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lunedì 9 settembre 2024

Forse l'Universo aveva una “vita” prima del Big Bang. - Sandro Iannaccone

 

Lo suggerisce una teoria cosmologica, che potrebbe spiegare alcuni misteri della materia oscura.

Big Bang, ovvero la grande “esplosione” da cui ha avuto origine l’Universo così come lo conosciamo. Un momento del tempo, fissato a circa quattordici miliardi di anni fa, in cui tutta la materia e l’energia, condensati in un punto infinitamente piccolo di spazio – una cosiddetta singolarità – si sono improvvisamente “liberati” e rimescolati, dando vita a galassie, stelle, nebulose, buchi neri e (molto tempo dopo) anche al nostro pianeta, uno fra miliardi di altri. Questa, più o meno, è la storia che conosciamo tutti. Molto meno, invece, sappiamo di quello che c’era prima del Big Bang: addirittura, non sappiamo neanche se abbia senso parlare di un prima, dato che ignoriamo le leggi fisiche di quella singolarità. Un nuovo studio, recentemente pubblicato sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics, discute una teoria cosmologica che suggerisce che forse l’Universo ha avuto una “vita” precedente al Big Bang, fatta di fasi successive di contrazioni ed espansioni, come se fosse un enorme cuore pulsante nel vuoto. Se fosse confermata, tra l’altro, la teoria potrebbe avere implicazioni sul comportamento dei buchi neri e sulla natura della materia oscura, la misteriosa entità che rappresenta circa l’80% di tutta la materia presente nel cosmo e che ancora non siamo riusciti a osservare direttamente.

Esplosione o rimbalzo?

Come dicevamo, le teorie cosmologiche “tradizionali” suggeriscono che l’Universo sia “nato” da una singolarità e che durante i suoi primi momenti di vita abbia sperimentato una crescita rapidissima, la cosiddetta inflazione. Gli autori dello studio appena pubblicato, un’équipe di scienziati di diversi istituti di ricerca, tra cui l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), la Scuola superiore meridionale e il Dipartimento di fisica dell’Università di Napoli Federico II, hanno invece analizzato una teoria più esotica, nota come “non-singular matter bouncing cosmology”, ovvero, più o meno, cosmologia rimbalzante su materia non singolare, secondo la quale l’Universo, prima del Big Bang, attraversò una fase di contrazione che si concluse con un “rimbalzo”, un rinculo, dovuto alla crescente densità di materia, e che portò all’espansione accelerata che osserviamo ancora oggi. Tra l’altro, uno degli autori del lavoro, Salvatore Capozziello, si era già occupato qualche mese fa del problema della definizione del tempo all’epoca del Big Bang: in uno studio pubblicato sulla rivista Physical Rewiev D, condotto insieme a una collega del Dipartimento di filosofia dell’Università Statale di Milano, aveva sottolineato che “buchi neri e Big Bang sono situazioni estreme in cui si perde la cognizione della fisica così come la conosciamo e, con essa, la concezione del tempo come parametro che descrive normalmente passato, presente e futuro, il che è un cruccio da decenni, a cominciare da Einstein”.

Buchi neri primordiali e materia oscura.

Ma torniamo alla teoria del rimbalzo. In questo scenario, dicono ancora gli autori, l’Universo si sarebbe rimpicciolito fino a una dimensione più o meno 50 ordini di grandezza inferiore rispetto a quella che ha oggi, e dopo il “rimbalzo” sarebbero comparsi i fotoni (le particelle che compongono la luce) e le altre particelle elementari; l’elevatissima densità della materia, inoltre, avrebbe dato origine a piccoli buchi neri primordiali che rappresenterebbero, e qui si chiude il cerchio, dei possibili candidati per la misteriosa materia oscura. Intervistato da Live SciencePatrick Peter, direttore di ricerca al National centre for scientific research francese (Cnrs), non coinvolto nello studio, ha spiegato che effettivamente “i piccoli buchi neri primordiali possono essere stati prodotti durante i primi momenti di vita dell’Universo e, se non sono troppo piccoli, il loro decadimento dovuto alla radiazione di Hawking [un fenomeno ipotizzato dall’astrofisico Stephen Hawking secondo la quale i buchi neri, in virtù di effetti quantistici, potrebbero  effettivamente emettere una certa quantità di particelle ed energia, nda], non è sufficiente a farli scomparire, quindi dovrebbero esistere ancora adesso, da qualche parte. E potrebbero essere proprio la materia oscura, o almeno parte di essa.

Risultati interessanti, ma c’è da aspettare.

Secondo i calcoli degli autori del nuovo lavoro, i conti tornano: gli scienziati hanno infatti mostrato che alcune caratteristiche misurabili (e misurate) dell’Universo, tra cui la curvatura dello spazio-tempo e la radiazione cosmica di fondo (l’“eco” del Big Bang), sono effettivamente coerenti con le previsioni del loro modello, il che è certamente un’osservazione molto incoraggiante. Ma non basta: per corroborare ulteriormente la loro ipotesi, i ricercatori sperano di poterla confrontare con le osservazioni dei rivelatori di onde gravitazionali di nuova generazione. Il modello, infatti, consente anche di stimare alcune proprietà delle onde gravitazionali emesse dai buchi neri primordiali in formazione, e i rivelatori di nuova generazione potrebbero essere in grado di captare queste onde gravitazionali, consentendo di effettuare un confronto tra previsioni e osservazioni e confermare (o sconfessare) l’ipotesi che i buchi neri primordiali siano effettivamente fatti di materia oscura. Ma bisognerà aspettare, perché potrebbe volerci almeno un decennio prima che i nuovi rivelatori siano messi in funzione. “Questo lavoro – conclude Parker – è importante perché spiega in modo naturale come potrebbero essersi formati i piccoli buchi neri primordiali, e come potrebbero aver dato origine alla materia oscura, per di più in un contesto diverso da quello dell’inflazione cosmica. Esistono anche altre linee di ricerca che stanno approfondendo il comportamento di questi piccoli buchi neri attorno alle stelle, e che potranno suggerirci, nel prossimo futuro, come osservarli”.

https://www.wired.it/article/universo-vita-prima-big-bang-materia-oscura-studio/

domenica 17 marzo 2024

Origini della vita: risolto il mistero? Di retemedia

Gli scienziati dell'Università di Hiroshima in Giappone ritengono di aver risolto uno dei misteri più duraturi della scienza, ovvero come la vita sia scaturita dalla materia non vivente nel primo ciclo di sviluppo della Terra.

Gli scienziati dell’Università di Hiroshima in Giappone ritengono di aver risolto uno dei misteri più duraturi della scienza: come le origini della vita siano scaturite dalla materia non vivente nel primo ciclo di sviluppo della Terra, ha spiegato un rapporto del New Atlas.

Origini della vita: create protocellule autoreplicanti in laboratorio.

Nello studio sulle origini della vita pubblicato sulla rivista Nature Communications, i ricercatori hanno spiegato in dettaglio come hanno creato protocellule autoreplicanti in laboratorio. Gli esperti hanno ritenuto che queste abbiano dato peso all’ipotesi dell’evoluzione chimica, che è  stata una proposta lanciata per la prima volta negli anni ’20 .

 “Le origini della vita hanno avuto inizio con la formazione di macromolecole da piccole semplici molecole, e quelle macromolecole hanno formato assemblaggi molecolari che potrebbero proliferare”, ha spiegato Muneyuki Matsuo, primo autore dello studio, in un comunicato stampa.

I ricercatori di Hiroshima si sono proposti specificamente di indagare sull’origine degli assemblaggi molecolari che proliferano da piccole molecole, poiché questi sono rimasti un mistero sin da quando è stato ipotizzato per la prima volta lo scenario dell‘evoluzione chimica. Nel comunicato stampa dell’Università di Hiroshima, Matsuo li ha definiti: “L’anello mancante tra chimica e biologia nell’origine della vita“.

L’ascendenza comune dell’umanità risale alle sue origini molecolari.

Per il loro studio, i ricercatori hanno mirato a ricreare queste protocelle proliferanti in laboratorio. In primo luogo, hanno creato una nuova piccola molecola a partire da derivati ​​di amminoacidi che si sarebbero autoassemblati in cellule primitive. Dopodiché è stata aggiunta in acqua a temperatura ambiente a pressione atmosferica.

I ricercatori hanno scoperto che le molecole erano disposte in peptidi in cui successivamente si sono formate spontaneamente goccioline. Aggiungendo più aminoacidi, gli scienziati hanno osservato che queste goccioline crescevano di dimensioni e poi si dividevano: un processo paragonabile all’autoriproduzione delle cellule biologiche.

“Costruendo goccioline di peptidi che proliferano nutrendosi di nuovi derivati ​​di amminoacidi, abbiamo chiarito sperimentalmente il mistero di lunga data di come gli antenati prebiotici fossero in grado di proliferare e sopravvivere concentrando selettivamente sostanze chimiche prebiotiche”, ha aggiunto Matsuo, riguardo lo studio sulle origini della vita.

“I nostri risultati hanno indicato che le goccioline sono diventate aggregati molecolari evolutivi, uno dei quali è diventato il nostro antenato comuneInoltre, durante l’esperimento, alcune delle goccioline hanno anche concentrato acidi nucleici, che trasportano informazioni genetiche”, ha specificato l’esperto.

Sebbene i risultati non abbiano chiarito in modo definitivo come sono sviluppate le origini della vita sulla Terra primordiale,  hanno dato una certa rilevanza all’ipotesi dell’evoluzione chimica e hanno indicato ulteriori strade di ricerca per la comunità scientifica. Gli scienziati hanno anche testato l’ipotesi dell’RNA, che afferma che le molecole di RNA sono state le prime molecole autoreplicanti che hanno portato alla vita sulla Terra.

La teoria  della replicazione dell”RNA è stata verificata di recente, sempre in laboratorio, Gerald Joyce, presidente di Salk e uno degli autori del nuovo studio, ha dichiarato:“Questa è la strada che spiega come la vita possa nascere in un laboratorio o, in linea di principio, in qualsiasi parte dell’Universo”.

Origini della vita: sono necessari altri studi.

Altre vie di ricerca, nel frattempo, hanno suggerito che gli asteroidi potrebbero aver portato i componenti necessari per la vita sulla Terra: i ricercatori del Southwest Research Institute con sede negli Stati Uniti hanno affermato che le loro scoperte hanno indicato che asteroidi delle dimensioni di una città hanno colpito la Terra molto più frequentemente di quanto pensato in precedenza, dando peso a quella particolare ipotesi.

Successivamente, i ricercatori di Hiroshima punteranno a continuare le loro indagini sugli amminoacidi per acquisire maggiori conoscenze su come le origini della vita abbiano potuto esordire nel nostro pianeta natale.

(Foto Pixabay)

https://reccom.org/origini-della-vita-risolto-il-mistero/

sabato 16 marzo 2024

L’esperimento in laboratorio spiega l’origine della vita sulla Terra. - Valerio Novara

 

Gli scienziati sono riusciti a sintetizzare in laboratorio un composto chimico essenziale per gli esseri viventi. Ecco cosa c’è da sapere.

Gli scienziati sono riusciti a sintetizzare in laboratorio un composto chimico essenziale per gli esseri viventi, in condizioni che avrebbero potuto verificarsi sulla Terra primordiale. Lo studio è stato condotto dai ricercatori dell’UCL. Il composto, la panteteina, è il frammento attivo del coenzima A. È importante per il metabolismo, i processi chimici che mantengono la vita. Studi precedenti non erano riusciti a sintetizzare la pantetina, suggerendo che fosse assente all’origine della vita sulla Terra. Nel nuovo studio, gli scienziati hanno creato il composto in acqua a temperatura ambiente utilizzando molecole formate da acido cianidrico, che probabilmente era abbondante sulla Terra primordiale.

I risultati dello studio.

Per gli scienziati la pantetina potrebbe aver aiutato le reazioni chimiche che hanno portato ai primi organismi viventi, circa 4 miliardi di anni fa. Questo studio mette in discussione l’opinione secondo la quale la vita avrebbe avuto origine nell’acqua. Molecole ricche di energia chiamate aminonitrili avrebbero guidato le reazioni che hanno poi prodotto la pantetina. Sono chimicamente correlate agli amminoacidi, gli elementi costitutivi delle proteine ​​e della vita.

Le basi della vita sulla Terra.

Il professor Powner, autore dello studio, ha dichiarato: “È un’ulteriore prova che le strutture di base della biologia, le molecole primarie su cui si basa la biologia, si sono formate attraverso la chimica del nitrile. Il nostro lavoro futuro esaminerà come queste molecole si sono unite, come la chimica della pantetina dialoga con l’RNA, dei peptidi e dei lipidi, ad esempio, per fornire una chimica che le singole classi di molecole non potrebbero fornire isolatamente”.

https://www.passioneastronomia.it/lesperimento-in-laboratorio-spiega-lorigine-della-vita-sulla-terra/

venerdì 2 febbraio 2024

Trovati fossili di eucarioti di 1,6 miliardi di anni. - Arianna Guastella

I ricercatori hanno scoperto i più antichi fossili eucariotici (o eucarioti) multicellulari, datati 1,63 miliardi di anni, nel nord della Cina, rivelando le prime forme di vita complesse e suggerendo una precedente emergenza della multicellularità.

I fossili multicellulari provengono dalla formazione Chuanlinggou del tardo Paleoproterozoico. Credito: Lanyun Miao

In uno studio, i ricercatori guidati dal Prof. Maoyan Zhu dell’Istituto di geologia e paleontologia di Nanchino dell’Accademia cinese delle scienze, hanno riferito la loro recente scoperta di fossili multicellulari risalenti a 1,63 miliardi di anni fa provenienti dalla Cina settentrionale.

Questi microfossili squisitamente conservati sono attualmente considerati la più antica documentazione di eucarioti multicellulari. Questo studio rappresenta un altro passo avanti dopo la precedente scoperta da parte dei ricercatori di fossili eucariotici di dimensioni decimetriche nell’area di Yanshan, nel nord della Cina, e respinge l’emergere della multicellularità negli eucarioti di circa 70 milioni di anni.

Tutta la vita complessa sulla Terra, compresi diversi animali, piante terrestri, funghi macroscopici e alghe marine, sono eucarioti multicellulari. La multicellularità è fondamentale affinché gli eucarioti acquisiscano complessità organismica e grandi dimensioni, ed è spesso considerata come una transizione importante nella storia della vita sulla Terra. Tuttavia, gli scienziati non sono sicuri di quando gli eucarioti abbiano sviluppato questa innovazione.

I reperti fossili che offrono prove convincenti hanno mostrato che gli eucarioti con multicellularità semplice, come alghe rosse e verdi e presunti funghi, apparvero già 1,05 miliardi di anni fa

I fossili multicellulari risalgono al tardo Paleoproterozoico.

“I fossili multicellulari appena scoperti provengono dalla formazione Chuanlinggou del tardo Paleoproterozoico, che ha circa 1.635 milioni di anni. Sono filamenti non ramificati e uniseriati composti da due a più di 20 grandi cellule cilindriche o a forma di botte con diametri di 20–194 μm e lunghezze incomplete fino a 860 μm. Questi filamenti mostrano un certo grado di complessità in base alla loro variazione morfologica”, ha affermato Lanyun Miao, uno dei ricercatori.

I filamenti sono costanti, oppure rastremati per tutta la loro lunghezza o rastremati solo ad un’estremità. Le analisi morfometriche hanno dimostrato la loro continuità morfologica, suggerendo che rappresentano una singola specie biologica piuttosto che specie distinte. I fossili sono stati chiamati Qingshania magnifica, una forma taxon con morfologia e dimensioni simili, e sono stati descritti come provenienti dalla Formazione Chuanlinggou.

Una caratteristica particolarmente importante della Qingshania è la struttura intracellulare rotonda (diametro 15–20 μm) in alcune cellule. Queste strutture sono paragonabili alle spore asessuali conosciute in molte alghe eucariotiche, indicando che Qingshania probabilmente si riproduceva tramite spore.

Caratteristiche distintive degli eucarioti.

Nella vita moderna, i filamenti uniseriati sono comuni sia nei procarioti (batteri e archaea) che negli eucarioti. La combinazione di grandi dimensioni cellulari, ampia gamma di diametri dei filamenti, variazione morfologica e spore intracellulari ha dimostrato l’affinità eucariotica di Qingshania, poiché nessun procarioto conosciuto è così complesso. I procarioti filamentosi sono generalmente molto piccoli, circa 1–3 μm di diametro, e sono distribuiti in più di 147 generi di 12 phyla. Alcuni cianobatteri e solfobatteri possono raggiungere grandi dimensioni, fino a 200 μm di spessore, ma questi grandi procarioti sono molto semplici nella morfologia, con cellule a forma di disco, e non si riproducono tramite spore.

I migliori analoghi moderni sono alcune alghe verdi, sebbene i filamenti siano presenti anche in altri gruppi di alghe eucariotiche (ad esempio alghe rosse, alghe brune, alghe gialle, cariofite, ecc.), nonché nei funghi e negli oomiceti.

“Questo indica che Qingshania molto probabilmente era un’alga fotosintetica, probabilmente appartenente al gruppo staminale estinto degli Archaeplastidi (un gruppo importante costituito da alghe rosse, alghe verdi e piante terrestri, nonché glaucofite), sebbene la sua esatta affinità non sia ancora chiara” ha spiegato Miao.

Fossile di alga eucariotica

I fossili eucariotici più antichi.

I ricercatori hanno condotto un’indagine spettroscopica Raman per testare l’affinità eucariotica di Qingshania dal punto di vista della composizione chimica, utilizzando tre taxa di cianobatteri per il confronto. Gli spettri Raman hanno rivelato due ampi picchi caratteristici della materia carboniosa disordinata. Inoltre, le temperature di sepoltura stimate utilizzando i parametri Raman variavano da 205 a 250 °C, indicando un basso grado di metamorfismo. L’analisi delle componenti principali degli spettri Raman ha classificato Qingshania e i taxa di cianobatteri in due cluster distinti, indicando che la materia carboniosa di Qingshania è diversa da quella dei fossili di cianobatteri, supportando ulteriormente l’affinità eucariotica di Qingshania. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Science Advances.

Attualmente, i fossili eucariotici più antichi e inequivocabili sono forme unicellulari provenienti dai sedimenti del tardo Paleoproterozoico (~ 1,65 miliardi di anni fa) nella Cina settentrionale e nell’Australia settentrionale. Qingshania è apparso  solo leggermente più tardi di queste forme unicellulari, indicando che gli eucarioti acquisirono la multicellularità semplice molto presto nella loro storia evolutiva.

Le alghe eucariotiche (Archaeplastidi) sono sorte dopo l’ultimo antenato comune eucariotico (LECA), la scoperta di Qingshania, se veramente di natura algale, supporta ulteriormente la comparsa precoce di LECA nel tardo Paleoproterozoico, il che è coerente con molti studi sull’orologio molecolare, piuttosto che nel tardo Mesoproterozoico di circa 1 miliardo di anni fa.

https://reccom.org/trovati-fossili-eucariotici-di-16-miliardi-di-anni/

martedì 30 gennaio 2024

Fiore a sei petali oppure: Fiore della vita

Di David Brewster - originally posted to Flickr as Squircled Pilaster Capital, 400-700 AD, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=9697143

 Il fiore a sei petali[1][2] o esafoglio (detto anche: fiore della vita, hexafoil, rosa dei pastori, rosa carolingia[3], rosa celtica, stella-fiore, stella rosetta, fiore delle Alpi, stella delle Alpi, sole delle Alpi o degli Appennini), è una figura geometrica avente simmetria esagonale.

Il "fiore della Vita" è un simbolo geometrico che si può ottenere intersecando solo 7 cerchi (un'unità di senso compiuto), come nella tradizione cristiana simboleggiando i giorni della Creazione. Il nome "fiore della vita" del motivo geometrico in cui si possono inscrivere alcuni fiori a sei petali è moderno, diffuso da pubblicazioni del movimento New Age e comunemente attribuito a Drunvalo Melchizedek che iniziò a usarlo nei seminari che anticiparono la pubblicazione del suo libro The Ancient Secret of the Flower of Life (1999)[4][5][6], ma è un errore pensare che tutti i fiori a sei petali siano uguali. Alcuni come quelli del pavimento a mosaico della Domus dell'Ortaglia hanno un cerchio interno, a cui sono attaccati i sei petali, che li rendono diversi da altri fiori a sei petali che possono invece essere inscritti in una griglia di cerchi sovrapposti. Inoltre, anche se alcuni fiori a sei petali possono essere inscritti nel "Fiore della vita", esistono nei reperti archeologici romani e preromani fiori con numeri differenti di petali come quelli a otto petali del mosaico con fascia a girali di Libarna[7] che lasciano chiaramente intendere che la griglia di cerchi sovrapposti modernamente chiamata "Fiore della vita" non è l'origine prima di queste decorazioni.

Nella decorazione architettonica e plastica è nota la presenza di questa figura simbolica in molte parti del mondo, e in area Italica sin dall'VIII secolo a.C.; successivamente ha avuto larga diffusione dal Medioevo fino ai giorni nostri.


Costruzione del Fiore della Vita con 7 cerchi


domenica 21 maggio 2023

VIVIAMO IN UN “UNIVERSO VIVO” O IN UN “UNIVERSO MORTO”?

 

Viviamo in un Universo vivo o in un Universo morto? Fino a poco tempo fa i fisici hanno trattato l’Universo come qualcosa di morto, inanimato, composto da semplici minerali e gas che si muovevano da una parte all’altra senza uno scopo. Questo modello di Universo derubrica la “Vita” quasi a un “incidente di percorso”, qualcosa di insignificante, che poteva esserci o non esserci senza fare alcuna differenza. Nei modelli dell’Universo del secolo scorso il problema “Vita” non era minimamente contemplato.

Ora diventa sempre più evidente che in questa vecchia concezione dell’Universo è stato commesso un errore grossolano. Nel maggio 2001, due ricercatori dell’università “Federico II” di Napoli, Bruno D’Argegno, docente di geologia e Giuseppe Geraci, docente di biologia molecolare, annunciarono che in alcune meteoriti vecchie di 4,5 miliardi di anni erano presenti tracce di organismi che possono essere batteri o i loro “cugini”, gli “archea”. Consideriamo quanti pochi asteroidi e comete siamo stati in grado di analizzare, e da quanto poco tempo lo facciamo. Nonostante questo, abbiamo trovato molte tracce di batteri. Se paragoniamo questo con i miliardi di miliardi di meteore e comete che fluttuano nello spazio, è evidente che l’Universo brulica di batteri che usano le comete come una sorta di “autostop”.

Tutto questo porta molti famosissimi ricercatori a pensare che nell’Universo la Vita è tutt’altro che un “incidente” avvenuto solo sulla Terra. Nell’Universo la Vita è la regola. Quindi non si può parlare più di un Universo “morto”, ma di un Universo “vivo”. Ma se l’Universo è vivo, allora tutti i vecchi modelli di Universo sono sbagliati, o come minimo, parziali. Questo perché in questi vecchi modelli, l’elemento “Vita” non è mai stato preso in considerazione come “fondamentale”.

Prendiamo ad esempio la domanda: “Come si diffonde la vita nell’Universo”? Secondo la fisica attuale, nulla si può spostare a velocità maggiore della luce. Ma questo vorrebbe dire che se volessimo percorrere da capo a capo il nostro universo al 99,99% della velocità della luce impiegheremmo circa 14.000.000.000 di anni. In pratica noi siamo quasi immobili nell’Universo. Ma se noi siamo immobili, allora vuol dire che la Vita non può viaggiare nell’Universo, restando “viva”. Infatti, è molto probabile che la maggior parte degli esseri viventi, come i batteri, morirebbero durante un viaggio così lungo. Eppure, la Vita viaggia nel nostro Universo, e noi ne abbiamo le prove. Come fa? Da dove viene? Chi o cosa la manda? Evidentemente, qualcosa sul modo stesso in cui noi concepiamo l’Universo è sbagliato, o ci sfugge.

Tra le cose che dovremo rivedere, ad esempio, è l’idea che non esiste nulla che vada più veloce della luce. Infatti, il professor Antonio Ereditato e i suoi collaboratori, sotto il laboratorio CERN del Gran Sasso, sono stati i primi a portare la prova che particelle chiamate “neutrini” viaggiano più veloce della luce. Non appena questi dati verranno convalidati da altri istituti di ricerca, la nostra intera Fisica verrà rimessa in discussione. E la principale obiezione alla spiegazione “dell’Universo vivo” cadrà.

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

Puoi trovare una copia del libro a questo link
https://www.amazon.it/dp/B0BLYBDF69

https://www.facebook.com/photo/?fbid=618658883629600&set=a.561879272640895

venerdì 8 ottobre 2021

Marte, c'era un lago nel cratere in cui si cerca la vita. - Elisa Buson

Una delle immagini scattate dal rover Perseverance che hanno permesso di capire
che in passato il cratere Jezero era occupato da un lago (fonte: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS)

 La conferma nelle foto del rover Perseverance della Nasa.

Un fiume che scorre placido verso il lago. Poi il clima che cambia, l'inondazione e la furia dei flutti che scaglia enormi massi a chilometri di distanza. E' successo davvero su Marte circa 3,7 miliardi di anni fa, là dove oggi resta soltanto una landa desolata: il cratere Jezero. Lo si sospettava da tempo, ma ora la conferma arriva dall'analisi scientifica delle prime immagini scattate dal rover Perseverance della Nasa, che proprio in quel cratere è atterrato lo scorso febbraio a caccia di tracce di vita passata.

Non poteva esserci posto migliore, anche per studiare gli sconvolgimenti climatici che hanno stravolto la storia del pianeta. Lo dimostrano i risultati dello studio pubblicato sulla rivista Science da un team internazionale di esperti guidato da Nicolas Mangold dell'Università di Nantes e coordinato dal Jet Propulsion Laboratory (Jpl) della Nasa.


Ricostruzione grafica dell'antico lago che circa 3 miliardi di anni fa occupava 
il cratere marziano Jezero (fonte: NASA/JPL-Caltech/MSSS/LPG)

Le immagini riprese da Perseverance nei primi tre mesi della missione (quando il rover era ancora fermo all'interno del cratere per il controllo degli strumenti di bordo) mostrano in dettaglio la formazione rocciosa a forma di ventaglio presente nella parte occidentale di Jezero e la collinetta Kodiak poco distante.

L'analisi delle stratificazioni dimostra che la prima struttura era davvero il delta di un piccolo fiume, che 3,7 miliardi di anni fa scorreva placido trasportando sedimenti fini. A un certo punto, però, un drastico cambiamento climatico avrebbe provocato una violenta inondazione e lo spostamento verso il delta di enormi massi, che sono ancora visibili. Alcune di queste rocce hanno un diametro di un metro e sembrano pesare diverse tonnellate: secondo gli esperti facevano parte di un letto roccioso che si trovava sul bordo del cratere o forse a una cinquantina di chilometri più a monte.

Questi massi si sono depositati sopra gli strati di sedimenti più fini, dove sembrano esserci materiali argillosi che potrebbero custodire segni di vita passata. "Ora abbiamo la possibilità di cercare fossili", commenta Tanja Bosak, geobiologa del Massachusetts Institute of Technology (Mit). "Ci vorrà del tempo per raggiungere le rocce che vogliamo analizzare per cercare segni di vita. Per cui sarà una maratona, con un grande potenziale". La cosa più sorprendente che emerge dalle immagini di Perseverance, secondo il planetologo Benjamin Weiss del Mit, "è la possibilità di cogliere il momento in cui il cratere si è trasformato da un ambiente abitabile alla landa desolata che vediamo oggi. Questi strati rocciosi potrebbero aver registrato la transizione, cosa che non abbiamo ancora visto in altri luoghi su Marte".

ANSA

lunedì 27 settembre 2021

Marte troppo piccolo per avere acqua e vita.

 

Marte ‘travestito’ da Terra (fonte: NASA Earth Observatory/Joshua Stevens; NOAA National Environmental Satellite, Data, and Information Service; NASA/JPL-Caltech/USGS; Graphic design by Sean Garcia/Washington University)

Nuova ipotesi dall'analisi dei meteoriti.

Marte è troppo piccolo per trattenere quantità di acqua necessarie a supportare la vita: è la conclusione a cui sono giunti i ricercatori della Washington University a Saint Louis dopo aver valutato la composizione chimica di una ventina di meteoriti marziani caduti sulla Terra. I risultati dello studio, che potrebbero aiutare la ricerca di pianeti abitabili al di fuori del Sistema solare, sono pubblicati sulla rivista dell’Accademia americana delle scienze (Pnas).

“Il destino di Marte era scritto fin dall’inizio”, afferma il ricercatore Kun Wang. “C’è probabilmente una soglia per quanto riguarda le dimensioni dei pianeti rocciosi affinché possano trattenere acqua a sufficienza per permettere l’abitabilità e la tettonica a placche, con una massa che è superiore a quella di Marte”. Il suo team lo ha dedotto esaminando la composizione di 20 meteoriti marziani, di cui ha valutato in particolare gli isotopi del potassio per stimare la presenza e la distribuzione di elementi e composti ancora più volatili come l’acqua.

“Questi meteoriti risalgono ad un’epoca compresa tra centinaia di milioni e 4 miliardi di anni fa e hanno registrato la storia evolutiva degli elementi volatili su Marte”, sottolinea Wang. “Misurando gli isotopi di elementi volatili come il potassio possiamo dedurre come sono stati persi e fare confronti tra i diversi corpi del Sistema solare”. Grazie a questo approccio innovativo, i ricercatori hanno stabilito che Marte, durante la sua formazione, ha perso più potassio ed elementi volatili rispetto alla Terra, ma ne ha trattenuti di più rispetto alla Luna e all’asteroide Vesta (due corpi più piccoli e aridi sia di Marte che della Terra).

“Questo studio evidenzia che c’è un intervallo piuttosto ristretto per quanto riguarda le dimensioni dei pianeti affinché abbiano abbastanza ma non troppa acqua per essere abitabili”, aggiunge il co-autore dello studio Klaus Mezger dell’Università di Berna. “Questi risultati guideranno gli astronomi nella ricerca di esopianeti abitabili in altri sistemi solari”.

ANSA

martedì 13 ottobre 2020

Vite rubate, negate. - Cetta

 

Ebbene, si, negate e rubate.
Rubate da chi non ha rispetto della vita altrui anteponendo il proprio egoismo al diritto degli altri ritenendo che gli altri non avessero uguali desideri o aspettative di vita.
C'è ci crede di essere in eterno stato di diritto ignorando di avere anche doveri da assolvere e va avanti per la sua strada, inconsapevole o cosciente di ciò che va perdendo per ogni attimo di vita rubato agli altri;
ogni attimo di vita rubato agli altri è un attimo di umanità calpestata ed abbandonata per strada, un attimo di vita che apre la strada ad uno stato di assoluto nichilismo, perchè chi ruba la vita degli altri perde un pezzettino alla volta di se stesso, annichilendo.
E un poco alla volta, l'essere del diritto assoluto, scompare alla vista ed all'affetto di chi ha derubato.
Nessun onore, nè gloria, solo buio e solitudine.
cetta.

mercoledì 23 settembre 2020

Un mondo migliore.












Diciamocelo francamente, il risultato del referendum e delle ultime elezioni politiche ha dato due chiari segnali, da un lato la voglia di cambiamento, dall'altro la volontà di mantenere lo satus quo.

Ed è naturale che sia così, poiché la popolazione è composta da vari strati sociali e culturali, ognuno dei quali ha aspettative diverse dovute alle proprie e svariate necessità.

La politica, quella attenta, non deve fare altro che cogliere questi segnali e farli propri.

In altri termini, dovrebbe eliminare quelle deleterie disuguaglianze culturali ed economiche createsi nel tempo restituendo ad ogni cittadino pari dignità morale e materiale; poi dovrebbe adoperarsi affinchè le leggi vengano rispettate da tutti - perché farle e non adoperarsi per farle rispettare le invalida - adoperarsi per creare servizi efficienti affidandoli a personale capace e responsabile... e via discorrendo.

Il cittadino onesto vuole il cambiamento perché vuole sentirsi sicuro, vuole giustizia, vuole essere garantito, vuole poter dire che le tasse che paga sono ben spese.

Il cittadino meno onesto, usando sotterfugi adoperati dai molti impuniti, sapendo di poter aggirare e sfuggire le leggi, vuole mantenere lo status quo.

Equità, lealtà, onestà, sincerità sono le regole del vivere civile.

Cetta.

mercoledì 5 agosto 2020

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”. - Elisabetta Ambrosi

Foreste, il professor Vacchiano: “Non basta piantarli, gli alberi vanno aiutati a resistere”

"I boschi mettono in atto strategie di adattamento e resilienza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle, prevenendo mortalità, incendi e parassiti".
Assorbono le nostre emissioni, ci danno acqua, cibo e ristoro spirituale. Eppure le foreste, in epoca di cambiamento climatico, sono sottoposte a fortissimi stress e dunque sono anch’esse a rischio. Molto però si può fare, come spiega Giorgio Vacchiano, docente di Gestione e pianificazione forestale alla Statale di Milano e autore di La resilienza del bosco. Storie di foreste che cambiano il pianeta (Einaudi). “Non solo i boschi mettono in atto strategie di resilienza e resistenza proprie, ma anche noi possiamo aiutarle ad adattarsi meglio, prevenendo mortalità, incendi e parassiti”.
Professore, perché senza boschi non potremmo vivere?
Le foreste ci danno il necessario per la sopravvivenza: un miliardo e mezzo di persone dipendono da loro per avere acqua e ottocento milioni per l’approvvigionamento diretto di cibo. Inoltre, in un’epoca di cambiamento climatico, gli alberi assorbono un terzo delle nostre emissioni. Infine, grazie alle foreste integre le popolazioni non sono in contatto con gli animali e si abbassa la possibilità dello spillover, il salto del virus da uomo e animale.
Qual è lo stato delle nostre foreste?
Ci sono due tendenze contrastanti. Da un lato c’è un aumento della superficie forestale spontaneo nei terreni abbandonati dall’agricoltura o nelle zone marginali non più economicamente utilizzate. Parliamo di 50.000 ettari ogni anno in Italia e 800.000 in Europa. Tuttavia, non sempre si tratta di una notizia positiva, perché è un fenomeno che andrebbe governato altrimenti si rischia, ad esempio, un aumento degli incendi. C’è però un altro lato oscuro.
Quale?
Molto spesso all’aumento delle nostre foreste corrisponde un aumento della delocalizzazione degli impatti, perché di terra e legna abbiamo bisogno. E così invece di deforestare a casa nostra, come si faceva fino al 1700, importiamo legno dal Sudamerica o dall’Indonesia, dove aumenta il prelievo e la conversione della foresta ad usi agricoli per produrre prodotti che servono ai paesi occidentali. Il fatto è che oggi è tutto legato e quindi se scompaiono le foreste in Sud America comunque noi ci andiamo di mezzo.
Come incide il cambiamento climatico sulle nostre foreste?
Nel mio libro parlo dei meccanismi incredibili di risposta e adattamento degli alberi a questi eventi estremi: il problema è se il numero e l’intensità di questi eventi cambiano troppo rapidamente, anche se dipende molto dai vari ecosistemi e dal tipo di foreste. Prendiamo gli incendi in Australia: ci sono sempre stati, ma bisogna vedere con che intensità e con che frequenza. Se prima una certa zona bruciava ogni cento anni le piante avevano il tempo di ricolonizzare ,se accade ogni venti si può superare la capacità di resilienza delle piante, rischiando un cambiamento di escosistema fatto di arbusti ed erbe. Un altro esempio: nel 2018 c’è stata una delle peggiori siccità degli ultimi due secoli in Europa centrale e ci sono state ampie zone di mortalità degli alberi a causa della siccità.
Esiste quindi “un punto di non ritorno” per i boschi?
Esistono vari studi sui cosiddetti “tipping point” per quanto riguarda la foreste tropicali. E non parliamo solo delle giungle piovose, ma anche delle foreste tropicali aride, dove basta una piccola differenza nella quantità di piogge per mandare in crisi l’ecosistema. Ma anche le foreste dell’Amazzonia sono un ecosistema fragile, perché il suolo è povero di sostanze nutritive e l’equilibrio si regge su un ciclo chiuso di materia organica prodotta dagli alberi stessi. Gli alberi sono enormi pompe d’acqua a ciclo chiuso che “sparano” il vapore in atmosfera in modo da formare la pioggia. Se questo ciclo viene disturbato, eliminando definitivamente anche solo un quarto dell’area disboscata, verrebbe a mancare l’acqua in atmosfera necessaria per formare la pioggia e la foreste potrebbe trasformarsi in savana.
Ma quali sono le capacità di reazione dei boschi?
Sono tantissime. Gli alberi sono cresciuti da sempre in un mondo che proponeva loro degli stress enormi, il fuoco è esistito sulla terra da quando ci sono gli alberi. Le piante hanno sempre convissuto con le fiamme, sviluppando strategie di resilienza, come la corteccia della quercia che è isolante. Nel libro racconto dei pini la cui pianta adulta muore, ma le cui pigne si aprono per il calore e spargono semi. Ma anche un castagno tagliato ricresce dal ceppo. Insomma nei modi di riprodursi gli alberi sono maestri molto più di noi, sanno ricrescere da una singola gemma.
Si fa molta retorica sulla “riforestazione” e sulla necessità di piantare alberi. È una cosa che serve?
È una cosa necessaria ma non sufficiente. Non basta piantare nuovi alberi, se voglio che l’albero agisca, cioè assorba carbonio, devo curarlo nei primi anni in cui è più fragile. Inoltre piantare monoculture in un ambiente di foresta mista biodiversa potrebbe essere negativo, come negativa potrebbe la piantumazione di alberi nelle zone polari perché rendendo più scuro il paesaggio potrebbero avere un effetto di riscaldamento. Pensi che ci sono in corso ricerche sulle modifiche genetiche, ad esempio della soia, che potrebbero schiarire le piante.
Come si gestiscono i boschi?
Sono scelte non facili, perché non sempre le cose che si devono fare sono omogenee, anzi ci possono essere obiettivi che richiedono strategie discordanti. Ad esempio la conservazione della biodiversità rispetto alla produzione di legno su scala industriale. Io penso che il segreto per armonizzare queste funzione sia la pianificazione: si prende come riferimento una regione, una vallata o un comune e si decide quali foreste ti devono dare che cosa, tenendo conto che quando prendi lo devi fare a un rimo più lento della velocità di ricrescita e tenendo conto del cambiamento climatico. Ma come dicevo, oggi è quanto mai necessario avere uno sguardo globale, perché qualsiasi cosa facciamo ha delle conseguenze altrove. Se conserviamo troppo qui vuole dire che prendiamo troppo altrove, ma occorre evitare la sindrome “nimby” (not in my back yard).
Come scrive nel suo libro, in molti casi anche tagliare è utile e anche praticare incendi mirati.
A volte tagliare alcuni alberi significa fare la differenza e impedire a tutti di morire, il diradamento è una forma praticata di adattamento. Si usa come prevenzione dalla siccità oppure per prevenire attacchi di insetti. L’assorbimento delle emissioni delle piante, ripeto, dipende anche dalla salute delle piante. Anche per la protezione del dissesto può essere necessario intervenire quando la foresta attraversa fasi meno adatte a stabilizzare il suolo o trattenere massi e valanghe e anche qui, come dicevo prima, le strategie possono essere diverse. La Svizzera ha fatto enormi investimenti sulla manutenzione delle foreste, che se lasciate a se stesse potrebbero non essere compatibili con la protezione del dissesto.
Come l’Italia sta proteggendo i boschi e quanti fondi servirebbero?
A Giugno si è conclusa la consultazione pubblica della nuova Strategia Forestale Nazionale, il documento che sarà alla base della gestione forestale per i prossimi vent’anni nel nostro Paese. La Strategia contiene molte novità interessanti, incoraggiando la mappatura di tutte le foreste che ci proteggono dal dissesto e delle foreste “vetuste” a più alto contenuto di biodiversità, il ripristino dei boschi degradati o colpiti da eventi estremi, gli interventi di prevenzione antincendi boschivi e per l’aumento della resistenza delle foreste alle tempeste, incentivando l’acquisto da filiere corte e di prodotti legnosi certificati, prevedendo programmi formativi per tutti gli operatori boschivi, e chiedendo a chi redige i piani forestali di effettuare una analisi puntuale delle vulnerabilità climatiche e di progettare interventi di mitigazione e adattamento. Per ogni azione, la strategia indica a quali risorse si potrebbe attingere per realizzarla, nella speranza che questi “suggerimenti” servano per “indirizzare” al meglio la tipologia di interventi ammessi a ricevere finanziamenti dai fondi pubblici comunitari e nazionali.
Parliamo del verde urbano. Le foreste urbane sono il nostro futuro? Ma come mantenere ciò che abbiamo?
Le foreste urbane hanno senso e non solo per assorbire carbonio. Le città sono luoghi dove gli impatti del calore sono più forti, dove si sfogano gli eventi metereologici estremi perché il suolo è impermeabile, dove gli effetti dell’inquinamento sono massici. Gli alberi possono fare tanto, per prevenire i danni da alluvione, assorbire il particolato che genera infezioni respiratorie e rinfrescare le temperature. Molte città sono partite con piani di riforestazione, non solo Milano, ma anche Napoli. Nel decreto clima di sono 30 milioni da spendere su questo fronte, poi sono tantissime anche le iniziative dal basso. Noi abbiamo lanciato la fondazione Alberitalia.it, https://www.alberitalia.it per dare consulenza scientifica a chiunque abbia progetti di impianto, per capire come e dove ripiantumare.
Quali comportamenti singoli aiuterebbero?
Il primo problema è quello della deforestazione dei paesi tropicali con perdita della biodiversità ed effetti sul clima, quindi il primo punto è non importare, né mangiare, prodotti responsabili di questo fenomeno. Nel Green Deal ci saranno strategie per mettere un freno all’importazione di questi prodotti. Sul legno già oggi i consumatori possono cercare il bollino di gestione sostenibile.
Quanto la preoccupa personalmente il cambiamento climatico?
Io vedo tantissime soluzioni a portata di mano e non mi riferisco solo alle foreste ma
soprattutto ai trend incoraggianti sull’energia rinnovabile, sulla decarbonizzazione dei trasporti e sull’economia circolare. Molte aziende ormai hanno capito che la conservazione del capitale naturale è parte integrante del loro business, e non un accessorio a cui dedicare rimasugli di bilancio o azioni di CSR di mera facciata. Se poi dovesse arrivare, come credo, una tassa sul carbonio le cose miglioreranno ulteriormente, ma già oggi è tecnicamente possibile una alimentazione energetica al 100% da fonti rinnovabili, anche in Italia (www.thesolutionsproject.org) . Arrivarci non è più tanto una questione di convenienza economica quanto di volontà politica. E il grande movimento popolare dei giovani per la lotta al cambiamento climatico potrebbe fornire la spinta che finora è mancata.
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