lo spegnimento di vie metaboliche o processi cellulari specifici (Fig 2).
Figura 2 – Meccanismo molecolare alla base del quorum sensing.
Il risultato di questa “comunicazione batterica” può essere rappresentato da un incremento della virulenza (es. Staphilococcus aureus), dalla formazione di un biofilm (es. Pseudomonas aeruginosa), dalla sporulazione, ecc.
Nel caso del Vibrio fischeri ad esempio, quando il batterio vive libero nel plancton l’autoinduttore AHL è a bassa concentrazione e non induce la bioluminescenza; quando invece il batterio si trova nell’organo luminoso del calamaro gigante la sua densità cellulare è elevata, per cui l’attivatore trascrizionale raggiunge il DNA, si lega alla sequenza di riconoscimento (LuxBox) e attiva la trascrizione dei geni per l’enzima luciferasi che produce la bioluminescenza.
Inoltre, è ormai noto che la maggior parte delle specie batteriche, quando le condizioni lo permettono, modificano il proprio comportamento per fondare vere e proprie “città microbiche” sotto forma di biofilm. Queste prevedono delle “mura di fortificazione”, costituite da una matrice tridimensionale di zuccheri polimerici, e dei “canali di navigazione” per il trasporto di nutrienti e cataboliti.
Si definisce biofilm l’insieme di cellule batteriche adese e inglobate in una matrice polisaccaridica adesiva secreta dalle cellule stesse (Fig. 3). La comunicazione tra cellule è fondamentale al fine del mantenimento del biofilm, il quale assolve a diverse funzioni come quella di difesa da dilavamento, fagocitosi e antibiotici; di nicchia per l’accumulo di nutrienti; di scambio di materiale genico e non; e di favoreggiamento della crescita soprattutto negli ambienti naturali.
Figura 3 – Rappresentazione schematica del processo di formazione di un biofilm batterico.
In conclusione, quindi, la conoscenza dettagliata dei meccanismi molecolari del quorum sensing ed il controllo della formazione di biofilm batterici sono di fondamentale importanza sia nel settore sanitario, per la cura di patologie (fibrosi cistica, tubercolosi, ecc.), per il miglioramento degli antibiotici, per la sicurezza di dispositivi medici e protesi (es. cateteri, placche dentali), sia nel settore industriale, per impedire l’ostruzione e il deterioramento delle condutture degli impianti (es. acquedotti).

venerdì 18 novembre 2016

Scoperta italiana choc: "Dna 'alieno' in un malato di leucemia acuta su 2".

Risultati immagini per dna alieno

C'è del Dna 'alieno' nelle cellule cancerose di oltre la metà dei malati di leucemia mieloide acuta, una famiglia di tumori del sangue che solo in Italia fa registrare ogni anno 2 mila nuovi casi. La scoperta, di quelle probabilmente destinate a cambiare la storia della medicina oncoematologica, è tutta italiana - milanese - e appare oggi su 'Scientific Reports', rivista del gruppo Nature.

Uno studio che ha portato a conclusioni inedite e inaspettate"Scioccanti" a detta degli stessi autori che nelle cellule neoplastiche del 56% dei pazienti analizzati, 125 adulti in trattamento all'ospedale Niguarda di Milano, si sono trovati davanti a un sorprendente intruso: "Una sequenza nucleotidica che non ha corrispondenza in nessuna delle sequenze umane finora conosciute", spiega all'AdnKronos Salute Roberto Cairoli, direttore dell'Ematologia dell'Asst meneghina, coordinatore del lavoro insieme ad Alessandro Beghini del Dipartimento di scienze della salute dell'università Statale del capoluogo lombardo.

"Non ci ho dormito la notte - confessa lo scienziato - Abbiamo sottoposto il lavoro il 1 giugno e la pubblicazione è arrivata oggi, dopo verifiche approfonditissime da parte di referee internazionali". La sequenza misteriosa 'abita' nel gene che codifica per una proteina chiamata WNT10B, sovraespressa nella cellula leucemica. Per capire "da dove viene, come ci arriva e chi ce la porta" si aprono "diverse ipotesi ancora tutte da esplorare", precisa Cairoli. Ma una delle piste da seguire è quella microbiologica: un virus o un batterio, di certo un organismo non umano.

Cairoli ripercorre la storia che ha portato al sorprendente risultato. "In un primo momento - racconta l'ematologo, responsabile della parte clinica del lavoro, diretto da Beghini per la parte accademica - abbiamo visto che le cellule leucemiche sovraesprimevano WNT10B". Già in uno studio di 4 anni fa, sempre a firma delle 2 équipe milanesi, si era osservato che la proliferazione cellulare incontrollata, tipica dei meccanismi tumorali, presentava un'iper-espressione della stessa proteina. "E siccome dietro una proteina c'è sempre un gene che la codifica - ricorda Cairoli - ci siamo focalizzati sulla corrispondente porzione di Dna".

In altre parole "siamo andati a ritroso - sottolineano Cairoli e Beghini - chiedendoci chi impartisse l'ordine in grado di attivare un loop autoproliferativo senza interruzione. Grazie a una serie di tecniche di biologia molecolare molto avanzate, usate solo in pochi centri a livello mondiale, siamo quindi riusciti a identificare una variante dell'oncogene WNT10B e lo abbiamo studiato". Un'opera 'certosina' che si è avvalsa del "prezioso contributo" di Francesca Lazzaroni, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di scienze della salute dell'università degli Studi di Milano, e di Luca Del Giacco, ricercatore del Dipartimento di bioscienze dell'ateneo.

Ed ecco spuntare "l'intruso": nell'area 'interruttore', cioè quella che regola l'accensione o lo spegnimento del gene, è stata individuata una sequenza di nucleotidi (i 'mattoni' che compongono il Dna) che sicuramente non è di origine umana. "In questo - puntualizzano i ricercatori - ha giocato un ruolo fondamentale anche l'uso di sequenziatori automatici diciamo un po' 'vintage'. E' stata la nostra fortuna, perché i macchinari di ultima generazione avrebbero scartato le sequenze non umane in automatico senza neppure analizzarle".

"Il confronto con tutti i database delle sequenze nucleotidiche umane non ha prodotto alcuna corrispondenza con la sequenza misteriosa riscontrata - prosegue Cairoli - Abbiamo dunque a che fare con una sequenza aliena inserita in un Dna umano". La scoperta è "importantissima", assicurano gli scienziati, pur non nascondendo "perplessità e qualche paura" per il lavoro ciclopico che si apre: "Negli anni a venire - evidenziano - servirà tutta una serie di approfondimenti per risalire alla specie a cui appartiene questa sequenza nucleotidica". Un 'corpo estraneo' in cerca di identikit, un 'oggetto non identificato' al quale va dato un nome.

La fase di matching, ossia di confronto con tutte le sequenze non umane note, sarà molto complessa e "richiederà necessariamente la collaborazione con enti di ricerca internazionali che mettano a disposizione banche di Dna non umano molto vaste". Un'impresa ancora più cruciale considerando un'altra correlazione trovata dal team meneghino: la stessa alterazione genetica si riscontra anche in alcune cellule di cancro del seno. In questo senso "le evidenze sono al momento meno approfondite", ma si tratta di un input di ricerca che potrebbe delineare "novità importanti" anche per il 'big killer in rosa'.

Nel frattempo, tra le corsie di Niguarda e i corridoi della Statale le ricadute della scoperta sul trattamento della leucemia mieloide acuta sono ritenute "promettenti": si è infatti identificato all'interno del gene WNT10B delle cellule leucemiche "un nuovo target per lo sviluppo di nuove, future terapie intelligenti a bersaglio molecolare". Per Cairoli "il sogno è impedire 'il matrimonio con l'alieno', ovvero fare in modo che la cellula sana non subisca la perturbazione di questa sequenza nucleotidica anomala". Oppure, se le 'nozze' avvengono, "cercare di limitarne il più possibile i danni".

Lo studio 'made in Milano' è un esempio vincente di ricerca italiana pubblica e indipendente. "Un lavoro completamente autofinanziato - tengono a dire da ospedale e ateneo - possibile anche grazie al sostegno del volontariato": dell'Associazione malattie del sangue di Milano - fondata e presieduta dalla storica primaria ematologa di Niguarda Enrica Morra, "mamma scientifica" di Cairoli che ne ha ereditato il timone alla guida del reparto - e dell'associazione Cho-Como Hematology and Oncology, fondata dallo stesso Cairoli nei suoi anni di primario all'ospedale Valduce.

Le leucemie mieloidi acute sono malattie con una prevalenza di casi maschile e un picco di insorgenza dopo i 60 anni. "Considerandole in tutti i tipi, in ogni fascia d'età - stima Cairoli - possiamo dire che oggi curiamo bene circa il 40-45% dei pazienti. Questo però vuol dire che, a seconda dell'età e del tipo di leucemia, ci sono malati con una probabilità di cura del 90-95% e altri con appena il 10-15% di chance". E' soprattutto per questi ultimi che si auspicano ulteriori progressi, in una branca della medicina - l'oncoematologia - che ha potuto vantare negli ultimi decenni successi fra i più grandi e insospettabili in passato.
A far sperare in un impatto positivo del nuovo lavoro c'è infine un ultimo elemento: "I pazienti che presentano la sequenza genetica aliena - conclude Cairoli - non sono quelli a prognosi migliore, né quelli in cui il tumore è secondario a chemio o a radioterapia". Potrebbero essere loro, i malati più 'difficili', a beneficiare maggiormente di questa scoperta al 100% tricolore.

martedì 21 ottobre 2014

Le nuove case ecologiche a base di batteri - futuris.



Pubblicato il 20/ott/2014
"Qui ci sono dei batteri vivi - spiega Julián López Gómez, euronews - Che ci crediate o meno, presto potrebbero essere utilizzati per costruire gli edifici".

sabato 31 maggio 2014

Quei batteri così utili. - Francesca Petrera



SALUTE – I batteri non sono tutti “cattivi” e non sempre causano malattie. Forse non ci pensiamo spesso ma nel nostro organismo si trovano miliardi di microorganismi che quotidianamente convivono con le nostre cellule per tutta la vita. Un esempio è la flora batterica del nostro intestino che aiuta a proteggerci dalle infezioni esterne e “sorveglia” il corretto processo digestivo di assimilazione delle sostanze nutritive. Ci rendiamo conto di quanto sia importante quando inizia a funzionare male, magari in seguito a una terapia antibiotica che inevitabilmente ne riduce l’attività o quando siamo colpiti da un’infezione gastrointestinale. In realtà gran parte della nostra salute si basa sul delicato equilibrio tra le nostre cellule e questa miriade di “estranei” che colonizzano i nostri organi. Stiamo parlando di numeri molto alti: alcuni studi hanno dimostrato che nel corpo umano sano le cellule microbiche superano di dieci volte quelle umane. Ma come si sono evoluti questi batteri in rapporto con l’uomo? Una possibile risposta arriva da uno studio pubblicato su Nature Communications.
Il microbioma
Si chiama microbioma ed è lo studio del genoma di questi organismi colonizzatori, diventato così importante da essere oggetto di studio di numerosi progetti internazionali. Il microbioma è di fatto una manifestazione del nostro stato di benessere e gli scienziati stanno da diversi anni cercando di studiarlo in maniera più approfondita perché senza capire le interazioni tra i nostri genomi umani e quelli microbici, è impossibile ottenere un quadro completo della nostra biologia.
Oggi grazie alle importanti novità tecnologiche è possibile studiare nel dettaglio questi microorganismi, analizzando il loro genoma e cercando di capire come variano non solo in relazione allo stato di salute, ma anche rispetto all’età, lo stile di vita e l’origine di ciascuno di noi.
La medicina del ventunesimo secolo evolve la sua attenzione verso la prevenzione delle malattie, ma sono necessari nuovi e migliori modi di definire il nostro stato di salute. Il microbioma intestinale rappresenta molti aspetti legati alla nostra fisiologia normale. Ad esempio guida la sintesi di vitamine essenziali al metabolismo di ciò che ingeriamo e dei lipidi che produciamo, e modula anche l’attività del sistema immunitario, fondamentale per rispondere alle infezioni che arrivano dall’esterno. Ma non basta: i ricercatori hanno spiegato che il microbioma intestinale determina anche la suscettibilità a malattie come l’obesità, il diabete e le malattie infiammatoria intestinali.
Siamo cittadini o cacciatori?
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Un gruppo internazionale di ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, dell’Università di Bologna, dell’Istituto di tecnologie biomediche del CNR a Segrate, assieme a colleghi inglesi, americani e della Tanzania ha analizzato la variazione nella flora intestinale per capire come questi batteri possono essersi co-evoluti con l’uomo. In realtà già si sapeva che il microbioma intestinale delle popolazioni provenienti da Africa e Sud America è diverso da quello delle comunità occidentali industrializzate di Europa e Nord America. Questa diversità sembra riflettere un adattamento ai diversi stili di vita, ma fino ad oggi mancava una correlazione tra il microbioma e la condizione di cacciatore-raccoglitore, una condizione rurale importante se si considera che per il 95% della storia evolutiva l’uomo ha basato la propria esistenza sulle attività di caccia e agricoltura.
Per farlo sono stati analizzati i campioni di feci di 27 volontari appartenenti alle tribù Hadza di cacciatori-raccoglitori della Tanzania (provenienti dai campi Dedauko e Sengele , situati nell’ecosistema della Rift Valley intorno alle rive del lago Eyasi nel nord-ovest della Tanzania), con quelli di un gruppo di 16 italiani, analizzati come controllo rappresentativo della popolazione occidentale.
Sono stati scelti proprio gli Hadza perché sono considerati simili agli esseri umani del Paleolitico: tipicamente vivono in piccoli accampamenti mobili e sono a tutti gli effetti una delle ultime comunità al mondo di cacciatori-raccoglitori. La tipica dieta Hadza consiste di cibi selvatici che rientrano in cinque categorie principali: carne, miele, baobab, bacche e tuberi. In questa comunità non viene praticata la coltivazione o l’addomesticamento e gli Hadza ricavano praticamente meno del 5% del proprio introito calorico da prodotti agricoli. I risultati, appena pubblicati sulla rivista Nature Communications, dimostrano come il microbioma intestinale degli Hadza sia più vario rispetto a quello di controllo prelevato dalle popolazioni urbane italiane.
Tra uomini e donne Hadza è stata riscontrata una certa differenza nella composizione batterica della flora intestinale e questo probabilmente riflette quella che è la divisione sessuale del lavoro nella vita di tutti i giorni. Mentre le donne si occupano principalmente della cura dei bambini e restano al campo, nutrendosi di tuberi e piante, gli uomini spesso si allontanano e si cibano di miele e carne lontano dall’accampamento. Un esempio in questo senso è l’aumento di Treponema riscontrato nelle feci delle donne, il che faciliterebbe l’assorbimento dei nutrienti dalle fibre vegetali nella loro dieta. Nelle popolazioni occidentali il Treponema è considerato un patogeno opportunista: il T.pallidum è il batterio responsabile della sifilide e della framboesia, una malattia tropicale. Questo genere batterico è però in grado di idrolizzare efficientemente la cellulosa, aiutando la degradazione delle fibre.
I ricercatori ipotizzano che la diversità del microbioma trovata nelle zone rurali popolazioni africane e ora negli Hadza, sia la manifestazione dello stato ancestrale per gli esseri umani. L’adattamento allo stile di vita occidentale post-industrializzato coincide con una riduzione della biodiversità intestinale, causando una diminuzione della stabilità della stessa flora intestinale, con implicazioni sulla salute.
Gli studi del microbioma su larga scala
Quello di Nature Communications non è che l’ultimo articolo scientifico pubblicato sull’argomento. Ci sono diversi progetti internazionali che stanno studiando il microbioma umano, principalmente quello intestinale che contiene la più alta densità di batteri.
indexLo Human Microbiome Project (HMP) dei National Institutes of Health è un progetto di 5 anni partito nel 2008, con lo scopo di sviluppare strumenti e raccogliere dati per la comunità scientifica per studiare il ruolo di microbi sia in condizioni di salute che in quello di alcune malattie. In particolare il progetto riguarda lo studio delle comunità microbiche che abitano diverse aree del corpo umano: cavità nasali, cavità orale, pelle, tratto gastrointestinale e tratto urogenitale, per valutate il potenziale metabolico di queste comunità.
Va nella stessa direzione anche lo Human Microbiome & Metagenomics Project del Genome Institute della Washington University che sta applicando le nuove tecnologie di sequenziamento per analizzare i genomi dei milioni di microbi che vivono nel corpo umano e valutare come cambia il microbioma in relazione ai diversi stati di salute e malattia. Tra i diversi sotto-progetti c’è ad esempio quello per lo studio del Morbo di Crohn per capire come cambia la relazione tra le cellule dell’intestino e i batteri in questa condizione di infiammazione cronica del tratto gastrointestinale.
Questi sono solamente due esempi di quanto la comunità scientifica stia lavorando per conoscere meglio questo lato inesplorato del corpo umano che per anni è stato trascurato e considerato importante solo da un punto di vista “patologico”. Le moderne tecnologie hanno dimostrato che il microbioma ha un ruolo fondamentale anche in condizioni di salute e che il suo studio riguarda diversi campi, che vanno dalla nutrizione all’immunologia, dall’oncologia all’evoluzione, solo per citarne quattro.
Quando la dieta cambia il microbioma
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Bastano tre giorni per cambiare il microbioma del nostro intestino. Il microbioma intestinale è cioè in grado di rispondere rapidamente ai cambiamenti dell’alimentazione, venendoci incontro anche nelle situazioni in cui gli stili di vita alimentari sono piuttosto diversi e variabili nel corso della nostra vita. Almeno questo è quanto è stato scoperto all’inizio di quest’anno da Lawrence David, professore al Duke Institute for Genome Sciences and Policy e colleghi. La dieta a base animale aumenta il numero di microrganismi resistenti agli acidi biliari e causa invece una diminuzione dei livelli di Firmicutes che metabolizzano polisaccaridi vegetali alimentari. Le attività misurate riflettono sostanzialmente le differenze tra mammiferi, erbivori e carnivori, ma i dati dimostrano come microbi di origine alimentare causano una transitoria colonizzazione dell’intestino da parte di nuovi batteri, funghi e persino virus. Questo dovrebbe insegnarci a prestare maggiore attenzione a ciò che mangiamo e che i bruschi cambiamenti nella nostra dieta (magari per seguire la moda del momento) potrebbero essere la causa delle malattie tipiche delle società occidentali, come la malattia infiammatoria intestinale e l’obesità .