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venerdì 7 agosto 2020

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata. - Maria Cristina Fraddosio

Soldi mai spesi, bonifiche ferme e rimpallo di responsabilità: e Brindisi è ancora (troppo) inquinata

Una delle più ampie discariche di scarti industriali - con un danno ambientale stimato in 200 milioni di euro - è da trent'anni in attesa di una soluzione. Ma finora si sono registrati solo tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie e malformazioni alla nascita.
Era l’8 marzo 1959 quando l’allora presidente del Consiglio, Antonio Segni, si recò a Brindisi, in Puglia, per deporre la prima pietra del polo petrolchimico di proprietà della società Montecatini. Disse che quella doveva essere “una pietra lanciata in uno stagno che (avrebbe dovuto allargarsi, ndr) in cerchi di benessere”. Nessuno immaginava che quell’area si sarebbe trasformata in una delle più grandi discariche di scarti industriali. Nel ’61 gli impianti entrarono in funzione. Veniva trattato il petrolio grezzo e si avviò la produzione di materie plastiche. Nel frattempo i rifiuti venivano sversati in prossimità degli impianti, nell’area a ridosso del mare che successivamente prese il nome di Micorosa dall’azienda subentrata in uno degli innumerevoli passaggi societari.
Fanghi di idrossido di calcio, acetilene, cloruro di vinile, dicloroetano si accatastarono al suolo, compromettendo anche la falda. Ma il sogno industriale continuò, fino al boato che la notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1972 stravolse la città. Lo scoppio dell’impianto di cracking causò la morte di tre operai e 50 feriti. Negli anni gli impianti passarono di società in società, ovvero da Edison a Eni, con un breve intervallo nel ’92 della srl Micorosa, poi fallita. Nel ’90 Brindisi fu dichiarata area ad alto rischio di crisi ambientale. Qualche anno dopo i nomi di circa 200 operai morti di cancro finirono agli atti della Procura. Il processo al petrolchimico durò un decennio e si concluse con l’archiviazione per l’infondatezza della notizia di reato (Allegato 3).
Il piano di risanamento (Allegato 1) e l’istituzione del Sito di interesse nazionale vennero approvati nel ’98. La perimetrazione per la bonifica fu fatta nel 2000 e incluse più di 11mila ettari, 5.700 di terra e 5.600 di mare. Ad oggi la caratterizzazione, ovvero la ricostruzione dettagliata della contaminazione, risulta effettuata per l’89% e i progetti di messa in sicurezza approvati riguardano il 16% della falda e il 12% della terra. In entrambi i casi si è concluso meno del 10%. All’interno del Sin vi è l’area industriale, il porto, 30 chilometri quadrati di costa, il petrolchimico e la centrale termoelettrica a carbone Enel di Cerano. Vi è pure un’ampia zona agricola, attraversata dall’asse attrezzato per il trasporto del carbone, che è stata oggetto di una lunga vicenda giudiziaria. E un Parco naturale regionale “Saline di Punta della Contessa”, istituito nel 2002, al cui interno c’è la discarica Micorosa. Un paradosso venuto alla ribalta nel 2014.
In quest’area di circa 50 ettari, l’unica al momento soggetta a bonifica, che in realtà consiste in un confinamento dei rifiuti, si calcolano 1,5 milioni di metri cubi di fanghi a cielo aperto fino a 5 metri di profondità. Con l’Accordo di Programma del 2007 (Allegato 4) si decise che lo Stato avrebbe realizzato la messa in sicurezza “rivalendosi sui soggetti obbligati che non vi provvedano direttamente o non richiedano di usufruire dei benefici del presente accordo”. Si stimò un danno ambientale di 200 milioni di euro, 135 sarebbero serviti per gli interventi di risanamento. Il costo sarebbe stato ripartito tra le società sulla base delle superfici di cui erano proprietarie e del livello di contaminazione. Le somme sarebbero state corrisposte al ministero dell’Ambiente “in 10 anni senza interessi”. “Vorremmo avere un chiarimento su dove siano finite, dovrebbero ammontare a 70 e 80 milioni,”, annuncia il sindaco di Brindisi e presidente della Provincia, Riccardo Rossi. Anche Il Fatto Quotidiano ha chiesto lumi al ministero, ma né il ministro Sergio Costa, né il sottosegretario Roberto Morassut si sono espressi. All’accordo del 2007 è seguita una convenzione tra Regione, Ministero e Sogesid, la società in house del suddetto dicastero, a cui è stata affidata la redazione dello studio di fattibilità, il progetto preliminare e il progetto definitivo della bonifica di Micorosa.
Nel 2013 a Brindisi vengono destinati 40 milioni di euro. Con lo Sblocca Italia diventano 48,6. Nel 2015 altri 25. Tutti fondi pubblici da recapitare al Comune attraverso la Regione. In città – dichiara il responsabile unico del procedimento, l’ingegnere Gaetano Padula – “ne sono arrivati 4, non ancora spesi del tutto”. L’unica società, proprietaria di 323 ettari di Sin di cui un centinaio all’interno del petrolchimico, che sta eseguendo la messa in sicurezza a proprie spese nell’area esterna a Micorosa, è Eni (Allegato 5). “Le operazioni di risanamento – fa sapere il colosso petrolifero – hanno raggiunto un avanzamento complessivo pari a circa il 65%. L’impegno economico sostenuto è pari a circa 90 milioni di euro. Si prevede il completamento della bonifica della falda tra circa 10 anni e del progetto Micorosa in 2”.
Una battuta d’arresto, però, potrebbe essere causata dallo stop ai lavori nella parte interna a Micorosa, gestita dallo Stato, giacché le operazioni di risanamento dovrebbero procedere di pari passo. Il contratto tra il Comune e il consorzio Co.me.ap, che si è aggiudicato la gara d’appalto nel 2014, è stato rescisso dal primo il 14 luglio. Sulla società aggiudicataria le polemiche non si sono mai placate. Ha fatto molto discutere quel 74% di ribasso con cui è stata scelta: la bonifica è stata aggiudicata per 17.637.966 di euro. “Abbiamo mandato tutto alla Procura e lo abbiamo segnalato all’Anac”, fa sapere Doretto Marinazzo, presidente di Legambiente Brindisi (Allegato 9). L’associazione ambientalista aveva espresso perplessità anche sulle spettanze del Comune e della Sogesid. Ambedue oggi sono considerati dal consorzio i responsabili del ritardo dei lavori, che non raggiungo il 10%: “C’è un errore nel progetto – avverte il Co.me.ap – la quantità di materiale per stabilizzare i rifiuti è inferiore a quella necessaria”. Ma Sogesid che l’ha realizzato assicura: “Il progetto definitivo è passato al vaglio della segreteria tecnica bonifiche del ministero dell’Ambiente”. Le motivazioni sono anche altre: “Abbiamo contestato alla stazione appaltante (ovvero il Comune, ndr) – chiarisce il consorzio – di non poter riprendere i lavori per i mancati piani di sicurezza conformi al Covid. Abbiamo fatto un’azione civile per inadempimento contrattuale”. La versione del Comune è diversa: “Dopo aver appreso che il costo del telo di copertura era sottodimensionato e che i volumi di terreno vegetale sono mutati, ci siamo visti notificare un ricorso – spiega Gaetano Padula – la nostra attività è monitorata dal Noe, abbiamo fatto un ordine di servizio paventando il reato di omessa bonifica e abbandono di cantiere”. Ora toccherà interpellare le altre società che avevano partecipato alla gara, per capire se vi sia disponibilità a lavorare con lo stesso ribasso.
Nel 2013 la Provincia ha stabilito che Edison, Eni, le sue due controllate Versalis e Syndial, e la curatela fallimentare Micorosa Srl avrebbero dovuto “attuare le misure di prevenzione necessarie” e procedere alla bonifica (Allegato 6). Tutti hanno presentato ricorsi al Tar di Lecce, che li ha accolti: la discarica è di competenza ministeriale, ma “è corretto affermare che sussiste la responsabilità delle imprese” (Allegato 7). L’unica a vederselo respinto è stata Edison, che nel 2014 si è appellata al Consiglio di Stato che ancora non si è espresso (Allegato 8). Al Fatto il colosso dell’energia ha chiarito: “L’area è nella proprietà, disponibilità e gestione delle società del Gruppo Eni”. Nel 2013 cinque cittadini che riconducono le loro patologie all’esposizione a idrocarburi policiclici aromatici hanno presentato un esposto contro Eni e Montedison, con successiva integrazione. Le indagini sono ancora in corso. Nel 2014, anche il comitato No al carbone e il Forum nazionale dei movimenti per l’acqua si sono rivolti alla Procura e hanno pubblicato un dossier (Allegato 12).
I rifiuti, anche a lavori di confinamento ripresi, resteranno comunque lì perché – spiega il primo cittadino – “costa troppo rimuoverli e non si saprebbe dove portarli”. Dopo anni di incertezze i dati sullo stato di salute della popolazione parlano chiaro. Li si possono consultare nell’ultimo rapporto del Progetto Sentieri, lo studio epidemiologico nazionale (Allegato 10), nello Studio di coorte del 2017 e all’interno della ricerca “Congenital anomalies among live births in a polluted area. A ten-year retrospective study”. Tumori, malattie cardiovascolari e respiratorie, malformazioni alla nascita sono alcune delle incidenze rilevate. Ci sono familiari, come Rosangela Chirico, che non hanno mai smesso di lottare nelle aule dei tribunali.

martedì 23 luglio 2013

Cava Grande del Cassibile, fine di un sogno?


Prima l’Isola della Correnti, oggi i “laghetti” di Cava Grande. Una maledizione sembra abbattersi su alcuni dei più bei siti naturalistici della Sicilia, presenti nel siracusano. Diversamente dalle favole, però, in questo caso non ci sono orchi cattivi. Più semplicemente,interessi economici e speculativi sembrano farla da padroni.
Come scrive Giovanni Scalia sul Giornale Siracusa, “la riserva naturale Cava Grande del Cassibile (SIC ITA090007) […] i delicati e unici ecosistemi […] corrono un gravissimo pericolo”. Un pericolo determinato dalla scelta dellaSOAmbiente di “aprire, prosegue Scalia, una discarica a Stallaini in una cava di pietra dismessa ubicata a soli 350 m dalla riserva e a 80 da uno degli affluenti del fiume Manghisi”.
In effetti, il governo regionale aveva revocato tutti i permessi, revoca confermata dal TAR di Palermo, ma il Tribunale di Appello ha dato ragione all’azienda.
Chi è stato almeno una volta nella riserva ricorda tanta fatica, soprattutto nel momento della risalita, ampiamente ricompensata dall’aver passato una giornata in un luogo che non è eccessivo definire ‘magico’, in qualunque direzione si decidesse di andare.
Fortunatamente, tante associazioni(Acquanuvena, Albergatori di Noto, Natura Sicula, Case Sparse nell’Agro Netino, Ente Fauna Siciliana, Noto Ambiente, Paesaggio è Futuro, Sciami, e rischiamo di dimenticarne qualcuna) non sono state disponibili a far finta di nulla.
La discarica, proprio, non la vogliono. Innanzitutto perché in essa possono essere conferiti amianto, rifiuti solidi prodotti da operazioni di bonifica dei terreni, metalli non ferrosi e non meglio identificati, rifiuti non biodegradabili.
Ma, anche, perché il piano paesaggistico nella zona di Stallaini vieta esplicitamente di realizzare discariche. Conseguentemente, fanno appello all’Amministrazione comunale di Noto di fare quanto in suo potere per opporsi a questa operazione che, peraltro, produrrebbe anche gravissimi problemi economici, visto che i “laghetti” rappresentano una grande attrattiva turistica.
Chiedono a tutte le amministrazioni locali cointeresssate di concordare, coinvolgendo anche i parlamentari siciliani, le azioni da intraprendere. E, infine, alla Sovrintendenza di Siracusa di revocare, alla luce del piano paesaggistico, il permesso frettolosamente concesso.
In sostanza, tocca ancora una volta alle associazioni e ai volontari il compito di difendere concretamente la nostra Costituzione che “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” (art.9) e il nostro diritto alla bellezza.