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domenica 23 giugno 2024

“Il cancro è scomparso” Malato terminale guarisce dal tumore grazie ad una nuova cura innovativa.

 


Paulo Peregrino, 61 anni, è stato detto che non c’era alcuna possibilità che il suo cancro migliorasse prima di sottoporsi al trattamento innovativo ad aprile. Domenica l’uomo è stato dimesso dall’Hospital das Clínicas della Facoltà di Medicina dell’Università di San Paolo (USP) in Brasile. A dare la notizia Radioagência Nacional. Il 61enne aveva ricevuto la terapia cellulare CAR-T , uno dei trattamenti antitumorali più avanzati sviluppati fino ad oggi.

Implica la rimozione e l’isolamento delle cellule immunitarie conosciute come linfociti T, o cellule T, dal corpo. Queste cellule sono responsabili della lotta contro i patogeni e dell’uccisione delle cellule infette. Una volta rimosse, le cellule vengono “riprogrammate” per diventare più efficaci nel prendere di mira e distruggere le cellule tumorali. Vengono quindi reinfusi nel corpo del paziente. L’intero processo può richiedere circa 60 giorni.

La terapia cellulare CAR-T è emersa negli Stati Uniti e ha iniziato a essere utilizzata sperimentalmente per il trattamento di pazienti con cancro terminale all’inizio degli anni 2010. È stato approvato dalla Food and Drug Administration nel 2017. Sebbene la terapia abbia dimostrato di essere efficace, è costosa, costando centinaia di migliaia di dollari per paziente, e attualmente può essere utilizzata solo per trattare alcuni tipi di cancro, come il linfoma, la leucemia e il mieloma.

Inoltre, al momento è disponibile solo in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Cina, Regno Unito e Australia. Peregrino è uno dei pochi brasiliani sottoposti al trattamento innovativo, con la disponibilità della terapia cellulare CAR-T molto limitata nel suo paese d’origine.

A Peregrino è stato diagnosticato un cancro alla prostata nel 2010 e poi un linfoma non Hodgkin circa dieci anni dopo, ha riferito l’agenzia di stampa A24. Aveva esaurito le opzioni a sua disposizione per il trattamento del suo linfoma, sottoponendosi a 45 sedute di chemioterapia in un periodo di cinque anni, oltre a un trapianto di midollo osseo. Poi è stato selezionato per sottoporsi alla terapia CAR-T e l’intero tumore è scomparso a seguito della terapia innovativa.

“Ora dobbiamo seguire il caso. Sappiamo che dopo un certo tempo la malattia può ripresentarsi. Si parla solo di una cura totale del cancro dopo cinque anni. Tuttavia, questo è già molto incoraggiante perché non c’era più alcun tipo di terapia per lui”, ha detto ad A24 il medico e ricercatore Vanderson Rocha della Facoltà di Medicina dell’USP, che ha partecipato al trattamento di Peregrino. Dei pochi pazienti che sono stati trattati con questa terapia in Brasile, il 60% ha visto scomparire il cancro in soli 30 giorni.

https://www.dcnews.it/2024/06/22/il-cancro-e-scomparso-malato-terminale-guarisce-dal-tumore-grazie-ad-una-nuova-cura-innovativa/?fbclid=IwZXh0bgNhZW0CMTAAAR0tuGFr2Xi18BUlVos_xZAzCUYTjqRsRU9udQJekRsFFDjAwhBrhr6r-e8_aem_9v2XhPhP2ghTOTmd0kbt6Q

giovedì 28 gennaio 2021

Scoperto il 'tallone d'Achille' delle cellule tumorali.

Cellule metastatiche di melanoma (fonte: Julio C. Valencia, NCI Center for Cancer Research, National Cancer Institute, NIH)

 

E' in una modifica a livello genetico, può essere usata come bersaglio per colpire il cancro.


Individuato il tallone d'Achille del cancro: si tratta di una modifica che subiscono a livello genetico le cellule tumorali, detta aneuploidia, che può essere usata come bersaglio per colpire il tumore attraverso alcune molecole.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Nature, si deve ad un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall'università di Tel Aviv, a cui hanno partecipato anche l'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) e l'Università Statale di Milano.

L'aneuploidia è un cambiamento nel numero delle copie di cromosomi: tutte le cellule umane hanno 46 cromosomi, mentre quelle tumorali ne hanno spesso di più o di meno. Finora però questo segno distintivo del cancro non era mai stato sfruttato come bersaglio di cura, perché mancavano gli strumenti per creare dei modelli in vitro di cellule aneuploidi.

"Abbiamo dimostrato che l'aneuploidia, che si trova nel 90% dei tumori solidi e nel 75% di quelli ematologici, può essere di per sé un bersaglio - chiarisce Stefano Santaguida, uno dei ricercatori - Non solo: abbiamo trovato delle molecole, gli inibitori del cosiddetto Sac (spindle assembly checkpoint), capaci di interferire con l'aneuploidia e sfruttarla per mirare e colpire le cellule cancerose".

I ricercatori dello Ieo hanno creato "delle librerie di linee cellulari aneuploidi - spiega Marica Ippolito, del gruppo di ricerca- e dimostrato un'alta dipendenza delle cellule aneuploidi dai geni coinvolti nel corretto funzionamento del Sac, il macchinario cellulare deputato alla divisione cellulare, attraverso cui ogni cellula genera due cellule figlie.

Inibendo il Sac, le cellule aneuploidi muoiono.

Si apre quindi la prospettiva di usare questi inibitori come terapia anticancro". I ricercatori stanno anche cercando di capire se l'aneuploidia c'entri in qualche modo con lo sviluppo di resistenze alla chemioterapia. 

https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/medicina/2021/01/28/scoperto-il-tallone-dachille-delle-cellule-tumorali_8341968d-42cd-44e4-8a9c-391ef30d541c.html

mercoledì 5 agosto 2020

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”. - Elisabetta Ambrosi

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”

"I boschi mettono in atto strategie di adattamento e resilienza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle, prevenendo mortalità, incendi e parassiti".
Assorbono le nostre emissioni, ci danno acqua, cibo e ristoro spirituale. Eppure le foreste, in epoca di cambiamento climatico, sono sottoposte a fortissimi stress e dunque sono anch’esse a rischio. Molto però si può fare, come spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e autore di La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Einaudi). “Non solo i boschi mettono in atto strategie di resilienza e resistenza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle ad adattarsi meglio, prevenendo mortalità, incendi e parassiti”.
Professore, perché senza boschi non potremmo vivere?
Le foreste ci danno il necessario per la sopravvivenza: un miliardo e mezzo di persone dipendono da loro per avere acqua e ottocento milioni per l’approvvigionamento diretto di cibo. Inoltre, in un’epoca di cambiamento climatico, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni. Infine, grazie alle foreste integre le popolazioni non sono in contatto con gli animali e si abbassa la possibilità dello spillover, il salto del virus da uomo e animale.
Qual è lo stato delle nostre foreste?
Ci sono due tendenze contrastanti. Da un lato c’è un aumento della superficie forestale spontaneo nei terreni abbandonati dall’agricoltura o nelle zone marginali non più economicamente utilizzate. Parliamo di 50.000 ettari ogni anno in Italia e 800.000 in Europa. Tuttavia, non sempre si tratta di una notizia positiva, perché è un fenomeno che andrebbe governato altrimenti si rischia, ad esempio, un aumento degli incendi. C’è però un altro lato oscuro.
Quale?
Molto spesso all’aumento delle nostre foreste corrisponde un aumento della delocalizzazione degli impatti, perché di terra e legna abbiamo bisogno. E così invece di deforestare a casa nostra, come si faceva fino al 1700, importiamo legno dal Sudamerica o dall’Indonesia, dove aumenta il prelievo e la conversione della foresta ad usi agricoli per produrre prodotti che servono ai paesi occidentali. Il fatto è che oggi è tutto legato e quindi se scompaiono le foreste in Sud America comunque noi ci andiamo di mezzo.
Come incide il cambiamento climatico sulle nostre foreste?
Nel mio libro parlo dei meccanismi incredibili di risposta e adattamento degli alberi a questi eventi estremi: il problema è se il numero e l’intensità di questi eventi cambiano troppo rapidamente, anche se dipende molto dai vari ecosistemi e dal tipo di foreste. Prendiamo gli incendi in Australia: ci sono sempre stati, ma bisogna vedere con che intensità e con che frequenza. Se prima una certa zona bruciava ogni cento anni le piante avevano il tempo di ricolonizzare ,se accade ogni venti si può superare la capacità di resilienza delle piante, rischiando un cambiamento di escosistema fatto di arbusti ed erbe. Un altro esempio: nel 2018 c’è stata una delle peggiori siccità degli ultimi due secoli in Europa centrale e ci sono state ampie zone di mortalità degli alberi a causa della siccità.
Esiste quindi “un punto di non ritorno” per i boschi?
Esistono vari studi sui cosiddetti “tipping point” per quanto riguarda la foreste tropicali. E non parliamo solo delle giungle piovose, ma anche delle foreste tropicali aride, dove basta una piccola differenza nella quantità di piogge per mandare in crisi l’ecosistema. Ma anche le foreste dell’Amazzonia sono un ecosistema fragile, perché il suolo è povero di sostanze nutritive e l’equilibrio si regge su un ciclo chiuso di materia organica prodotta dagli alberi stessi. Gli alberi sono enormi pompe d’acqua a ciclo chiuso che “sparano” il vapore in atmosfera in modo da formare la pioggia. Se questo ciclo viene disturbato, eliminando definitivamente anche solo un quarto dell’area disboscata, verrebbe a mancare l’acqua in atmosfera necessaria per formare la pioggia e la foreste potrebbe trasformarsi in savana.
Ma quali sono le capacità di reazione dei boschi?
Sono tantissime. Gli alberi sono cresciuti da sempre in un mondo che proponeva loro degli stress enormi, il fuoco è esistito sulla terra da quando ci sono gli alberi. Le piante hanno sempre convissuto con le fiamme, sviluppando strategie di resilienza, come la corteccia della quercia che è isolante. Nel libro racconto dei pini la cui pianta adulta muore, ma le cui pigne si aprono per il calore e spargono semi. Ma anche un castagno tagliato ricresce dal ceppo. Insomma nei modi di riprodursi gli alberi sono maestri molto più di noi, sanno ricrescere da una singola gemma.
Si fa molta retorica sulla “riforestazione” e sulla necessità di piantare alberi. È una cosa che serve?
È una cosa necessaria ma non sufficiente. Non basta piantare nuovi alberi, se voglio che l’albero agisca, cioè assorba carbonio, devo curarlo nei primi anni in cui è più fragile. Inoltre piantare monoculture in un ambiente di foresta mista biodiversa potrebbe essere negativo, come negativa potrebbe la piantumazione di alberi nelle zone polari perché rendendo più scuro il paesaggio potrebbero avere un effetto di riscaldamento. Pensi che ci sono in corso ricerche sulle modifiche genetiche, ad esempio della soia, che potrebbero schiarire le piante.
Come si gestiscono i boschi?
Sono scelte non facili, perché non sempre le cose che si devono fare sono omogenee, anzi ci possono essere obiettivi che richiedono strategie discordanti. Ad esempio la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione di legno su scala industriale. Io penso che il segreto per armonizzare queste funzione sia la pianificazione: si prende come riferimento una regione, una vallata o un comune e si decide quali foreste ti devono dare che cosa, tenendo conto che quando prendi lo devi fare a un rimo più lento della velocità di ricrescita e tenendo conto del cambiamento climatico. Ma come dicevo, oggi è quanto mai necessario avere uno sguardo globale, perché qualsiasi cosa facciamo ha delle conseguenze altrove. Se conserviamo troppo qui vuole dire che prendiamo troppo altrove, ma occorre evitare la sindrome “nimby” (not in my back yard).
Come scrive nel suo libro, in molti casi anche tagliare è utile e anche praticare incendi mirati.
A volte tagliare alcuni alberi significa fare la differenza e impedire a tutti di morire, il diradamento è una forma praticata di adattamento. Si usa come prevenzione dalla siccità oppure per prevenire attacchi di insetti. L’assorbimento delle emissioni delle piante, ripeto, dipende anche dalla salute delle piante. Anche per la protezione del dissesto può essere necessario intervenire quando la foresta attraversa fasi meno adatte a stabilizzare il suolo o trattenere massi e valanghe e anche qui, come dicevo prima, le strategie possono essere diverse. La Svizzera ha fatto enormi investimenti sulla manutenzione delle foreste, che se lasciate a se stesse potrebbero non essere compatibili con la protezione del dissesto.
Come l’Italia sta proteggendo i boschi e quanti fondi servirebbero?
A Giugno si è conclusa la consultazione pubblica della nuova Strategia Forestale Nazionale, il documento che sarà alla base della gestione forestale per i prossimi vent’anni nel nostro Paese. La Strategia contiene molte novità interessanti, incoraggiando la mappatura di tutte le foreste che ci proteggono dal dissesto e delle foreste “vetuste” a più alto contenuto di biodiversità, il ripristino dei boschi degradati o colpiti da eventi estremi, gli interventi di prevenzione antincendi boschivi e per l’aumento della resistenza delle foreste alle tempeste, incentivando l’acquisto da filiere corte e di prodotti legnosi certificati, prevedendo programmi formativi per tutti gli operatori boschivi, e chiedendo a chi redige i piani forestali di effettuare una analisi puntuale delle vulnerabilità climatiche e di progettare interventi di mitigazione e adattamento. Per ogni azione, la strategia indica a quali risorse si potrebbe attingere per realizzarla, nella speranza che questi “suggerimenti” servano per “indirizzare” al meglio la tipologia di interventi ammessi a ricevere finanziamenti dai fondi pubblici comunitari e nazionali.
Parliamo del verde urbano. Le foreste urbane sono il nostro futuro? Ma come mantenere ciò che abbiamo?
Le foreste urbane hanno senso e non solo per assorbire carbonio. Le città sono luoghi dove gli impatti del calore sono più forti, dove si sfogano gli eventi metereologici estremi perché il suolo è impermeabile, dove gli effetti dell’inquinamento sono massici. Gli alberi possono fare tanto, per prevenire i danni da alluvione, assorbire il particolato che genera infezioni respiratorie e rinfrescare le temperature. Molte città sono partite con piani di riforestazione, non solo Milano, ma anche Napoli. Nel decreto clima di sono 30 milioni da spendere su questo fronte, poi sono tantissime anche le iniziative dal basso. Noi abbiamo lanciato la fondazione Alberitalia.it, https://www.alberitalia.it per dare consulenza scientifica a chiunque abbia progetti di impianto, per capire come e dove ripiantumare.
Quali comportamenti singoli aiuterebbero?
Il primo problema è quello della deforestazione dei paesi tropicali con perdita della biodiversità ed effetti sul clima, quindi il primo punto è non importare, né mangiare, prodotti responsabili di questo fenomeno. Nel Green Deal ci saranno strategie per mettere un freno all’importazione di questi prodotti. Sul legno già oggi i consumatori possono cercare il bollino di gestione sostenibile.
Quanto la preoccupa personalmente il cambiamento climatico?
Io vedo tantissime soluzioni a portata di mano e non mi riferisco solo alle foreste ma
soprattutto ai trend incoraggianti sull’energia rinnovabile, sulla decarbonizzazione dei trasporti e sull’economia circolare. Molte aziende ormai hanno capito che la conservazione del capitale naturale è parte integrante del loro business, e non un accessorio a cui dedicare rimasugli di bilancio o azioni di CSR di mera facciata. Se poi dovesse arrivare, come credo, una tassa sul carbonio le cose miglioreranno ulteriormente, ma già oggi è tecnicamente possibile una alimentazione energetica al 100% da fonti rinnovabili, anche in Italia (www.thesolutionsproject.org) . Arrivarci non è più tanto una questione di convenienza economica quanto di volontà politica. E il grande movimento popolare dei giovani per la lotta al cambiamento climatico potrebbe fornire la spinta che finora è mancata.
https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/04/giorgio-vacchiano-non-basta-piantare-alberi-le-foreste-vanno-aiutate-a-resistere/5887082/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=fatto-for-future&utm_term=2020-08-04

giovedì 4 febbraio 2016

Il pericoloso declino del ceto medio. - Carlo Carboni




Nella letteratura socioeconomica internazionale si è ormai diffuso lo scenario di declino/crisi dei ceti medi nel Primo Mondo: un bel guaio dato che, da Aristotele in poi, si è condivisa l’idea che «la comunità politica migliore è formata dai cittadini delle classi medie. Il declino e poi l’aperta crisi hanno conosciuto tempi diversi tra i paesi. 
Negli Usa i mr. Smith sono già sottopressione dagli anni Novanta, tanto che Krugman, nel 2003, scrisse “Requiem per la gloriosa classe media”. 

Cosa era successo? Fondamentalmente che le nuove tecnologie labour saving della new economy avevano iniziato a erodere non solo i posti e le retribuzioni dei blue collar workers, ma anche quelli dei white collars durante il take off della nuova economia. 

Si trattava di classe medie inferiori, ma sempre ceto medio era. 

Al contrario di mr. Smith, il sig. Rossi d'Europa ha conosciuto un processo che è andato più a rilento e ha iniziato a barcollare seriamente (dopo più di un decennio rispetto agli Usa) con la crisi economico finanziaria, con la riduzione dei privilegi per chi dispone di una solida attività lavorativa Gli arretramenti dei welfare e le politiche austere di bilancio, più che la computerizzazione traversale dei settori occupazionali, sono cause delle penalizzazioni subite dai ceti medi europei e, in particolare, dallo strato inferiore di lavoro dipendente e indipendente. 
A esempio, in Italia il Sig Rossi ha visto diminuire l'occupazione dipendente, perdere e poi stagnare le retribuzioni e, infine, la pesante revisione delle pensioni. Anche il sig. Rossi microimprenditore (l'Italia ha un vasto ceto medio produttivo autonomo) è stato fortemente colpito dalla crisi dei consumi e del credito. A conti fatti, i ceti medi europei per ora hanno perso meno di quelli statunitensi, ma il futuro è più impervio visto il vantaggio tecnologico indiscusso degli Usa (occupazione in nuovi settori).

Il declino/crisi dei ceti medi procede pari passo non solo con l'automazione, con l'intelligenza artificiale o con la globalizzazione dei mercati del lavoro, ma anche con l'aumento delle disuguaglianze: più forte è la disuguaglianza, maggiore è la distanza tra upper middle class e la lower middle. Questo si è verificato negli States ben prima della crisi, a causa di un'intensa innovazione tecnologica (connessione e automazione) e un mercato del lavoro che risentiva del clima globale. In Europa la disuguaglianza ha invece conosciuto un aumento solo dal 2008: non ha solo ridotto di un 4-10% l'incidenza delle famiglie di ceto medio negli anni di crisi, ma ha rispecchiato dinamiche retributive stagnanti. In questo scenario, il crollo della percezione delle famiglie di appartenere ai ceti medi (meno 20-30%) dipinge uno stato d'animo peggiore di quel dovrebbe essere.

A dare pensiero, non c'è, dunque, solo la faglia della disuguaglianza socio-economica che spacca a metà i ceti medi, ma c'è anche una percezione di appartenenza - termometro dell'emotività sociale - che indica delusione. Ingannati nelle tradizionali speranze, i ceti medi di oggi hanno più difficoltà forse a sbarazzarsi del proprio glorioso fantasma che a risolvere il loro status di reale deprivazione. Quello che prima andava bene per quel lavoro routinario nella società tecnologica non va più bene: un guaio quasi esistenziale, irreversibile, che non puoi certo tamponare con gli 80 euro o con l'abolizione dell'IMU. Anche perché si aggiunge ad altri guai che il Sig. Rossi ha attraversato con il sistema creditizio prima nella veste di microimprenditore in sofferenza e, poi, come piccolo risparmiatore punito dalla privatizzazione del rischio bancario. Delusi dalla scuola e dall'università che a stento “fanno la differenza” sul mercato del lavoro per i propri figli, i ceti medi, soprattutto nell'Europa meridionale, si sono spinti fino a scaricare i loro umori in piccoli terremoti elettorali, dando nuova linfa all'astensione e all'indignazione, a un certo orientamento ambivalente che premia il radicalismo sia di esperienze come Podemos in Spagna e il M5S in Italia sia di partiti nazionalpopulisti.

Non c'è dubbio che, con la crisi, sia andata peggio agli strati già in precedenza a disagio o ai nuovi esclusi, i giovani. Sta di fatto che i ceti medi hanno le loro melanconiche sofferenze e le loro delusioni da deprivazione. Continuare a ingoiarle produrrebbe risentimento e comportamenti cinici. Sarebbe un guaio per tutti.

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-02-02/il-pericoloso-declino-ceto-medio-081908.shtml?uuid=AC5uytLC

mercoledì 7 ottobre 2015

10 modi per alcalinizzare il corpo: ecco come combattere le malattie.

10 modi per alcalinizzare il corpo: ecco come combattere le malattie

Alcalinizzare il corpo è fondamentale. L’acidità del corpo condiziona le malattie, l’eccesso di peso e molti altri problemi di salute. Fortunatamente, rendere il corpo più alcalino ( l’opposto di acido) è facile.
1 . Bevi acqua con limone al risveglio. Inizia la giornata con un grande bicchiere di acqua e versaci dentro il succo di un intero limone appena spremuto. Il limone ha il gusto acido ma, come abbiamo già visto, ha l’ effetto opposto sul corpo e sul metabolismo.
2 . Consuma abbondanti insalate verdi con succo di limone e olio d’oliva. Le insalate verdi sono tra le migliori fonti di minerali alcalini, come il calcio .
3 . Mangia un paio di mandorle non salate al giorno. Le mandorle sono ricche di minerali alcalini naturali come calcio e magnesio, che aiutano a bilanciare l’acidità e il bilanciamento di zucchero nel sangue .
4 . Bevi un frullato di latte di mandorle e frutti di bosco con aggiunta di integratori come la spirulina o la clorella. Preferisci il latte di mandorle a quello vaccino, poiché quest’ultimo è acidificante e fa male agli adulti.
5 . Svolgi esercizio fisico più che puoi o almeno un paio di volte alla settimana. Se non ti senti sportivo, buttati sulle camminate veloci che fanno bruciare molte calorie e velocizzano il metabolismo. Per di più sono adatte anche alle persone sovrappeso in quanto non comportano rischi per le articolazioni come la corsa stessa.
L’esercizio fisico inoltre aiuta ad eliminare i prodotti di scarto acidi  in modo che il corpo possa eliminarli meglio con la sudorazione.
6 . Impara a respirare nella maniera corretta. Respira profondamente, è fondamentale per la tua salute. Scopri i benefici del respiro consapevole, di sentire l’aria che entra e fuoriesce dal tuo corpo. Scegli un posto non inquinato se riesci.


7 . Evita assolutamente la carne perché è la maggiore fonte di acidificazione del corpo.
8 . Evita i dolci carichi di zucchero e le bevande altamente dolcificate come la soda. Lo zucchero (in particolare quello bianco) è un vero e proprio veleno per il nostro corpo ed inoltre facilita la proliferazione di alcune malattie. E’ un forte acidificante del corpo.
Lo sai che hai bisogno di più di 30 di bicchieri di acqua solo per neutralizzare l’acidità di una lattina di cola?
9 . Consuma più verdure nella tua dieta. E non sto parlando delle patate, a parte quelle dolci che sono una buona scelta. Asparagi, zucca, peperoni e altre verdure sono ottime scelte.
10 . Aggiungi germogli ed alghe nella tua dieta quotidiana. Sono estremamente alcalinizzanti e contengono molte sostanze nutrienti ed enzimi che doneranno al tuo corpo molta energia.

martedì 19 novembre 2013

La ricetta per salvare il cuore è il sugo.




Il trucco per un cuore sano e forte è nel sugo di pomodoro classico, con olio extravergine d'oliva e aromatizzato da cipolla o aglio. Una volta di più la scienza conferma i benefici per la salute delle preparazioni della dieta mediterranea. Lo studio è stato condotto dall'Università di Barcellona e pubblicato su Food Chemistry.

Grazie ai polifenoli - La salsa di pomodoro contiene circa quaranta sostanze antiossidanti (meglio note come polifenoli) che proteggono il cuore dallo stress ossidativo e quindi dall'invecchiamento.

Gli studiosi sottolineano: "Perché l'effetto "salva cuore" sia efficace, gli ingredienti che compongono il sugo vanno consumati insieme". Assunti separatamente, infatti, olio extravergine d'oliva, aglio, cipolla e pomodoro non darebbero gli stessi benefici, secondo i ricercatori spagnoli, che utilizzando una tecnica chiamata spettrometria di massa ad alta risoluzione hanno scoperto anche che il soffritto utilizzato come base per il sugo contiene oltre ai polifenoli anche altre sostanze antiossidanti, come i carotenoidi.


http://www.tgcom24.mediaset.it/salute/2013/notizia/la-ricetta-per-salvare-il-cuore-e-il-sugo_2010473.shtml