venerdì 10 giugno 2016

Berdini, Montanari, Rossi: se Virginia Raggi sceglie l’eccellenza. - Paolo Flores d'Arcais




Lo strumento contundente e monocorde con cui il renziano Giachetti e “Il Messaggero” di Caltagirone cercheranno di manganellare la candidatura di Virginia Raggi, per impedire che Roma possa essere amministrata senza più bacio della pantofola allo strapotere dei palazzinari e altri intrecci affaristico-politici (con ramificate incursioni criminali, si è visto) è uno solo, benché flautato poi in tutte le salse: Virginia Raggi è eterodiretta dalla ditta Casaleggio.

Se però le indiscrezioni del “Fatto Quotidiano” prima e della “Stampa” poi sulla squadra di assessori che Virginia Raggi ha in mente di mettere insieme saranno confermate, quell’arma che la Nuova Cricca Renziana sciorina in campo nazionale da mane a sera sul sistema (dis)informativo televisivo, ormai occupato manu militari, diventerà spuntata, risibile, ridicola, addirittura un boomerang.

I tre nomi fatti dai due quotidiani costituiscono infatti un concentrato di eccellenza di competenze e una lega straordinaria di serietà e passione civile: Paolo Berdini, Tomaso Montanari, Raphael Rossi. 

Paolo Berdini è uno dei massimi urbanisti italiani, conosce il territorio di Roma quartiere per quartiere, periferia per periferia, sampietrino per sampietrino, ha una visione strategica che attualizza il meglio della cultura urbanistica e ambientalistica di Roma, quella dei Cederna e degli Insolera, per capirsi. Per la lobby palazzinara che da oltre mezzo secolo imperversa nel sacco lanzichenecco della città è come il drappo rosso davanti alle corna del toro. Per i cittadini una garanzia che Roma tornerà loro.

Tomaso Montanari è non solo un grande storico dell’arte di livello internazionale (i suoi studi sul Bernini ormai “fanno autorità”), non solo è un grande divulgatore anche a livello televisivo (sapere divulgare nel rigore e nella serietà è difficilissimo, potrei portare vari esempi di pessima divulgazione per quanto riguarda l’arte, basati sulla notorietà da risse di talk show anziché sulla competenza), è anche un conoscitore senza pari del patrimonio culturale italiano e delle possibili strategie per valorizzarlo (in direzione opposta a quella disastrosa di Renzi e Franceschini): sarebbe un ottimo ministro della cultura, perciò un assessore fuoriclasse.

Raphael Rossi è uno dei massimi studiosi dei sistemi di smaltimento del rifiuti presi nel loro ciclo intero: nel futuro, ma ormai già nel presente, un problema cruciale della società industrializzata, come hanno capito perfettamente le mafie che già da decenni in questo settore lucrano a dismisura con tutte le cordate di politicanti. Studioso ovviamente non significa, come crede Renzi, intellettuale astratto (in realtà Renzi usa altre espressioni, insultanti, da tipica invidia di ignorante): Rossi ha lavorato per molte amministrazioni locali interessate a realizzare sul serio lo “smaltimento virtuoso” dei rifiuti, con risultati che vengono studiati anche all’estero.

Non voglio indulgere all’ottimismo, la cautela è d’obbligo. Ma se le indiscrezioni sono vere, e se anche per gli altri assessorati Virginia Raggi intende muoversi con questi criteri (eccellenza nella competenza tecnica e passione civile riformatrice, contro tutte le lobby e gli interessi per loro natura ob-sceni) Roma potrebbe avere una squadra di assessori che renderebbe impossibile per qualsiasi cittadino mediamente serio, onesto, desideroso di una città vivibile, non votare per Virginia Raggi.

Certo, dall’altra parte Bertolaso ha fatto outing per Giachetti... Prosit.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/berdini-montanari-rossi-se-virginia-raggi-sceglie-l%E2%80%99eccellenza/

Sanità, 11 milioni di italiani rinunciano alle cure per difficoltà economiche.

Attesa in ospedale per visite mediche

Code e costi in aumento. Il dato emerge dalla ricerca Censis-Rbm, presentata oggi in occasione del Welfare Day: "L'universo della sanità negata tende a dilatarsi".

Roma, 8 giugno 2016 - Aumenta il numero degli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare a prestazioni sanitarie a causa di difficoltà economiche. È quanto emerge dalla ricerca Censis-Rbm, presentata oggi in occasione del Welfare Day. Per molti pagare vuol dire più qualità, sicurezza e minore attesa. Ma non tutti possono permetterselo e devono rinunciare alle cure: dai 9 milioni nel 2012, sono diventati 11 milioni nel 2016, gli italiani che hanno dovuto rinviare o rinunciare, per motivi economici, a prestazioni sanitarie.
Tra chi non può più finanziarsi le prestazioni di cui avrebbe bisogno, in particolare troviamo 2,4 milioni di anziani, ma anche 2,2 milioni di millennials, ovvero i nati tra gli anni '80 e il 2000. 
"L'universo della sanità negata tende a dilatarsi", tra "nuovi confini nell'accesso al pubblico e obbligo di fatto di comprare prestazioni sanitarie", spiega la ricerca. Ma meno sanità vuol dire anche "meno salute per chi ha difficoltà economiche o comunque non riesce a pagare di tasca propria le prestazioni nel privato o intramoenia (cioè le prestazioni erogate al di fuori dell'orario di lavoro dai medici di un ospedale, che utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell'ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa)".
Negli ultimi due anni è aumentata di 80 euro a persona la spesa di tasca propria destinata alla salute, e non rimborsata dal Servizio Sanitario Nazionale. Dal 2013 al 2015 si è passati infatti da 485 a 569 euro procapite. 
Nello stesso arco di tempo invece è salita a quota 34,5 miliardi di euro la spesa sanitaria privata, con un incremento del 3,2%: il doppio dell'aumento della spesa complessiva per i consumi delle famiglie nello stesso periodo (pari a +1,7%). 
Dei 7,1 milioni gli italiani che nell'ultimo anno hanno fatto ricorso all'intramoenia, il 66,4% lo ha fatto proprio per evitare le lunghe liste d'attesa. Un 30,2% invece si è rivolto alla sanità a pagamento anche perché i laboratori, gli ambulatori e gli studi medici sono aperti nel pomeriggio, la sera e nei weekend. 
Ma il fattore che pesa di più è il declino della qualità del servizio sanitario pubblico. Per il 45,1% degli italiani il servizio sanitario della propria regione è pegggiorato negli ultimi due anni: lo pensa il 39,4% dei residenti nel Nord-Ovest, il 35,4% nel Nord-Est, il 49% al Centro, il 52,8% al Sud. Per il 41,4% è rimasta inalterata e solo per il 13,5% è migliorata.

giovedì 9 giugno 2016

Elezioni Napoli 2016, da De Luca a Cozzolino fino a Renzi: la carriera politica della candidata dem indagata. - Vincenzo Iurillo



Anna Ulleto è accusata di associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio. E' comparsa sulla scena alle Regionali campane del 2015 nella lista a sostegno dell'attuale governatore, ma non venne eletta. E' vicepresidente della Onlus Mondo Nuovo e coordinatrice delle opere di gestione del Banco delle Opere di Carità per famiglie indigenti.

Democratica, renziana, cozzoliniana. La sintesi del ritratto politico di Anna Ulletola candidata Pd al consiglio comunale di Napoli indagata per associazione a delinquere finalizzata al voto di scambio, è tutta qui. Appare sulla scena alle Regionali campane del 2015. Si candida in lista dem a sostegno di Vincenzo De Luca ed ottiene un ottimo risultato, 7714 preferenze. Non sufficienti però per essere eletta. Un’esperienza che le è tornata utile per riproporsi alle recenti comunali, dove salvo clamorose sorprese, grazie ai 2263 voti conquistati verrà eletta nell’aula di Palazzo San Giacomo. Elezione certa in caso di vittoria di Luigi de Magistris, condizionata invece alle dimissioni di Valeria Valente (deputata, valuterà “non da sola”, ha detto in conferenza stampa, se mantenere o meno il doppio incarico), se a prevalere dovesse essere Gianni Lettieri.
Ulleto, 46 anni, compagna di un imprenditore, è iscritta al circolo dem di Barra ed anima importanti iniziative nel mondo del sociale. E’ vicepresidente della Onlus “Mondo Nuovo” e coordinatrice delle opere di gestione del Banco delle Opere di Carità per famiglie indigenti. Rivendica nei curriculum allegati alle candidature di aver “imparato ad organizzare in modo professionale le scelte di metodo per poter ‘leggere’ un’organizzazione alla luce di vari elementi di riferimento”.
Nelle elezioni di Napoli la Ulleto è stata accompagna politicamente ed elettoralmente dall’europarlamentare ed ex assessore regionale Andrea Cozzolino, uno dei leader campani di “Rifare l’Italia”, la corrente Pd dei Giovani Turchi di Matteo Orfini, Valeria Valente e del ministro della Giustizia Andrea Orlando. Le pagine social della signora Ulleto sono piene di foto insieme a Cozzolino durante iniziative e convegni. Il 24 aprile con l’apertura di un comitato elettorale a Barra in via Domenico Minichino, Ulleto aprì la campagna elettorale insieme a Valente e Antonio Borriello, il consigliere diventato famoso durante le primarie per essere stato ripreso di nascosto da Fanpage mentre regalava qualche euro agli elettori in prossimità dei seggi. Borriello, in carica da due consiliature, non ce l’ha fatta. La Ulleto forse sì. Circola anche una immagine di campagna elettorale di Ulleto con Graziano Delrio. Il ministro di Renzi venne a Barra per un’iniziativa con Valente, Ulleto era tra il pubblico e alla fine un militante li ritrasse insieme, sorridenti, per una foto ricordo.
"Voti di scambio", prassi abituale, anche se sempre smentita, utilizzata da chi vuole ad ogni costo, ma senza meriti, ottenere un posto dove fare ed ottenere favori leciti ed illeciti. 
E' un reato, ma è molto usato dagli pseudo politici. 
Con l'abolizione dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, i politicanti hanno trasformato il lavoro a tempo indeterminato in un precariato perpetuo, creandosi un pacchetto di ‪#‎postidilavoro‬ da utilizzare all'occorrenza ogni volta che ne hanno necessità.
La politica, che dovrebbe significare "arte di governare", nelle mani di questi esseri indefinibili è diventata una cosa ignobile e sporca.

Elezioni Amministrative 2016 – Le bugie seriali di Renzi e dell’Istituto Cattaneo. - Andrea Scanzi

Elezioni Amministrative 2016 – Le bugie seriali di Renzi e dell’Istituto Cattaneo


Matteo Renzi è un politico molto vecchio e molto banale. Un democristiano debole e senza troppo talento, ma comicamente appoggiato da larga parte dei media nostrani. Se poi lui è debole, la sua “classe dirigente” è persino peggio di lui. Rotta, Gozi, Picierno, Nardella, Boschi, Faraone, Carbone: il nulla assoluto. E pure arrogante. Auguri.
Una delle caratteristiche della vecchia politica, che il vecchio Renzi dice di voler combattere ma che ovviamente rinvigorisce e reitera, è fingersi vincente quando si è in realtà persoNel nervoso monologo di lunedì mattina, Renzi ha finto di ammettere la sconfitta, salvo poi sparare che quasi ovunque il Pd è sopra il 40%. Matteo: de che? Dove? Quando? Forse nella sua testa o alla Playstation. Il Pd non raggiunge quasi mai il 40%, anche perché si vergogna così tanto di essere Pd da presentarsi quasi sempre sotto mentite spoglie: liste civiche, nomi fantasiosi. Tutto pur di vivere in clandestinità. Il simbolo Pd c’era solo 130 volte su più di 1300 Comuni: l’11% circa. Una miseria. Persino meno del M5S, che come noto si presenta da solo, con il suo simbolo e non certo ovunque: più o meno in 250 Comuni. Pochi.
E’ errato dire che i 5 Stelle abbiano trionfato domenica. Sono ancora molto incostanti e spesso neanche esistenti. A volte hanno avuto prestazioni trionfali (Roma, Torino), a volte discrete (Bologna), a volte pressoché pietose (Napoli, Milano). E’ però un dato di fatto che, complessivamente, il loro risultato sia stato buono e in crescita ovunque in termini percentuali. Oltretutto, da sempre, le Amministrative sono il loro tallone d’Achille.
Esiste però la realtà e la percezione della realtà. Ed è la percezione della realtà che interessa Renzi e renziani, sempre più costretti a edulcorare la loro (triste) realtà con la creazione del favoloso mondo di Renzì. La tattica è sempre la stessa: si inventa una cazzata e la si riverbera anzitutto sui social. E’ qui che arriva la grande bufala dell’Istituto Cattaneo. Per carità: nel mondo reale non se n’è fregato nessuno, ma in Rete ieri ha avuto un discreto successo e ovviamente qualche giannizzero renzino l’ha pure sdoganata in radio, giornali e tivù. Daje.
La “notizia”: secondo l’Istituto Cattaneo il Pd ha vinto, il centrodestra è andato bene e i 5 Stelle hanno perso. E’ vero? No, ma questo è secondario. A Renzi la realtà non interessa, e va capito, perché se gli interessasse sarebbe depresso da mane a sera.
Cos’è l’Istituto Cattaneo? E’ una Fondazione bolognese, presieduta fino a poco tempo fa da Elisabetta Gualmini, oggi renzianissima in servizio permanente nonché vicepresidente della Giunta regionale. Una tipetta sopra le parti, ecco. Come gli esponenti del Pd che siedono nel cosiddetto “board” – lo spiega sontuosamente oggi Marco Palombi sul Fatto – e che ha tra i finanziatori la Regione, 3 ministeri, Legacoop, eccetera. Davvero: un istituto sopra le parti.
L’articolo in oggetto, che ha esaltato – in mancanza di orgasmi migliori – le Meli e i Rondolino, ha per titolo “Comunali 2016: chi ha vinto e chi ha perso”. E qui si sogna davvero, perché il metodo “analitico” seguito dall’Istituto è una roba che se solo mi fossi azzardato a usarlo io quando facevo il Liceo, il mio professore di matematica mi avrebbe soppresso a badilate. Giustamente.
Sogniamo quindi con i Cattaneo (old) boys: il centrosinistra prende il 34.2% (+1 rispetto al 2013), il centrodestra il 29.5% (più 4 rispetto al 2013) e gli appestati grillini scendono al 21.4% (4 punti in meno del 2013). E’ vero? No. I renzini-cattanei prendono (a caso) i dati di 18 capoluoghi di provincia su 24 e li raffrontano (a caso) ora con le Comunali 2011 e ora con le Politiche 2013. Perché non con le Europee 2014? Perché Renzi quella volta aveva ottenuto un plebiscito, e il calo sarebbe stato evidente. Loro dicono: “è il confronto politico più prossimo e politicamente più pregnante”. Chi lo decide? I renzini-cattanei, giudici e arbitri di loro stessi. Daje. Attenzione poi a quel “18 su 24”. Quali sono i 6 capoluoghi di provincia esclusi, con la scusa puerile della “non disponibilità tempestiva dei dati”? Guarda caso sono capoluoghi in cui il Pd è andato malissimo: Latina (dal 18.7 al 12.4), Benevento (dal 23.6 al 16.9). Eccetera.
E gli zozzoni 5 Stelle? Sempre per puro caso, non erano presenti in 3 dei 18 capoluoghi “analizzati”: Varese, Rimini, Ravenna. Chiaramente quei tre “0” abbassano e non poco la media del M5S, ma i renzini-cattanei garantiscono – dopo simulazioni di voto col Vic20 di Nardella – che “questo non altera significativamente il risultato finale”.
Qual è la sintesi di tutto questo? Che ci prendono in giro. Sempre. La famosa storia del pisciarci in testa, per poi dirci che piove.

mercoledì 8 giugno 2016

Referendum costituzionale, se Massimo Cacciari dimentica Karl Popper. - Angelo Cannatà




Ho letto l’intervista di Mauro a Cacciari (la Repubblica, 27 maggio) e non riesco a liberarmi dal senso di smarrimento che trasmettono le sue parole. L’impressione molto forte è che Cacciari storicizzi e retroceda fino agli anni Ottanta (“Abbiamo provato a riformare le istituzioni per quarant’anni, e non ci siamo riusciti”), per spostare l’asse del discorso sul passato e non confrontarsi realmente sui limiti della riforma, della quale dice, certo, che è piena di difetti, ma bisogna votarla perché “realizza alcuni cambiamenti che volevamo da anni”. 

Ho molta stima per Cacciari del quale apprezzo non solo Krisis, Icone della legge, Dell’inizio, eccetera, ma anche i testi giovanili scritti per Contropiano. Una stima che non mi impedisce d’evidenziare – anzi mi stimola – quanto la sua posizione politica (sì al referendum) sia poco strutturata e fondata filosoficamente. Insomma, Aristotele lo bacchetterebbe per le conclusioni che trae dalle sue premesse: “è una riforma concepita male e scritta peggio”; “punta alla concentrazione del potere”; “la montagna ha partorito un brutto topolino”; “è una riforma modesta e maldestra”; abbinata alla legge elettorale “punta a dare tutto il potere al capo”; dunque: la voto. Incredibile! 

Si avverte un senso di vertigine pensando al profondo sdoppiamento di personalità che deve vivere Cacciari: centinaia di pagine di filosofia per riflettere, con stile e rigore logico, sulle domande del Parmenide platonico e ragionare con lucidità su Cusano e Schelling, per poi - spostato lo sguardo sulla riforma della Costituzione - approdare ad un orrendo e spicciolo pragmatismo. Fa male vedere Cacciari accodarsi a quanti sostengono che non c’è alternativa ergo bisogna votare sì anche se la riforma della Costituzione non piace. A questo siamo. Speravamo di più da un filosofo che stimiamo da anni e volevamo al governo, non solo della sua Venezia, ma del Paese, mossi dalla suggestione platonica dei filosofi re. Invece, Cacciari ci dice che dobbiamo tapparci il naso (“Vuole fingere – obietta a Mauro – che non abbiamo votato spesso turandoci il naso?”), che dobbiamo scegliere il “male minore” e votare sì. 

Chi l’ha detto, caro Cacciari, che la riforma Renzi sia il male minore? E’ vero il contrario. Se la riforma del Senato sommata all’Italicum svuota la democrazia e concentra il potere nelle mani del capo - come lei riconosce - è evidente che non ci sia male maggiore. Evidente per una serie di motivi che il logos e la tradizione filosofica hanno acquisito da anni. 

Non devo essere io a spiegare a Cacciari che Karl Popper sulla concentrazione del potere nelle mani di un capo ha scritto pagine decisive: la domanda fondamentale in democrazia non è “Chi deve governare?” - osserva - quanto piuttosto: “Come possiamo organizzare le nostre istituzioni politiche in modo tale che governanti cattivi o incapaci (che cerchiamo di evitare, ma che tuttavia possono capitarci) arrechino il minor danno possibile e che noi possiamo rimuoverli senza l’uso della forza?” Il problema della politica è “organizzare le istituzioni” per impedire che l’esecutivo prevarichi sul legislativo. 

Nel referendum di ottobre sulla Costituzione la posta in gioco è questa. Alta, fondamentale e non derubricabile a “male minore”. Si tratta di decidere, col nostro voto, se la democrazia italiana continuerà ad avere (o no) gli strumenti per frenare l’abuso di potere del Premier. E’ la questione posta da Popper, su cui è nata una teoria della democrazia. Che Cacciari la sottovaluti e preferisca turarsi il naso è peggio di un delitto. E’ un errore.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/referendum-costituzionale-se-massimo-cacciari-dimentica-karl-popper/

Cacciari, come perdersi in un bicchier d'acqua...
Per un punto Martin perse la cappa...
E' demoralizzante notare come uomini di una certa levatura morale e mentale si inchinino al tristo e bieco gioco della politica.
Sta succedendo sempre più spesso e a molti....
La politica ha il potere di comprare tutti? E' così accattivante?

Nel nome di J. P. Morgan. Le ragioni economiche della controriforma costituzionale. - Guglielmo Forges Davanzati



Il progetto di riforma costituzionale è stato autorevolmente commentato da numerosi costituzionalisti, che hanno concentrato la loro attenzione sugli aspetti propriamente giuridici e politici del cambiamento prospettato[1]. Nel dibattito che si è sviluppato in questi mesi, minore attenzione hanno ricevuto interpretazioni che attengono a ragioni di carattere propriamente economico che spingono verso la riforma della Costituzione italiana.

Per individuarle conviene partire da un fatto ampiamente noto. J.P.Morgan, una delle Istituzioni finanziarie più importanti su scala globale, in un documento del 2013, ha rilevato l’impronta “socialista” che sarebbe implicita nella nostra Carta costituzionale[2]

In effetti, si tratta di un’interpretazione che può essere condivisa se si leggono gli articoli che più direttamente riguardano la sfera economica e, in particolare, quelli che danno allo Stato anche funzioni di programmazione. Evidentemente, dal punto di vista degli interessi della finanza che quella Istituzione rappresenta, la presenza di elementi di “socialismo” nella nostra Costituzione deve essere particolarmente sgradita. Va chiarito che il documento di J.P. Morgan è estremamente rilevante, anche al di là del progetto di riforma costituzionale, perché aiuta bene a comprendere i processi di depoliticizzazione in atto: ovvero processi che demandano a tecnici non eletti la gestione della politica economica, a condizione che quest’ultima sia concepita in modo da “non essere invisa alle banche centrali”[3].

La propaganda governativa non richiama l’ammonimento di J.P. Morgan, non fa riferimento al ‘socialismo costituzionale’ italiano, preferendo concentrarsi essenzialmente su due aspetti. 

1. La riforma costituzionale si rende necessaria per ridurre i costi della politica. 

2. La riforma costituzionale si rende necessaria per accelerare i tempi di decisione.


Il primo argomento appare suscettibile di una immediata critica, che riguarda il fatto che, se davvero si intende ridurre i “costi della politica”, non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta. Peraltro, come è stato osservato, la previsione per la quale i senatori non percepiranno indennità in quanto senatori (il che, ci viene detto, è un risparmio) è combinata con la previsione che le medesime indennità i senatori le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi[4]. Ciò al netto del fatto che – ed è bene ricordarlo – la remunerazione accordata a chi svolge attività politica ha il suo fondamento nella possibilità data ai meno abbienti di assumere incarichi. E’ evidente che nella situazione attuale questi emolumenti hanno assunto dimensioni la cui legittimazione è oggettivamente difficile da darsi, ma è altrettanto evidente che la politica ha un costo; riforma o meno. 

Vi è di più, considerando che sebbene elevati in termini assoluti questi costi appaiono assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico. E che serve semmai a generare avanzi di bilancio. E tuttavia, nel confronto con la media europea, ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove.

Il secondo argomento, apparentemente inoppugnabile (chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?), è maggiormente rilevante giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche. La Costituzione che si intende ridisegnare è, a ben vedere, una Costituzione modellata su parametri di efficienza economica, ovvero, finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri. Questo sembra il punto essenziale sul quale si gioca questa partita. In un contesto che si definisce di globalizzazione, effettivamente ciò che conta è la rapidità delle decisioni politiche che asseconda la rapidità dei processi di produzione e vendita di merci: la c.d.time-based competition che diventa competizione fra Stati anche sulla rapidità delle scelte politiche. Letta in questa prospettiva, la riforma appare del tutto coerente con una logica, per così dire, efficientista: logica che, tuttavia, è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali. Ciò che conta è l’efficienza dei processi decisionali, come si legge nei documenti preparatori della riforma redatti da questo Governo (peraltro, del tutto in linea con i governi che lo hanno preceduto).

Vi è anche da rilevare che il tema della qualità delle istituzioni è stato oggetto, negli ultimi anni, di studi compiuti prevalentemente da economisti (si pensi, innanzitutto, alla c.d. analisi economica del diritto). Si tratta di studi che, applicando l’assunto della scelta razionale ai problemi di decisione politica e di disegno delle istituzioni, giungono fondamentalmente alla conclusione che è ottimale quel disegno delle istituzioni (costituzioni comprese) che istituisce un meccanismo di incentivo/disincentivo tale da rendere possibile la massimizzazione del benessere sociale[5].

In un certo senso, è questa la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio).

Ma qui, il punto ulteriore in discussione riguarda il nesso che viene a istituirsi fra ‘governabilità’ ed efficienza, dal momento che non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema. In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti.

A ben vedere, sussistono ottime ragioni per ritenere che il decisore politico è “catturato” da gruppi di interesse e che, ponendo la questione in questi termini, il solo risultato ragionevolmente prevedibile a seguito della riforma costituzionale può configurarsi sotto forma di maggiore governabilità a beneficio dei gruppi di interesse che il Governo difende[6]. E, almeno in questa fase storica, non sono certo né i lavoratori dipendenti, né i pensionati, né le piccole imprese. Va chiarito, a riguardo, che esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita economica risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito. Ma si tratta di una letteratura marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’.

In questo senso, il referendum ha una notevole implicazione economica, giacché pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente. 

NOTE
[1] Si veda, fra gli altri, per il fronte del NO: Zagrebelsky, Il mio no per evitare una democrazia svuotata, Micromega-on line, maggio 2016. Si rinvia anche a G.Azzariti,Contro il revisionismo costituzionale, Bari, Laterza, 2016. Per le ragioni del SI si rinvia, fra gli altri, a Salvatore Curreri, Le critiche che la riforma costituzionale non merita:http://www.huffingtonpost.it/salvatore-curreri/riforma-costituzionale-critiche-giuseppe-gargani_b_10201920.html

[2] J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfay there, “European Economic Research”, 28 marzo 2013. Per un commento a questo articolo, si veda:http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/

[3] H. Radice, Reshaping fiscal policies in Europe, “The Bullet”, febbraio 2013. 

[4] D. Gallo, Le ragioni del NO all’arretramento costituzionale, Micromega on-line, 31 maggio 2016. 

[5] V., fra gli altri, R.A Posner, The economic analysis of law, Harvard, Harvard University Press, 1999. 

[6] Sul tema, si rinvia, fra gli altri a P. Burnham, New Labour and the politics of depoliticization, “British Journal of Politics and International Relations” 3/2, 2001, pp. 127-149, che sottolinea la sostanziale impossibilità di coniugare le nuove modalità di regolazione del capitalismo con la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta nel Novecento.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/nel-nome-di-j-p-morgan-le-ragioni-economiche-della-controriforma-costituzionale/

La democrazia senza velo. - Paolo Flores d'Arcais



La società belga “G4S Secure Solutions” ha come norma che i dipendenti non possano esibire segni di appartenenza religiosa. Samira Achbita dopo tre anni di lavoro pretende di indossare il velo islamico e l’azienda la licenzia. Il “Centro belga per le pari opportunità e la lotta al razzismo” fa causa alla società e la Cassazione del Belgio investe del problema la Corte di giustizia europea, il cui avvocato generale, Juliane Kokott, conclude a favore dell’azienda.

Sumaya Abdel Qader, leader musulmana “progressista” e candidata del Pd al Consiglio comunale di Milano, si indigna: «Mettersi il velo è una pratica religiosa, che dovrebbe essere garantita dall’ordinamento giuridico a tutela della libertà religiosa». Sumaya Abdel Qader ha torto, e con lei i moltissimi “multiculturalisti” di una “sinistra” anti-illuminista che ha completamente perduto la bussola dell’eguaglianza e dell’emancipazione. In una società democratica i simboli religiosi dovrebbero anzi essere vietati in tutti gli uffici e servizi pubblici, scuola in primis (e il divieto dei privati non dovrebbe essere considerata discriminazione).

Un ufficio pubblico è infatti un bene comune, deve appartenere a tutti, non solo ai cittadini diversamente credenti ma a tutti i diversamente miscredenti e atei. Laddove si esibisca o campeggi un simbolo di appartenenza religiosa quello spazio è sottratto a quanti non vi si riconoscono, è confiscato e privatizzato. Che i simboli religiosi consentiti siano più di uno non cambia nulla, lottizza la confisca tra alcune fedi, ma una prevaricazione plurale sempre prevaricazione resta. 

Per garantire eguaglianza bisognerebbe che ogni possibile religione (compreso il “Dio degli spaghetti volanti” la cui Chiesa è ufficializzata negli Usa) e ogni possibile ateismo avessero i propri simboli appesi alle pareti, ma così non saremmo allo spazio comune bensì al bailamme delle identità in conflitto. Esattamente l’opposto dell’eguale cittadinanza, l’unica appartenenza che una democrazia riconosce.

Sumaya Abdel Qader e i “multiculturalisti” di “sinistra” naturalmente sono in buona compagnia, il Papa, niente meno. Non solo il fondamentalista Karol Wojtyla e il teologo della crociata contro la modernità Joseph Ratzinger, per i quali l’aborto è “il genocidio del nostro tempo” (medici e infermieri che rispettano la volontà della donna all’interruzione della maternità messi moralmente sullo stesso piano di un Ss, del resto l’anatema di Wojtyla, perché non vi fossero dubbi, fu pronunciato in Polonia a pochi chilometri da Auschwitz), ma anche il buonissimo e apertissimo Francesco che manda ormai in estasi fior di “laici” in debito di “Senso” e marrani del valore fondante e irrinunciabile della sinistra, l’eguaglianza sostanziale.

Ma questa convergenza, che vorrebbe le fedi religiose come humus per la democrazia contro il pericolo nichilista, e che ha affatturato anche pensatori un tempo di riferimento come Habermas, non fa che rendere esplicita e improcrastinabile per l’intera Europa (se ancora ha una chance di nascere) la necessità di radicarsi in una laicità coerente e adamantina, quella “alla francese”, rettificata anzi in alcune sue “concessioni” (scuole private, ad esempio).

La democrazia per funzionare, infatti, e più che mai per uscire dalla sua devastante crisi attuale, ha bisogno di decretare l’ostracismo di Dio dalla sfera pubblica. Valga il vero.

L’eguale sovranità non consiste nella mera conta delle volontà, ma nell’argomentazione reciproca con cui i cittadini mettono capo alla decisione della legge attraverso la scelta dei loro rappresentanti. Se la sfera pubblica si riduce alla semplice conta di volontà irrelate e non vincolate al dovere di “fornire ragioni”, il terreno è già fertile perché si passi dal “perché sì” del voto al “perché sì” del manganello. Un cittadino, e un politico, devono argomentare le proprie scelte, condizione pregiudiziale (benché non sufficiente) per essere tutti concittadini. Ma ogni argomento-Dio nega il dialogo, è autoreferenziale, ne esclude i non credenti o i diversamente credenti, ecco perché il ricorso alla fede non deve avere spazio nella sfera pubblica. 

Solo i fatti accertati, la logica, e i valori fondamentali della Costituzione (per la nostra, nata dalla Resistenza, suonano “giustizia e libertà”). Se invece si può “argomentare” perché “Dio vuole così” (lo hanno fatto fin troppi presidenti americani) siamo già alla sharia. Che non a caso, con la benedizione di governi “cristiani”, è ormai vigente in molti ghetti delle metropoli europee.


http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-democrazia-senza-velo/

Flores d'Arcais mi trova pienamente d'accordo.
Oltretutto il simbolismo del velo, in particolare, non sarebbe altro che un rafforzativo della presunta inferiorità, sottomissione della donna nei confronti dell'uomo e, quindi, non farebbe altro che fomentare il femminicidio.