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domenica 21 aprile 2024

Nessuno è immune dalla relatività di Albert Einstein, nemmeno sulla Terra (e il tempo non è lo stesso).

 

Quando Einstein presentò la sua teoria della relatività ristretta, nel 1905, la nostra concezione di universo cambiò per sempre. Prima di lui, gli scienziati descrivevano ogni “punto” dell’universo utilizzando solo quattro coordinate: le tre posizioni spaziali più il tempo, per indicare in quale momento si era verificato un determinato evento. Tutto questo cambiò quando il celebre scienziato realizzò che se ti muovi rispetto a un altro osservatore, invecchierai meno di qualunque altra cosa rimasta ferma. Ogni volta che un osservatore si muove nell’universo rispetto a un altro, sperimenterà una dilatazione del tempo. Il suo orologio scorrerà più lentamente rispetto all’osservatore fermo. Questa grande verità è stata messa alla prova diverse volte, nell’ultimo secolo, anche utilizzando orologi sugli aerei.

Il fattore gravitazionale di Einstein.

Quando Einstein presentò per la prima volta la sua teoria della relatività ristretta, c’era un elemento mancante: non considerava l’attrazione gravitazionale, la gravità. Non aveva ancora idea che la vicinanza ad una grande massa potesse alterare anche lo scorrere del tempo. A causa della rotazione e della gravità attrattiva di ogni particella che compone la Terra, il nostro pianeta si gonfia all’equatore e viene compresso ai poli. Di conseguenze, l’attrazione gravitazionale della Terra ai poli è leggerissimamente più forte (di circa lo 0,4%) rispetto all’equatore.

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L’obiettivo originale di Einstein, però, era di utilizzare orologi per verificare la validità della sua teoria. Fu solo negli anni Cinquanta che si riuscì a testarne l’efficacia, dato che gli orologi al quarzo o meccanici non erano affidabili per questo tipo di esperimenti. Fu così che venne creato l’orologio atomico: l’idea fu quella di utilizzare la frequenza vibrazionale di un atomo per tenere il tempo. 

L’esperimento di Hafele-Keating.

Fu grazie all’esperimento di Hafele-Keating che si riuscì a verificare con estrema precisione gli effetti del campo gravitazionale terrestre sullo scorrere del tempo. Era il 1971. Gli astronomi Richard Keating e Joseph Hafele presero tre orologi atomici. Ne lasciarono uno in aeroporto, gli altri due se li portarono a bordo di due voli intorno al mondo, uno in direzione opposta all’altro. Quello che volava verso est andava anche nella stessa direzione della rotazione terrestre. E poiché il movimento dell’aereo e la rotazione del pianeta andavano nella stessa direzione, anche le velocità si sommarono: per le sue lancette sarebbe trascorso meno tempo. L’altro venne portato a bordo di un aereo che si muoveva verso ovest, quindi contro la rotazione terrestre.

Al loro ritorno i tre orologi non erano più sincronizzati: quello che aveva viaggiato verso est (nella stessa direzione della rotazione terrestre) era indietro di 59 miliardesimi di secondo, rispetto all’orologio rimasto in aeroporto. Quello che aveva viaggiato verso ovest (e quindi in senso contrario rispetto alla rotazione terrestre) era avanti di 273 miliardesimi di secondo. Sono ovviamente valori impercettibili, ma che dimostrarono ancora una volta quanto avesse ragione Einstein.

https://www.passioneastronomia.it/il-tempo-non-e-lo-stesso-per-tutti-einstein-aveva-ragione-di-nuovo/

sabato 23 giugno 2018

Conferma galattica per la teoria della relatività.

Rappresentazione artistica della galassia ESO325-G004 utilizzata dal telescopio Hubble come una lente d'ingrandimeno cosmica (fonte: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STScI / AURA) © Ansa
Rappresentazione artistica della galassia ESO325-G004 utilizzata dal telescopio Hubble come una lente d'ingrandimeno cosmica (fonte: NASA, ESA, Hubble Heritage Team (STScI / AURA)

Una conferma galattica per la Teoria Generale della Relatività di Einstein arriva dalle ultime osservazioni condotte dal telescopio spaziale della Nasa Hubble e dal Very Large Telescope (Vlt) dell'Osservatorio Europeo Meridionale (Eso) in Cile. I dati, pubblicati sulla rivista Science, rafforzano inoltre l'ipotesi dell'esistenza dell'enigmatica energia oscura che occuperebbe il 70% dell'universo e la cui natura è ancora ignota.
La lente gravitazionale ottenuta dalla galassie LRG 3-757, vista dal telescopio spaziale Hubble (fonte:ESA /Hubble & NASA)
Coordinati da Thomas Collett, i ricercatori dell'Istituto di Cosmologia e Gravitazione dell'Università inglese di Portsmouth hanno realizzato "la misura più precisa della Relatività Generale al di fuori del Sistema Solare". Per farlo, hanno sfruttato un fenomeno previsto proprio da Einstein nella sua teoria: la lente gravitazionale. Si tratta di un effetto lente d'ingrandimento caratterizzato dalla curvatura della luce emessa da una sorgente lontana, a causa della presenza di una massa posta tra la sorgente stessa e l'osservatore.



I ricercatori hanno usato come una lente di ingrandimento cosmica la galassia ESO325-G004, a 500 milioni di anni luce dalla Terra. Hanno poi misurato quanto velocemente si muovono le stelle al suo interno, per capire quanta massa occorre per tenerle insieme nella galassia. "Se due galassie sono allineate lungo la nostra linea di osservazione - ha spiegato Collett - vediamo immagini multiple della galassia più lontana. Misurando la massa della galassia in primo piano siamo in grado di fare calcoli simili anche sulla galassia lontana. Questo - ha concluso - rappresenta una misura della correttezza della Relatività con una precisione mai raggiunta su scala galattica".

venerdì 9 giugno 2017

LA MASSA DI UNA NANA BIANCA DERIVATA DA UNA MICROLENTE GRAVITAZIONALE. - Michele Diodati.

Risultati immagini per nana bianca

Un nuovo test passato a pieni voti per la relatività generale.

A novembre del 1919 Albert Einstein divenne improvvisamente una celebrità mondiale. In un convegno della Royal Society, tenuto il 7 novembre a Londra, erano stati resi noti i risultati della spedizione guidata da Sir Arthur Eddington, che aveva fotografato l’eclissi totale di Sole del 29 maggio dall’isola di Principe, al largo della costa occidentale dell’Africa. Le fotografie mostravano che alcune stelle nei pressi del bordo solare, visibili durante l’eclissi, erano spostate di 1,75 secondi d’arco rispetto alla posizione che avevano nel cielo notturno, quando il Sole era invisibile.

Quella deviazione, doppia rispetto a quella prevista dalla teoria della gravità di Newton, confermava in modo clamoroso le predizioni della relatività generale: la massa del Sole curvava lo spazio nella misura prevista dalla teoria di Einstein, piegando la luce proveniente da stelle distanti, allineate con il bordo solare.

Ma, nelle giuste condizioni, la capacità di una massa concentrata di piegare la luce attraverso l’azione del suo campo gravitazionale poteva dare origine a un fenomeno ancora più spettacolare dell’apparente spostamento della posizione di una stella: poteva creare una lente d’ingrandimento spaziale, in grado di potenziare la luce di un oggetto distante, che si trovasse casualmente allineato alla massa interposta rispetto all’osservatore terrestre. Era il fenomeno della cosiddetta lente gravitazionale.

Einstein, che pubblicò quest’idea nel 1936, disperava che se ne potesse mai avere una prova concreta, poiché l’effetto creato da una qualsiasi stella diversa dal Sole, anche tra le più vicine, era troppo esiguo per essere visto con i telescopi della sua epoca. Ma Einstein è morto 35 anni prima che fosse lanciato il telescopio spaziale Hubble…

Con la sua squisita risoluzione, Hubble ha ripreso nel corso degli anni anelli di Einstein, lenti gravitazionali create da immensi ammassi di galassie distanti miliardi di anni luce e anche microlenti prodotte dal casuale allineamento di una stella in primo piano con una stella di sfondo.

E proprio di microlenti parleremo da qui in poi.

Finora, le microlenti osservate si sono limitate a semplici eventi di illuminazione: la deflessione relativistica della posizione della stella di sfondo era infatti così minuscola da risultare invisibile anche per Hubble (si tratta di uno spostamento nell’ordine dei millesimi di secondo d’arco, cioè tre ordini di grandezza minore rispetto al già piccolo spostamento fotografato da Eddington nel 1919).

Tuttavia, se l’oggetto che fa da lente è sufficientemente vicino, allora con un’attenta pianificazione delle osservazioni e fidando nella potenza di Hubble, è possibile tentare di vedere e soprattutto di misurare anche il piccolissimo spostamento prodotto da una microlente gravitazionale. E questo è esattamente ciò che ha fatto un gruppo di ricercatori guidato da Kailash C. Sahu, i risultati del cui lavoro sono stati resi noti il 7 giugno, durante un incontro della American Astronomical Society.

Prima di descrivere quei risultati, è importante però capire bene come funziona una microlente.

Nella condizione ideale, in cui, rispetto all’osservatore, l’oggetto luminoso lontano, cioè la sorgente, è perfettamente allineato con la massa interposta (cioè la lente), la luce potenziata della sorgente forma un anello intorno alla lente: è l’anello di Einstein.

Invece, nel caso molto più comune, in cui l’allineamento non è perfetto, la lente crea due immagini della sorgente, una delle quali - la più debole - giace all’interno del perimetro dell’anello di Einstein, mentre l’altra, la più luminosa, si trova all’esterno.

Neppure Hubble è in grado di separare la luce dell’immagine della sorgente all’interno dell’anello, perché è troppo vicina alla luce abbagliante della lente, che satura completamente i sensori del telescopio. Però l’immagine della sorgente esterna all’anello può essere abbastanza lontana dalla lente da essere scorta da Hubble. Proprio su questa possibilità si è basato tutto il lavoro del gruppo di Sahu.

Ma qual è l’importanza di tutto ciò, si chiede giustamente il lettore giunto fino a questo punto? Quale conoscenza guadagniamo da una microlente gravitazionale, a parte un piccolissimo spettacolo di luci?

Per capirlo dobbiamo partire da un dato: esiste una relazione matematica ben precisa tra la distanza della lente, la distanza della sorgente, la misura della deflessione della luce della sorgente causata dalla massa della lente e la massa della lente medesima.

Pertanto, se conosciamo a quale distanza da noi si trovano la lente e la sorgente e riusciamo a misurare lo spostamento della sorgente causato dalla massa della lente, possiamo ricavare la massa - precedentemente ignota - della lente.

La massa è uno dei parametri fondamentali in astronomia ed è spesso estremamente difficile da determinare. In un sistema binario, possiamo ricavare la massa delle due stelle che lo compongono da calcoli orbitali, ma, per una stella isolata, la massa si ricava per via indiretta da altri parametri, usando dei modelli standardizzati di evoluzione stellare. In simili casi, poter ricavare la massa di una stella per mezzo di una microlente gravitazionale rappresenta un importante strumento di validazione di quei modelli.

Ma, nel caso dello studio realizzato da Sahu e colleghi, c’era in gioco più del semplice bisogno di conoscere la massa di una stella. Le osservazioni eseguite con Hubble sono servite, infatti, per testare ancora una volta, a un secolo dalla sua pubblicazione, le previsioni della relatività generale. E, ancora una volta, quelle previsioni si sono rivelate in ottimo accordo con le osservazioni e con i dati ottenuti da altre fonti.

Per questo nuovo test della relatività generale, gli autori hanno scelto, dopo una selezione effettuata analizzando il moto di 5.000 stelle relativamente vicine, una microlente gravitazionale prevista per il mese di marzo 2014, in cui una nana bianca chiamata Stein 2051 B, la lente, si sarebbe sovrapposta prospetticamente a una debole stella molto più lontana, la sorgente.

Per eseguire questo studio, la lente e la sorgente sono state osservate con la Wide Field Camera 3 di Hubble 8 volte, in un arco di tempo compreso tra il 1° ottobre 2013 e il 14 ottobre 2015. Come si può vedere dalle immagini allegate al post, il moto della nana bianca ricavato dai due anni di osservazione appare come una linea ondeggiante.



La traiettoria ondeggiante della nana bianca, le cui posizioni sono identificate dai quadratini, in un grafico tratto dallo studio di Sahu e colleghi. Credit: arXiv:1706.02037[astro-ph.SR]

Una linea di questo tipo è la somma del moto proprio della stella e del riflesso del moto orbitale della Terra intorno al Sole. Solo le stelle più vicine presentano un moto ondulatorio così chiaramente visibile e la vicinanza, appunto, è stata una delle ragioni principali per cui i ricercatori hanno scelto proprio questa nana bianca. Il calcolo dell’angolo di parallasse ci dice che Stein 2051 B dista 5,52 parsec dalla Terra, cioè 18 anni luce. A una simile distanza, per la massa della nana bianca, stimata in 0,67 masse solari sulla base dei modelli di evoluzione stellare, lo spostamento della posizione della sorgente determinato dalla microlente del marzo 2014 sarebbe stato intorno ai 2 millesimi di secondo d’arco, ricadendo nei limiti della capacità di Hubble di rilevarlo.



Illustrazione grafica della deflessione della luce della sorgente vista da Hubble, causata dalla massa della nana bianca. Credit: NASAESA, A. Feild (STScI)

Si potrebbe ingenuamente pensare, a questo punto, che sia bastato fotografare la lente e la sorgente a intervalli regolari, per ottenere facilmente le relative distanze angolari e verificare se gli spostamenti erano proprio quelli previsti dalla relatività generale. Ma le cose non sono così semplici.
Senza entrare in dettagli troppo tecnici, il lavoro necessario per passare dal progetto alla sua realizzazione ha richiesto al gruppo di Sahu una serie incredibile di passaggi e di certosine calibrazioni.
La luce stellare satura, infatti, i rilevatori del telescopio tanto più quanto una stella è luminosa e vicina. Nel caso specifico, la nana bianca Stein 2051 B è 400 volte più luminosa della sorgente, una stella di tipo spettrale K distante ben 6.500 anni luce. Ciò ha prodotto nelle immagini di Hubble dei grandi picchi di diffrazione intorno alla nana bianca, cioè degli artefatti, delle macchie luminose che nascondevano completamente in certi casi l’immagine deflessa della sorgente.
Per farla breve, per ottenere un risultato chiaro è stato necessario calcolare le posizioni di lente e sorgente in riferimento a una serie di altre stelle di sfondo visibili nell’immagine. Per ognuna di quelle stelle si è dovuto determinare con accuratezza distanza e moto proprio, allo scopo di ottenere una media generale che potesse fare da riferimento stabile, per valutare gli spostamenti della lente e della sorgente
nel corso dei due anni di osservazioni.


In quest’immagine di Hubble si vede anche Stein 2051 A, la compagna binaria della nana bianca: una nana rossa più luminosa ma molto meno massiccia della nana bianca. La sorgente, cioè la stella di sfondo deflessa dalla microlente, è indicata dalla scritta “source”. È facile rendersi conto che la sorgente non può essere vista, se si trova troppo vicina alla nana bianca, la cui luminosità è 400 volte maggiore. Credit: NASAESA, K. Sahu (STScI)

Ma tutti questi calcoli hanno richiesto innanzitutto di sapere dove si trovava esattamente ciascuna stella all’interno dell’immagine. A tal fine, è stato necessario ridurre ogni stella a una sorgente puntiforme, eliminando i picchi di diffrazione con appositi algoritmi software che calcolano la Point Spread Function, o PSF, cioè il modo in cui il sistema di acquisizione delle immagini di Hubble reagisce allo stimolo luminoso.
Insomma, per arrivare alla massa della nana bianca gli autori hanno dovuto fare un grosso lavoro preliminare di ripulitura, il cui risultato finale è certamente affidabile, ma, come tutte le misurazioni di grandezze fisiche, risente di un’inevitabile incertezza, dovuta ai limiti di sensibilità dello strumento e al modo stesso in cui si propaga la luce.
Questa sorta di odissea tecnico-matematica è stata però alla fine premiata dal risultato. Lente e sorgente sono arrivate a una distanza minima di 103 millesimi di secondo (mas) d’arco il 5 marzo 2014. Il raggio dell’anello di Einstein generato dalla microlente è stato calcolato in 31,53 ± 1,20 mas, il che ha permesso di calcolare - finalmente - la massa della nana bianca Stein 2051 B derivata dalla relatività generale: 0,675 ± 0,051 masse solari.
È un valore in ottimo accordo con la massa della nana bianca derivata dalle osservazioni e dai modelli di evoluzione stellare. Ciò vuol dire che questo studio non rappresenta solo una conferma (l’ennesima) della validità della relatività generale, ma è anche una conferma della validità della relazione massa/raggio nelle nane bianche.
Questa relazione empirica dice che, quanto più una nana bianca è massiccia, tanto più il suo raggio è ridotto. In Stein 2051 B, una nana bianca con un nucleo di carbonio/ossigeno, una fotosfera ricca di elio e una temperatura superficiale calcolata in 7.122 K, il raggio, derivato dalla fotometria, dalla temperatura e dalla parallasse, era stato calcolato in 7.930 km. Per un simile raggio, la massa appropriata, se è corretta la relazione massa/raggio per una nana bianca di questo tipo, è appunto di 0,67 masse solari: esattamente il valore ricavato dal gruppo di Sahu, misurando la deflessione relativistica della sorgente - la stella lontana 6.500 anni luce - nella microlente gravitazionale creata dall’allineamento (imperfetto) con la nana bianca.



https://spazio-tempo-luce-energia.it/la-massa-di-una-nana-bianca-derivata-da-una-microlente-gravitazionale-c7c1cefb15c9

martedì 13 dicembre 2016

Onde gravitazionali, una strana eco fa traballare la Relatività.

I ricercatori hanno analizzato i dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri (fonte: Maxwell Hamilton)
I ricercatori hanno analizzato i dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri (fonte: Maxwell Hamilton)


Piccole anomalie captate dallo strumento Ligo


Una strana 'eco' nelle onde gravitazionali potrebbe mettere in crisi la teoria della relatività: l'osservazione delle 'vibrazioni' dello spazio tempo, una delle più attese conferme della teoria di Einstein, potrebbe trasformarsi in un boomerang. E' quanto sostiene lo studio pubblicato sul sito ArXiv da Jahed Abedi, del Politecnico Sharif di Teheran: i ricercatori avrebbero rilevato la traccia di alcune anomalie nel segnale captato dallo strumento americano Ligo, lo stesso che ha portato a scoprire le onde gravitazionali. 

Traballa la Relatività?
I ricercatori hanno analizzato gli stessi dati di Ligo che hanno portato alla scoperta delle onde gravitazionali e che erano stati generati dalla collisione tra due buchi neri. E' emerso così che i dati in arrivo da Ligo indicherebbero che l'interno dei due buchi neri sarebbe diverso da come lo aveva descritto Einstein. Quella regione sarebbe cioè governata dalle leggi proprie della meccanica quantistica e le misteriose eco percepite insieme ai segnali delle onde gravitazionali sarebbero appunto delle particolari firme dovute a effetti quantistici. "E' sicuramente uno studio interessante, ma i dati sono ancora troppo pochi per giungere a delle conclusioni: sarà necessario osservare ancora molti eventi di questo tipo per ridurre le tante incertezze", ha osservato Gianluca Gemme, coordinatore nazionale della collaborazione europea Virgo per l'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn). "I buchi neri sono un po' il territorio di confine tra il mondo della teoria della relatività e quello della meccanica quantistica, due teorie che non vanno d'accordo tra loro", ha aggiunto. "Non sappiamo - ha detto ancora - che cosa ci sia dentro i confini di un buco nero": al momento, ha detto ancora "questo è un territorio ignoto", che "forse può essere spiegato solo dalla meccanica quantistica".


http://www.ansa.it/scienza/notizie/rubriche/spazioastro/2016/12/12/onde-gravitazionali-una-strana-eco-fa-traballare-la-teoria-della-relativita-_e8f35596-0a1f-4846-8eba-1f03f71a9d78.html