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domenica 21 aprile 2024

La piramide di Ben Ben.

 

Quella davanti a te è la piramide di Ben Ben, che ha sconcertato gli scienziati per migliaia di anni e finora non sono riusciti a risolvere il puzzle. La piramide si trova al Museo Egizio.
La piramide è fatta di pietra di ferro nera, che si trova nello spazio solo nei meteoriti spaziali. Tutti i suoi componenti non esistono sulla faccia della Terra. E qui appare il secondo puzzle perché è pietra di ferro, cosa molto impossibile e difficile da modellare e perforare.
Come ha fatto a tagliarsi con tanta precisione in angoli e deviazioni?
Ok, è impossibile che si interrompa; dovrebbe essere impossibile anche per lui rimanere impresso su di esso!
No, ha incisioni molto sottili sui volti della piramide, e gli scienziati hanno trovato impossibile per qualsiasi strumento, antico o moderno, incidere le iscrizioni con tale precisione a meno che non si utilizzi uno strumento di taglio laser.
Esiste anche un mistero, ovvero che la pietra meteorite di ferro nero, grazie alla composizione dei suoi componenti, si diverte a emettere energia elettromagnetica positiva nel suo ambiente, il che fa sentire psicologicamente a proprio agio chiunque si avvicini.
Come ti ho detto, la piramide si trova al Museo Egizio.

venerdì 4 agosto 2023

Cascate di sangue in Antartide: finalmente svelata l’origine?

Le cascate di sangue, in Antartide, sono così chiamate per il colore rosso dell'acqua che sgorga dalla base del ghiacciaio. National Science Foundation | Peter Rejcek

 Dalla base del ghiacciaio Taylor, in Antartide, sgorgano le cosiddette cascate di sangue: il fenomeno è un mistero da oltre 100 anni – ma forse ora ne è stata scoperta l'origine.

Era il 1911 quando il geologo britannico Thomas Griffith Taylor fece un'incredibile scoperta durante la famosa spedizione Terra Nova in Antartide: alla base di un ghiacciaio − poi battezzato Taylor in onore del suo scopritore − sgorgava una cascata di acqua rossa simile al sangue. Per oltre un secolo ricercatori e scienziati hanno cercato i motivi dietro a quest'incredibile fenomeno, avanzando varie teorie.

MINI SFERE OSSIDATE. Ora un gruppo di studiosi ha utilizzato un potente microscopico elettronico a trasmissione per esaminare dei campioni di nanosfere solide ritrovate in abbondanza nelle acque delle cascate di sangue: l'analisi ha rivelato che sarebbero proprio queste minuscole palline ricche di ferro (grandi, sembra incredibile, appena un centesimo di un globulo rosso umano) a tingere di rosso l'acqua ossidandosi: «Oltre al ferro contengono un sacco di altri elementi, come silicome, calcio, alluminio e sodio», spiega Ken Livi, uno degli autori.

PERCHÉ NON LE ABBIAMO VISTE FINORA? La natura delle nanosfere non è stata chiara fino ad ora non solo perché sono minuscole, ma anche perché i gruppi di ricerca che avevano indagato in precedenza credevano che fosse un minerale a tingere di rosso l'acqua, mentre in realtà le nanosfere non sono minerali. In altre parole, cercavano la prova sbagliata: «Per essere minerali, gli atomi devono avere una struttura molto specifica e cristallina: queste nanosfere non sono cristalline, quindi i metodi utilizzati in precedenza per esaminare i solidi trovati non le avevano rilevate», spiega Livi.

IDEE MARZIANE. Sono state le recenti missioni su Marte a dare l'idea a Livi, esperto in materiali planetari, di indagare sull'origine delle cascate di sangue: «Con l'avvento delle missioni su Marte è sorto un interesse attorno all'analisi dei solidi presenti nelle acque delle cascate di sangue, come se si trattasse di un sito di atterraggio marziano», spiega Livi. Gli scienziati credono infatti che capire l'ambiente antartico − così inusuale − e le forme di vita che lo abitano potrebbe aiutare la ricerca della vita in altri Pianeti con ambienti altrettanto inospitali.

Lo studio, oltre ad aver risolto – sostiene Livi – il mistero delle cascate di sangue, ha messo in luce un altro problema sul quale focalizzarsi: «La nostra ricerca rivela che l'analisi condotta dai rover non è riuscita a determinare la vera natura dei materiali trovati su altri pianeti: questo è vero in particolare per i pianeti più freddi come Marte, dove i materiali che si formano possono essere nanoscopici e non cristallini».

Per capire davvero la natura dei materiali che compongono la superficie dei pianeti rocciosi, conclude Livi, potrebbe essere necessario un microscopio elettronico a trasmissione – ma al momento non è fattibile utilizzarne uno su Marte.


https://www.focus.it/cultura/curiosita/cascate-di-sangue-in-antartide-ne-abbiamo-finalmente-svelato-l-origine?fbclid=IwAR0d9Qa8sxtVLBWBndvatkofXbDAuR0dP0TiwqqClbbB84WO5Am04MxmeHE

domenica 21 maggio 2023

VIVIAMO IN UN “UNIVERSO VIVO” O IN UN “UNIVERSO MORTO”?

 

Viviamo in un Universo vivo o in un Universo morto? Fino a poco tempo fa i fisici hanno trattato l’Universo come qualcosa di morto, inanimato, composto da semplici minerali e gas che si muovevano da una parte all’altra senza uno scopo. Questo modello di Universo derubrica la “Vita” quasi a un “incidente di percorso”, qualcosa di insignificante, che poteva esserci o non esserci senza fare alcuna differenza. Nei modelli dell’Universo del secolo scorso il problema “Vita” non era minimamente contemplato.

Ora diventa sempre più evidente che in questa vecchia concezione dell’Universo è stato commesso un errore grossolano. Nel maggio 2001, due ricercatori dell’università “Federico II” di Napoli, Bruno D’Argegno, docente di geologia e Giuseppe Geraci, docente di biologia molecolare, annunciarono che in alcune meteoriti vecchie di 4,5 miliardi di anni erano presenti tracce di organismi che possono essere batteri o i loro “cugini”, gli “archea”. Consideriamo quanti pochi asteroidi e comete siamo stati in grado di analizzare, e da quanto poco tempo lo facciamo. Nonostante questo, abbiamo trovato molte tracce di batteri. Se paragoniamo questo con i miliardi di miliardi di meteore e comete che fluttuano nello spazio, è evidente che l’Universo brulica di batteri che usano le comete come una sorta di “autostop”.

Tutto questo porta molti famosissimi ricercatori a pensare che nell’Universo la Vita è tutt’altro che un “incidente” avvenuto solo sulla Terra. Nell’Universo la Vita è la regola. Quindi non si può parlare più di un Universo “morto”, ma di un Universo “vivo”. Ma se l’Universo è vivo, allora tutti i vecchi modelli di Universo sono sbagliati, o come minimo, parziali. Questo perché in questi vecchi modelli, l’elemento “Vita” non è mai stato preso in considerazione come “fondamentale”.

Prendiamo ad esempio la domanda: “Come si diffonde la vita nell’Universo”? Secondo la fisica attuale, nulla si può spostare a velocità maggiore della luce. Ma questo vorrebbe dire che se volessimo percorrere da capo a capo il nostro universo al 99,99% della velocità della luce impiegheremmo circa 14.000.000.000 di anni. In pratica noi siamo quasi immobili nell’Universo. Ma se noi siamo immobili, allora vuol dire che la Vita non può viaggiare nell’Universo, restando “viva”. Infatti, è molto probabile che la maggior parte degli esseri viventi, come i batteri, morirebbero durante un viaggio così lungo. Eppure, la Vita viaggia nel nostro Universo, e noi ne abbiamo le prove. Come fa? Da dove viene? Chi o cosa la manda? Evidentemente, qualcosa sul modo stesso in cui noi concepiamo l’Universo è sbagliato, o ci sfugge.

Tra le cose che dovremo rivedere, ad esempio, è l’idea che non esiste nulla che vada più veloce della luce. Infatti, il professor Antonio Ereditato e i suoi collaboratori, sotto il laboratorio CERN del Gran Sasso, sono stati i primi a portare la prova che particelle chiamate “neutrini” viaggiano più veloce della luce. Non appena questi dati verranno convalidati da altri istituti di ricerca, la nostra intera Fisica verrà rimessa in discussione. E la principale obiezione alla spiegazione “dell’Universo vivo” cadrà.

L’articolo continua sul libro:
HOMO RELOADED – 75.000 ANNI DI STORIA NASCOSTA

Puoi trovare una copia del libro a questo link
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mercoledì 29 aprile 2020

Coronavirus, scoperte 35 molecole per combatterlo.

Struttura della molecole meflochina (fonte: Sibylla Biotech) © Ansa
Struttura della molecole meflochina (fonte: Sibylla Biotech)

Una appartiene alla stessa famiglia chimica dell'idrossiclorochina.

Scoperte 35 molecole per combattere il virus SarsCoV2, grazie a una potenza di calcolo analoga a quella che l'Italia ha utilizzato per scoprire il bosone di Higgs; una appartiene alla famiglia dell'isrossiclorochina. Descritte sul sito ArXiv, ora potranno affrontare i test per capire se potranno diventare farmaci anti-Covid-19. Sono state selezionate fra le 9.000 analizzate dal progetto guidato dall'azienda Sibylla Biotech e dall'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn).

martedì 17 maggio 2016

Sono tre i nuovi pianeti appena scoperti. - Enrico Ferrone

pianeti

Ora si sta studiando se esista la possibilità che si sia sviluppata una qualche forma di vita.
Lo scorso 2 maggio le principali agenzie di stampa internazionali hanno battuto la notizia della scoperta di tre esopianeti simili alla Terra, orbitanti attorno a una nana rossa. Un primo calcolo e molte illazioni lascerebbero pensare a condizioni di vita compatibili a quelle della nostra esistenza. Lo studio è stato ripreso dalle autorevoli pagine di Nature, una delle più antiche ed importanti riviste esistenti, forse quella considerata di maggior prestigio nell’ambito della comunità scientifica mondiale. La sua sede è a Londra. Lo abbiamo letto per questo.
Quelli individuati sono corpi celesti molto simili a quello che è il nostro habitat, con la particolarità di essere a circa 40 anni luce di distanza da noi: la scoperta è di un team di ricercatori guidato da Michaël Gillon, dell’Institut d’Astrophysique et de Géophysique dell’università di Liegi. Al di là delle battute scontate, la regione spaziale in cui avviene l’orbitazione è relativamente vicina al nostro pianeta, viste le distanze astronomiche pazzesche in cui si ragiona per la ricerca di elementi che possano ipotizzare condizioni similari a quelle del sistema solare e per quanto non vi è alcuna traccia apparente di vita, sono opportune delle riflessioni che possano chiarire la matrice della ricerca e l’efficacia della scoperta. I tre pianeti che qualcuno definisce troppo frettolosamente già abitabili, avrebbero caratteristiche del tutto simili alla nostra Terra e Marte ma con dimensioni che non si discostano molto da quelle di Venere, che è appena più piccola di Terra. Sono considerazioni che onestamente non eccitano la nostra fantasia per una serie di motivi che non tarderemo ad esporre. Perché è indubbio che la scoperta apre nuovi margini di studio; però ci conviene iniziare con quella che può rappresentare la prima origine dell’esistenza di un sistema solare: la stella madre. E abbiamo parlato di una particolare classificazione: la nana rossa. In astronomia, viene denominata così una stella piccola e relativamente fredda, ovvero al di sotto dei 3.500° K, la tipologia stellare più diffusa nell’universo ma a causa della loro bassa luminosità, le singole nane rosse non sono facilmente osservabili, tanto da risultare completamente invisibili a occhio nudo. In generale, le nane rosse trasportano l’energia prodotta nel nucleo verso la superficie tramite moti convettivi che risultano avvantaggiati rispetto ad altri metodi di trasporto energetico per l’opacità degli strati interni.
E comunque è sul piccolo sole classificato con la sigla 2MASS J23062928-0502285 che si punta l’attenzione degli astronomi che tengono sotto controllo il sistema con il telescopio belga Trappist (acronimo di TRAnsiting Planets and PlanetesImals Small Telescopes): un impianto robotico da mezzo metro di diametro che viene gestito all’Osservatorio dell’ESO di La Silla in Cile dall’Università di Liège, che sfrutta la maggior parte del tempo controllando la luce di circa 60 delle più vicine nane ultrafredde e nane brune, le stelle che non sono abbastanza massicce da avviare una fusione nucleare sostenuta nel nucleo, cercando evidenze di transiti planetari. Il bersaglio, denominato poi più semplicemente Trappist-1, in questo caso ha per massa circa l’8% di quella del Sole e la luminosità è pari allo 0,05%. In complesso Trappist-1, che è all’interno della costellazione dell’Acquario, è una stella debole e fredda e la sua luce diventa più fioca a intervalli regolari, indicando così i diversi oggetti che passano tra se stessa e la Terra. Le sue dimensioni sono approssimativamente quelle di Giove. Un dato importante che ha smantellato le vecchie teorie che ritenevano l’impossibilità che con queste dimensioni all’interno della nostra galassia si potessero ospitare dei sistemi planetari.
La scoperta ha quindi suscitato parecchio scalpore nella comunità scientifica e il team sta cercando di capire se su questi pianeti esista la possibilità che si sia sviluppata una qualche forma di vita. Ma data la distanza l’analisi sarà assai lunga e difficilmente quantizzabile. Tuttavia dai primi dati sembra che due dei pianeti hanno un periodo orbitale di 1,5 e 2,4 giorni terrestri, mentre il periodo del terzo è incerto, forse compreso tra 4,5 e i 73 giorni. «Periodi orbitali così brevi indicano che i pianeti si trovano da 20 a 100 volte più vicini alla loro stella rispetto alla distanza tra Terra e Sole. La struttura di quel sistema planetario è in scala, molto più simile al sistema delle lune di Giove che al sistema solare», ha dichiarato Michaël Gillon. Dati incontrovertibili che comunque quadrano con il nostro scetticismo in quanto l’unico punto di riferimento su cui confrontare le nostre teorie è quello in cui viviamo. Troppo poco nella immensa diversità interstellare. Ma Emmanuël Jehin, coautore dell’articolo, è entusiasta: «Questo è un vero cambiamento di paradigma per quanto riguarda la popolazione planetaria e un percorso alla ricerca della vita nell’universo. Finora l’esistenza di questi ‘mondi rossi’ in orbita intorno a stelle nane ultrafredde era solo teorizzata, ma ora abbiamo non già un singolo pianeta ma un sistema completo di tre pianeti intorno a una di queste fioche stelle rosse». Gillon, però insiste: «Perché stiamo sforzandoci di individuare pianeti di dimensione paragonabile alla Terra intorno alle stelle più piccole e più fredde del vicinato solare? La ragione è semplice: i sistemi intorno a queste stelle minuscole sono gli unici luoghi in cui possiamo rivelare la vita su un esopianeta di dimensioni terrestri con le tecnologie attuali. Se vogliamo trovare la vita da qualche altra parte nell’Universo, qui è dove dobbiamo iniziare a cercare».
Ora il James Webb Space Telescope di NASA/ESA/CSA il cui lancio è previsto nel 2018, si potrà studiare la composizione atmosferica di questi pianeti e di esplorare per la prima volta la presenza di acqua, di tracce di attività biologica. «È un passo gigante verso la ricerca della vita nell’Univierso», sostiene Julien de Wit, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che è coautore del lavoro pubblicato su Nature.
Questo studio apre una nuova strada nella ricerca di esopianeti, poiché circa il 15% delle stelle nei dintorni del Sole sono nane ultrafredde. Il Consiglio delle Ricerche Europeo e anche dall’Università di Liège ne hanno finanziato in gran parte la realizzazione ma ora si guarda avanti, con un progetto denominato Speculoos costituito da quattro telescopi robotici da un metro di diametro che verranno installati all’Osservatorio del Paranal per cercare, nei prossimi cinque anni, pianeti abitabili intorno a circa 500 stelle ultra-fredde.

domenica 7 dicembre 2014

Scoperta eccezionale in Sicilia: a Selinunte emerge la più grande fabbrica di ceramiche greche del mondo antico.

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Sicilia – Scorcio dell’industria di ceramiche greche scoperta a Selinunte (Trapani) – Ph. Martin Bentz

Scoperta eccezionale in Sicilia: a Selinunte emerge la più grande fabbrica di ceramiche greche del mondo antico. Tornate alla luce ottanta fornaci.

Durante la sessione estiva di scavi affidata all’Istituto archeologico germanico di Roma e dell’Università di Bonn, guidato dal professore Martin Bentz, all’interno del parco archeologico siciliano di Selinunte è stato compiuto uno dei più eccezionali ritrovamenti mai effettuati nell’area mediterranea. Ad essere tornata alla luce – con le sue ottanta fornaci, un’estensione di 1.250 metri quadrati nella valle del fiume Cottone, ed una lunghezza di 80 metri – è l’industria di produzione di terrecotte e ceramiche più grande del mondo antico mai ritrovata finora.

Il rinvenimento è stato effettuato durante uno degli scavi estivi che puntualmente si ripetono dal 2010 e che in virtù dei finanziamenti dell’Istituto germanico di Roma potranno proseguire per altri due anni. Lo scavo, effettuato utilizzando stavolta anche il georadar, ha riguardato tre sezioni dell’area, con esiti che hanno permesso di ricostruire il quartiere industriale dell’antica colonia greca.
I reperti ritrovati sono stati datati al V secolo avanti Cristo. E’ probabile che la fornace più grande servisse per la produzione di tegole in terracotta mentre le più piccole fossero destinate alla realizzazione di vasi, statue e altre suppellettili. Già nel 2013 era venuta alla luce un’area ancora molto ben conservata, pavimentata con tegole in terracotta e munita di un pozzo profondo dal quale, molto probabilmente, veniva prelevata l’acqua necessaria a lavorare l’argilla. In quell’occasione era emersa anche una zona più arcaica del quartiere, con ceramiche e terrecotte figurate prodotte sul posto.
Il direttore del parco archeologico di Selinunte e delle Cave di Cusa Giovanni Leto Barone ha dichiarato che proprio in previsione della prosecuzione degli scavi per altri due anni c’è da aspettarsi con certezza che l’area riservi ancora molte sorprese.