mercoledì 29 novembre 2017

Aprite gli occhi sulle fake news! Sono solo un pretesto per censurare. Ve lo dimostro qui. - Marcello Foa



Il Cuore Del Mondo
Non è un caso. E’ un metodo. Con un pretesto, le fake news, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere. Attenzione, non si tratta di una questione meramente italiana bensì di quella che definirei una “corale internazionale”. Il là lo hanno dato gli Stati Uniti, dove, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano, nella consapevolezza che la prima grande e inaspettata sconfitta dell’establishment che governa gli Usa da decenni non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream. A seguire si sono mobilitati diversi Paesi europei, la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post Brexit e, ovviamente, l’Italia, del post referendum.
Sia chiaro: il problema delle fake news esiste; soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro. Gli esempi, anche recenti, abbondano. O quando vengono usate dagli haters, gli odiatori, ovviamente senza mai esporsi in prima persona. Ma le soluzioni vanno trovate nel rispetto della libertà d’opinione e nell’ambito del sistema giudiziario del singolo Paese. La diffusione sistematica di notizie false al solo fine di generare visualizzazioni è semplicemente una truffa e in quanto tale va trattata. Il problema degli haters è più complesso. Io da sempre sostengo che bisogna avere il coraggio di mettere la faccia e che l’anonimato assoluto per chi si esprime pubblicamente non sia salutare in una vera democrazia. Anche in questo ambito si possono trovare soluzioni intelligenti ad hoc.
Le proposte che sono state formulate negli ultimi tempi – e guarda caso tutte su iniziativa del Pd – si caratterizzano, invece, per la tendenza da un lato a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali – talvolta anche extraterritoriali – dall’altro per l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee.
Non mi credete? Eppure è così. Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto e contro cui ho condotto una battaglia furibonda su questo blog? La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia; la seconda delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo. Ovvero appropriandosi di funzioni che spettano normalmente alla magistratura.
E leggete la proposta di legge contro le Fake News annunciata da Renzi. Cito una fonte insospettabile, la Repubblica, che la definisce una legge sulle fake news che non parla di fake news. Scrive Andrea Iannuzzi:
Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici.
Persino la Repubblica – sì proprio il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le Fake News – non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà, e dal riconoscere che la libertà di opinione è in pericolo.
E non finisce qui. Sentite cosa dice Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, che in un’intervista al Corriere della Sera rivela:
Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite artificial intelligence riesca a capire se una notizia è falsa. L’altra idea è creare una piattaforma di natural language processing che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie. A mio avviso ciò dovrebbe essere fatto anche a livello istituzionale.
Traduco: significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una fake news. Scusate, ma io rabbrividisco. Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati. D’altronde sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un’”esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web.
Perché per gente come Renzi e Carrai e Gentiloni, tutti veri splendidi progressisti, evidentemente non può che esistere una sola Verità. Quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito.
Cose che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare.

lunedì 27 novembre 2017

Perché il cervello umano è diverso da quello degli scimpanzé.

Un'interpretazione artistica del cervello umano (fonte: Allan Ajifo) © Ansa
Un'interpretazione artistica del cervello umano (fonte: Allan Ajifo)

Sarebbe la maggiore espressione di alcuni geni in specifiche aree cerebrali - come la neocorteccia, responsabile delle funzioni cognitive superiori - a fare la differenza tra il nostro cervello e quello degli scimpanzé. Lo dimostra una nuova ricerca che ha confrontato i tessuti cerebrali di diverse specie di primati.(red)

Il cervello umano non è semplicemente una versione ingrandita del cervello dei nostri antichi antenati. Secondo un nuovo studio pubblicato su "Science" da un gruppo di ricercatori della Yale University, l'approfondita analisi dei tessuti cerebrali di diverse specie di primati mostra differenze sostanziali, oltre che sorprendenti, nell’espressione di alcuni geni.

"Il nostro cervello è tre volte più grande di quello degli scimpanzé o delle scimmie, ha molte più cellule, e quindi ha una potenza di calcolo molto superiore", ha spiegato Andre M.M. Sousa, coautore dello studio. "Tuttavia, si possono osservare alcune peculiarità nel modo in cui le singole cellule funzionano e si connettono tra loro".

Sousa e colleghi hanno studiato campioni di tessuto cerebrale di sei esseri umani, cinque scimpanzé e cinque macachi, ricavando il profilo di trascrizione dei geni in 247 campioni complessivi, rappresentativi di diverse regioni cerebrali tra cui l'ippocampo, l'amigdala, lo striato, il nucleo medio-dorsale nel talamo, la corteccia cerebellare e la neocorteccia.

Complessivamente, l'espressione dei geni negli esseri umani è molto simile a quella delle scimmie in tutte le regioni cerebrali, anche nella corteccia prefrontale, o neocorteccia, sede delle funzioni cognitive che più ci distinguono dagli altri primati.

Perché il cervello umano è diverso da quello degli scimpanzé
Science Photo Library/AGF


A un'analisi più sottile e approfondita, tuttavia, si evidenziano alcune differenze. Due geni in particolare sono fortemente espressi nella neocorteccia e nello striato umani molto di più che nella neocorteccia degli scimpanzé.

Si tratta dei geni TH e DDC, che codificano per due enzimi coinvolti nella produzione di dopamina, un neurotrasmettitore cruciale per le funzioni di ordine superiore, 

come la memoria di lavoro, il ragionamento, il comportamento esplorativo e l'intelligenza complessiva, la cui produzione, tra l'altro, è alterata nei soggetti affetti dalla malattia di Parkinson.
Queste specifiche differenze nelle espressioni geniche secondo i ricercatori hanno una notevole influenza sul funzionamento delle cellule cerebrali e sui loro meccanismi di differenziazione e di migrazione.

Dato però che nei primati non umani questi geni non sono assenti ma solo meno espressi, secondo Sousa “è molto probabile che l'espressione di questi geni nella neocorteccia andò perduta in un nostro antenato comune ed è poi riapparsa nel ramo filogenetico degli esseri umani”.

Altre differenze distintive sono state riscontrate all'interno del cervelletto, il che è sorprendente, dato che si tratta di una delle regioni cerebrali evolutivamente più antiche. In particolare esiste un gene, chiamato ZP2, che è attivo solo negli esseri umani. Anche questo dato è sorprendente dato che si tratta di un gene correlato alla selezione degli spermatozoi da parte degli ovociti umani.

Infine, gli autori hanno riscontrato una notevole differenza nell'espressione del gene MET, correlato allo sviluppo di disturbi dello spettro autistico, nella corteccia prefrontale degli esseri umani rispetto ad altri primati considerati.



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Abbiamo provato a intervistare "l'erede di Einstein" ma ha declinato. Il suo perché è degno di un genio. - Renato Paone



"Sono onorata dalla richiesta, ma in questo momento non posso rispondere fino a quando non avrò compiuto il mio dovere per la Fisica".


"Il genio - dice un vecchio proverbio - non ha bisogno di lettere di nobiltà". E nemmeno di grandi spazi su copertine di importanti riviste internazionali. Dedicare tempo a interviste, a domande e quant'altro rappresenterebbe un furto di tempo alla propria vocazione, la scienza.
Sabrina Gonzalez Pasterski è considerata, ormai da diversi anni, l'erede di Albert Einstein, un altro personaggio di cui molto si è parlato e ancora si parlerà. Per ovvi motivi. Una sorte condivisa dall'americana di origini cubane, classe '93, attualmente iscritta al corso di dottorato di ricerca in Fisica all'Università di Harvard, dopo aver completato completato gli studi universitari presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Dopo le prime notizie apparse sui media, la sua figura ha suscitato parecchia curiosità, spaccando in due la platea dei lettori: c'è chi la considera una "bufala", perché tante volte si è parlato di eredi di Einstein e nessuno di questi ha mai rispettato le (alte) aspettative riposte in loro, e poi c'è chi, invece, al di là di aspettative o chissà quali pretese, si è limitato a constatare la genialità di questa ragazza. E se per lei si sono scomodate figure del calibro di Stephen Hawking, Jeff Bezos e la Nasa, qualcosa di vero, in fondo, ci sarà.
"Preferisco stare lucida, e spero di essere conosciuta per quello che faccio e non per quello che non faccio", ha raccontato. Potrebbe essere una frase fatta, detta tanto per dire. E invece Sabrina è coerente con se stessa, e l'ha dimostrato. Alla richiesta di un'intervista di Huffpost ha risposto con cortesia, declinando l'offerta ci ha detto: "Sono onorata dalla richiesta, ma in questo momento non posso rispondere fino a quando non avrò compiuto il mio dovere per la Fisica". Quindi meglio rimanere concentrati sul proprio lavoro, evitare di disperdere energie nella facile notorietà e non permettere alle luci del successo - al di fuori delle mura accademiche - di distogliere l'attenzione da quel che di più concreto c'è al mondo: la scienza.

Quindi per capire il motivo del corteggiamento di Bezos e Nasa, che la vorrebbero tutta per sé, occorre analizzare, quasi con approccio scientifico, l'interminabile curriculum della Pasterski, una ragazza che a 10 anni prendeva già lezioni di volo, a 13 costruiva prototipi di aeroplani, e che poi si è presentata negli uffici della Federal Aviation Administration ottenendo in pochissimo tempo i permessi di volo.
Talento innato a cui si accompagna una dedizione totale al lavoro, caratteristica fondamentale per studiare la gravità nella meccanica quantistica. Materia affrontata, prima di lei, guarda caso, proprio da Einstein e Hawking. Quest'ultimo l'ha anche citata in uno dei suoi ultimi lavori. I suoi studi, le sue ricerche e le onorificenze ricevute nel tempo sono tutte custodite all'interno del suo blog, unico vezzo che si è concessa sul web: niente Facebook, niente Twitter o Instagram. Non ha nemmeno uno smartphone.

Scorrendo l'interminabile curriculum, si scopre che il suo nome è finito ben due volte nella classifica dei migliori 30 under 30 di Forbes, passando addirittura dal ruolo di candidata a quello di giudice che indica i nomi degli studenti meritevoli da inserire nella prestigiosa lista. Ma il suo nome compare anche nella classifica stilata da Scientific American nel lontano 2012, quando aveva solo 19 anni.
Insignita, nel 2016, del titolo di "Rising Star" dal MIT e, a seguire, dal Steven P. Jobs Trust, il fondo di Steve Jobs. Nulla di strano se ci si affida al mero giudizio espresso dai suoi professori e ai voti ottenuti. Risultati che, però, rileggendoli, farebbero sgranare gli occhi a chiunque. Senza dimenticare le collaborazioni che aveva al tempo con Blue Origin, Hertz Foundation e la stessa Nasa.
Da studentessa al secondo anno di studi universitari ha anche lavorato all'esperimento del CMS (Compact Muon Solenoid, un grande rivelatore per un esperimento di fisica delle particelle attualmente in funzione al CERN) presso il Large Hadron Collider.

Grazie alla notorietà raggiunta nel suo campo, Sabrina ha iniziato a girare il mondo, partecipando a numerosi eventi: è stata invitata in quel di Washington D.C. per "The Long Conversation at the Smithsonian", a Mosca come ospite d'onore presso l'ambasciata americana, di nuovo a Washington per l'evento "Power of Girls" del Fondo Monetario Internazionale a cui ha partecipato anche Christine Lagarde, al MiSK Foundation Women Empowerment Panel di Riad, a cui ha preso parte anche Bill Gates. È stata anche intervistata, come ospite principale, da Steve Wozniak, "papà" del personal computer, nel corso del Silicon Valley Comic Con. Il prossimo febbraio, sarà ospite al Cern, per l'"Alumni First Collisions".
Sabrina quest'anno ha compiuto 24 anni. Alla stessa età Albert Einstein pubblicava i suoi studi destinati a cambiare il mondo della scienza e non solo. I lavori di Sabrina, attualmente, non hanno ancora raggiunto il livello dell'illustre predecessore. Ma se è vero che il genio è "fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione", allora la Pasterski ha tutte le carte in regola per realizzare grandi cose. Lei, nel frattempo, continua a studiare e a fare ricerca, lontano dai riflettori e dal facile successo, sostenendo con estrema leggerezza la pesante eredità che le è toccata in sorte.

DAL MOTO ONDOSO ALL’ELETTRICITÀ: ECCO LE PIATTAFORME WAVE STAR.


Dal moto ondoso all’elettricità: ecco le piattaforme Wave Star

IN DANIMARCA LE PIATTAFORME WAVE STAR STANNO DIMOSTRANDO TUTTE LE POTENZIALITÀ DEL MOTO ONDOSO PER PRODURRE ELETTRICITÀ.

                                                                                                                                                                                                              Abbiamo già parlato altrove delle enormi potenzialità della generazione di energia elettrica rinnovabile a partire dal moto ondoso del mare, riportando alcuni dei progetti più promettenti per l’immediato futuro. Ma negli ultimi giorni la nostra attenzione è caduta su un progetto danese che promette di creare – sempre attraverso lo sfruttamento sostenibile del moto ondoso – abbastanza energia elettrica da soddisfare potenzialmente 5 volte il fabbisogno mondiale. Parliamo della piattaforma oleodinamica progettata e costruita dall’impresa danese Wave Star Energy: l’idea di fondo è quella di catturare l’energia della spinta delle onde attraverso dei galleggianti, i quali risultano collegati direttamente ad una leva libera di oscillare verso il basso e verso l’alto. Il movimento viene poi sfruttato da un cilindro oleodinamico che, proprio come farebbe una pompa, spara ad altissima pressione l’olio verso un generatore di corrente elettrica. Più forti e frequenti sono le onde, maggiore è la pressione dell’olio, e quindi di più è l’energia elettrica generata.
Come funzionano le piattaforme Wave Star.
Non è facile spiegare a parole il funzionamento delle piattaforme Wave Star: tutto si basa su degli enormi impianti posizionati ortogonalmente rispetto al movimento del modo ondoso. Essendo i galleggianti a contatto con l’acqua più di uno, il periodo di mancata oscillazione di una singola leva viene coperto dal periodo produttivo di un secondo galleggiante, così da avere una piattaforma perennemente a regime. L’idea di una simile struttura capace di sfruttare in modo intelligente e continuo il modo ondoso è stata partorita 17 anni fa da Niels e Keld Helsen: da allora l’azienda ha fatto passi da gigante, con ripetuti test che hanno dimostrato tutte le potenzialità di questo nuovo modo di produrre energia elettrica rinnovabile e sostenibile.

Fatte per resistere ad ogni tipo di moto ondoso

Per garantire alle piattaforme una lunga durata ed una continua efficienza, esse sono dotate di un peculiare sistema di protezione: nell’eventualità in cui, a causa di una tempesta, il mare dovesse risultare fin troppo mosso, i galleggianti vengono infatti issati ben al di sopra del moto ondoso. Come infatti si può leggere sul sito ufficiale di Wave Star, «l’energia dal moto ondoso avrà un ruolo cruciale nell’assicurare al mondo un adeguato rifornimento energetico, ma solo le macchine che sapranno resistere alle più forti tempeste marine potranno sopravvivere a lungo in mezzo alle onde».

L’evoluzione delle piattaforme Wave Star.

La storia di Wave Star inizia ufficialmente nel 2004, con la costruzione di un modello in scala 1:40 per ottimizzare il sistema di sfruttamento e di conversione in energia elettrica del moto ondoso. Più di 1.300 differenti test sono stati condotti su questo prototipo, per garantire il suo pieno funzionamento in un ambiente come quello del Mare del Nord. Nel 2005 è stato poi il turno di un modello in scala 1:10, installato a largo di Helligsø Teglværk, per poi arrivare alla realizzazione di un modello in scala ½ a largo di Hanstholm, nel 2009. Installato nel Mare del Nord, a 300 metri dalla riva, quest’ultimo prototipo ha una lunghezza di 40 metri, ed è fornito di due galleggianti con un diametro di 5 metri l’uno. La piattaforma in questione ha una capacità di 600 kW, ed è collegata alla normale rete elettrica fin dal febbraio del 2010, producendo in media 4.000 – 5.000 kWh al mese.

I progetti futuri.

Adesso l’impresa sta lavorando per produrre la prima serie di macchine da 1 MegaWatt, pensata per i grandi oceani, la quale dovrebbe essere messa sul mercato entro la fine del 2017. Il risultato saranno delle piattaforme lunghe 70 metri, dotate di 20 galleggianti totali. Partendo dal presupposto che ogni singola lega dovrebbe generare un minimo di 25 kW ed un massimo di 50 kW, la capacità complessiva dovrebbe essere compresa tra i 500 e i 1.000 KW. Nel frattempo, il modello in scala 1:10 è stato rimosso e completamente riciclato, avendo terminato la sua funzione di tester. Lo step successivo sarà quello di raddoppiare nuovamente la grandezza delle piattaforme, così da arrivare ad un’uscita pari a 6 MegaWatt, sufficiente dunque per provvedere l’energia elettrica necessaria all’alimentazione di circa 4.000 abitazioni.

La missione dell’impresa danese

Gli ingegneri della Wave Star puntano quindi ad un futuro energetico totalmente sostenibile, attraverso la costruzione di veri e propri parchi di produzione di energia elettrica a partire dal moto ondoso. E non è tutto qui: le stesse piattaforme, nella loro visione, potranno essere combinate ad impianti eolici offshore e ad impianti fotovoltaici. «Noi di Wave Star non vogliamo soltanto produrre elettricità» si legge sul loro sito,
«vogliamo dare energia ad un intero nuovo modo di pensare, ad una piena comprensione del nostro bisogno di soluzioni energetiche pulite ed eleganti, e soprattutto capaci di lavorare insieme per soddisfare il fabbisogno energetico del nostro Pianeta».
http://www.green.it/moto-ondoso-wave-star/#prettyPhoto/0/

ALL'ONU, L'INCAPACITA' DEGLI STATI UNITI DI AMMETTERE LA REALTA'. - Thierry Meyssan

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Quattro veti successivi sulla menzogna di Khan Shaykhun.
Mentre i presidenti Putin e Trump fanno progressi sulla questione siriana, gli alti funzionari statunitensi all’ONU sono impegnati in un braccio di ferro con la Russia. Rifiutandosi di indagare su un crimine, giudicato tale a priori, hanno provocato non uno, bensì quattro veti al Consiglio di Sicurezza. Secondo Thierry Meyssan, il comportamento schizofrenico degli Stati uniti sulla scena internazionale attesta la divisione dell’amministrazione Trump e, al tempo stesso, il declino dell’imperialismo americano.

Adottando lo stesso atteggiamento del suo lontano predecessore Adlai Stevenson durante la crisi dei missili cubani, Nikki Haley ha denunciato l’incidente di Khan Shaykhun mostrando come prova fotografie raccapriccianti. “Prove” la cui autenticità il Meccanismo d’inchiesta congiunto Onu-OPAC [Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche, ndt] si è tuttavia rifiutato di certificare. Si noti che il falco Jeffrey Feltman è seduto accanto all’ambasciatrice.
Indubbiamente poche cose sono cambiate dall’11 settembre 2001. Gli Stati Uniti continuano a manipolare l’opinione pubblica internazionale e gli organismi delle Nazioni Unite, sicuramente per ragioni diverse, mostrando però il medesimo disprezzo per la verità.

Nel 2001 i rappresentanti di Stati Uniti e Regno Unito, John Negroponte e Stewart Eldon, garantivano che i rispettivi Paesi avevano attaccato l’Afghanistan per legittima difesa, in seguito agli attentati di New York e Washinton [1]. Il segretario di Stato, Colin Powell, prometteva che avrebbe fatto avere al Consiglio di Sicurezza un dossier completo contenente le prove delle responsabilità afghane. Dopo sedici anni siamo ancora in attesa del documento.

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Il segretario di Stato Colin Powell mente al Consiglio di Sicurezza. Brandisce quel che presenta come fiala di antrace in grado di uccidere l’intera popolazione di New York e accusa l’Iraq di aver preparato la terribile arma per attaccare gli Stati Uniti. Washington non si è mai scusata per la pagliacciata.

Nel 2003, durante un intervento ripreso dalle televisioni del mondo intero, lo stesso Colin Powell spiegò al Consiglio di Sicurezza che anche l’Iraq era implicato negli attentati dell’11 settembre e stava preparando un nuovo attacco agli Stati Uniti con armi di distruzione di massa [2]. Tuttavia, il generale Powell, lasciando l’incarico governativo ammise, su una rete televisiva americana, che tutte le innumerevoli accuse del suo discorso erano false [3]. Dopo quattordici anni stiamo ancora aspettando che gli Stati Uniti si scusino davanti al Consiglio di Sicurezza.

Il mondo intero ha dimenticato le accuse americane sulla responsabilità del presidente Saddam Hussein negli attentati dell’11 settembre (in seguito Washington ha attribuito gli stessi attentati prima all’Arabia Saudita e, ora, all’Iran, senza mai portare alcuna prova). 
In compenso, tutti ricordano il dibattito, durato mesi, sulle armi di distruzione di massa. All’epoca, la Commissione di Controllo, Verifica e Ispezione delle Nazioni Unite (in inglese UNMOVIC) non trovò la minima traccia di queste armi. Un braccio di ferro oppose l’allora direttore di UNMOVIC, lo svedese Hans Blix, prima agli Stati Uniti, poi all’ONU e, infine, all’insieme del mondo occidentale. Washington sosteneva che Blix non aveva trovato le armi perché svolgeva male il proprio lavoro. Blix affermava invece che l’Iraq mai era stato in grado di fabbricare armi simili. Poco importa, gli Stati Uniti bombardarono comunque Bagdad, invasero l’Iraq, rovesciarono il presidente Saddam Hussein e lo impiccarono, occuparono il Paese e lo saccheggiarono.

Il metodo statunitense posteriore al 2001 non ha nulla a che vedere con quello che l’ha preceduto. Nel 1991 il presidente Bush padre si premurò, prima di attaccare l’Iraq, di avere il Diritto internazionale dalla propria parte. Spingendo Bagdad a invadere il Kuwait e Saddam Hussein a intestardirsi, ottenne il sostegno di quasi tutte le altre nazioni. Nel 2003 Bush figlio si limitò invece a mentire e a perseverare nella menzogna. Molti Stati presero le distanze da Washington e il mondo assistette alle manifestazioni pacifiste più imponenti della storia, da Parigi a Sydney, da Pechino a Città del Messico.

Nel 2012 l’Ufficio Affari Politici dell’ONU redasse un progetto contemplante la capitolazione totale e incondizionata della Siria [4]. Il suo direttore, lo statunitense Jeffrey Feltman, ex vice della segretaria di Stato Hillary Clinton, utilizzò ogni mezzo a sua disposizione per formare la più vasta coalizione della storia e accusare la Siria di ogni sorta di crimine, mai dimostrato.

Se gli Stati che sono in possesso del documento Feltman hanno deciso di non pubblicarlo è per tutelare le Nazioni Unite. È difatti inaccettabile che le risorse dell’ONU, un’istituzione creata per preservare la pace, vengano utilizzate per promuovere la guerra. Io, che sono libero dagli obblighi che vincolano uno Stato, ho invece pubblicato in Sous nos yeux [5] uno studio dettagliato di quell’ignobile documento.

Nel 2017 il Meccanismo d’Inchiesta congiunto ONU-OPAC, creato su richiesta della Siria per indagare sull’uso di armi chimiche sul suo territorio, è stato teatro dello stesso braccio di ferro che oppose Hans Blix a Washington. Però, questa volta, i fronti sono rovesciati. Nel 2003 l’ONU difendeva la pace. Oggi non più: Jeffrey conserva il proprio posto ed è ancora il numero due dell’ONU. E ora è la Russia che, in nome della Carta delle Nazioni Unite, si oppone a funzionari internazionali pro-USA.

I lavori del Meccanismo d’Inchiesta, oggetto di normale dibattito nel primo periodo, ossia da settembre 2015 a maggio 2017, sono diventati divisivi da quando, alla sua direzione, il guatemalteco Edmond Mulet è subentrato all’argentina Virginia Gamba. Una nomina voluta dal nuovo segretario generale dell’ONU, il portoghese Antonio Guterres.

Del Meccanismo d’Inchiesta fanno parte funzionari dell’ONU e dell’OPAC, la prestigiosa organizzazione internazionale che nel 2013 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per la sorveglianza sulla distruzione dell’arsenale chimico siriano da parte di Stati Uniti e Russia. Tuttavia, il suo direttore, il turco Ahmet Üzümcü, ha subito una trasformazione. A giugno 2015 è stato invitato a Telfs Buchen (Austria) per partecipare alla riunione del Gruppo Bilderberg, il club della NATO.

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A dicembre 2015 Ahmet Üzümcü è stato decorato della Legione d’Onore da Laurent Fabius, il ministro francese degli Esteri che ha affermato che il presidente al-Assad «non ha diritto di vivere» e che Al Qaeda «fa un buon lavoro».

La questione è ben più grave del 2003, quando lo scontro era tra Hans Blix e Stati Uniti, che minacciavano d’intervenire contro l’Iraq se l’ONU avesse dimostrato l’esistenza di armi di distruzione di massa. Nel 2017 il conflitto è invece tra la Russia ed Edmond Mulet, che potrebbe avallare a posteriori l’intervento americano contro la Siria. Senza esitare Washinton ha ritenuto infatti la Siria responsabile di un attacco al gas sarin a Khan Shaykhun e ha bombardato la base aerea di Sheyrat [6].

Qualora il rapporto del Meccanismo d’Inchiesta si scostasse in qualche modo dalla linea di condotta di Washington, gli Stati Uniti sarebbero costretti a chiedere scusa alla Siria e a indennizzarla. I funzionari internazionali pro-USA ritengono perciò sia loro dovere pervenire alla conclusione che la Siria ha bombardato il suo stesso popolo con il gas sarin, depositato illegalmente nella base aerea di Sheyrat.

Dal mese di ottobre la discussione tra alcuni funzionari ONU e la Russia ha iniziato a salire di tono. Contrariamente a quanto sostiene la stampa occidentale, il contenzioso non riguarda affatto l’esito del Meccanismo d’Inchiesta, ma esclusivamente i metodi utilizzati; Mosca rifiuta a priori ogni conclusione cui si sia giunti con metodi non conformi ai principi internazionali, stabiliti nel quadro della Convenzione sulle Armi Chimiche e dell’OPAC [7].

Il sarin è un gas neurotossico estremamente letale per l’uomo. Esistono varianti del prodotto, come il clorosarin e il ciclosarin, e una versione ancora più pericolosa, il VX. Tutti questi prodotti chimici sono assorbiti dalla pelle e passano direttamente nel sangue. In un periodo che può variare da qualche settimana a qualche mese si disperdono nell’ambiente, non senza conseguenze per la fauna con cui può entrare in contatto. Quando penetrano nel suolo il sarin e le sue varianti, in assenza d’ossigeno e luce, possono mantenersi attivi molto a lungo. Basta osservare le fotografie dell’attacco di Khan Shaykhun, dove si vedono persone prelevare campioni poche ore dopo l’attacco, senza indossare tute che proteggano la pelle, per avere la certezza che, se c’è stato uso di gas, non può trattarsi né di sarin né di alcuno dei suoi derivati. Maggiori dettagli si possono trovare nello studio del professor Theodore Postol, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che smonta una a una le argomentazione dei sedicenti esperti della CIA [8].

Ebbene, contravvenendo ai principi della Convenzione sull’Uso delle Armi Chimiche, il Meccanismo d’Inchiesta non si è recato sul posto per prelevare campioni, analizzarli e indentificare il gas eventualmente utilizzato. Rispondendo alle domande poste a tal proposito a maggio e giugno scorsi dalla Russia, l’OPAC ha dichiarato che stava esaminando le condizioni di sicurezza in cui si sarebbe svolto il sopralluogo, per giungere infine alla conclusione che non occorreva muoversi perché «non sussistono dubbi sull’utilizzo del sarin».

In compenso, il Meccanismo d’Inchiesta si è recato nella base di Sheyrat, dove, secondo Washington, il gas sarin era stato illegalmente immagazzinato e poi caricato sui bombardieri. Anche in questo caso, nonostante l’insistenza della Russia, non ha prelevato campioni.

Il Meccanismo d’Inchiesta si è anche rifiutato di prendere in esame quanto rivelato dalla Siria a proposito della fornitura di gas agli jihadisti da parte delle società statunitensi e britanniche Federal Laboratories, Non Lethal Technologies e Chenring Defence UK [9].
Nel progetto di risoluzione presentato il 16 novembre, gli Stati Uniti e i loro alleati riconoscono che i funzionari internazionali dovrebbero investigare «in modo appropriato allo svolgimento del loro mandato» [10].

La Russia ha respinto il rapporto del Meccanismo d’Inchiesta a motivo del suo carattere dilettantistico e ha rifiutato tre volte di rinnovarne il mandato. Ha opposto il veto il 24 ottobre [11], il 16 [12] e 17 novembre, così come aveva già fatto il 12 aprile [13] , allorquando Stati Uniti e Francia [14] tentarono di ottenere la condanna della Siria per questo preteso attacco al gas sarin. 
Queste sono state l’ottava, la nona, la decima e l’undicesima volta che la Russia è ricorsa al veto sulla questione siriana.
S’ignora per quale ragione Washington abbia presentato, o fatto presentare, al Consiglio di Sicurezza per quattro volte e per vie diverse lo stesso assunto. 
Un traballamento già verificatosi all’inizio della guerra contro la Siria, il 4 ottobre 2011, il 4 febbraio e il 19 luglio 2012, quando Francia e Stati Uniti cercarono di far condannare dal Consiglio di Sicurezza quella che chiamavano la repressione della primavera siriana. La Russia sosteneva invece che non si trattava di guerra civile, bensì di un’aggressione esterna. Ogni volta gli Occidentali replicavano che avrebbero alla fine «convinto» il partner russo.
È interessante osservare che oggi la doxa occidentale asserisce che la guerra in Siria è iniziata con una rivoluzione democratica, poi degenerata e, alla fine, strumentalizzata dagli jihadisti. 
Ebbene, contrariamente a quanto si disse, non esiste alcuna prova della benché minima manifestazione nel 2011-12 in Siria a favore della democrazia. Tutti i video dell’epoca mostrano manifestazioni a sostegno del presidente el-Assad o contro la Repubblica Araba Siriana, mai per la democrazia. 
Nessun video mostra slogan o cartelli pro-democrazia. Tutti i video delle sedicenti “manifestazioni rivoluzionarie” di quel periodo sono stati girati di venerdì, all’uscita dalle moschee sunnite, mai in un altro giorno della settimana e mai in un luogo d’incontro diverso da una moschea sunnita. 
È vero che in alcuni video si sentono frasi in cui c’è la parola “libertà”. Però, tendendo bene l’orecchio si capisce che i manifestanti non stanno rivendicando la “Libertà” nel senso occidentale, ma la “libertà di applicare la sharia”. Se qualche lettore riesce a rintracciare un documento affidabile di una manifestazione di più di 50 persone che mi contraddica, per favore me lo faccia avere, non mancherò di pubblicarlo.

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Benché, per non offrire l’opportunità all’opposizione di accusarlo di farsi dare ordini dall’uomo del KGB, Vladimir Putin, il presidente Trump non abbia incontrato privatamente il presidente russo, l’11 novembre 2017 a Da Nang i due capi di Stato esibiscono la loro intesa.
Si potrebbe interpretare l’ostinazione statunitense nel manipolare i fatti come un segno dell’allineamento dell’amministrazione Trump alla politica dei suoi quattro predecessori. Questa ipotesi è però contraddetta dalla firma, l’8 novembre ad Amman, di un Memorandum segreto tra Giordania [15], Russia e Stati Uniti, e dalla Dichiarazione comune dei presidenti Putin e Trump l’11 novembre a Da Nang, in margine al vertice dell’APEC [16].

Il primo di questi documenti non è stato pubblicato ma, grazie a indiscrezioni, sappiamo che non tiene in conto la richiesta israeliana di creare una zona neutrale in territorio siriano, a 60 chilometri al di là, non del confine israeliano, bensì della linea di cessate-il-fuoco del 1967. Senza mai perdere occasione per gettare benzina sul fuoco, il governo britannico ha reagito facendo pubblicare dalla BBC fotografie satellitari della base militare iraniana di El-Kiswah (a 45 chilometri dalle linea del cessate-il-fuoco) [17]. Com’era prevedibile, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto immediatamente l’accordo tra le grandi potenze e annunciato che Israele si riserva il diritto d’intervenire immediatamente in Siria per salvaguardare la propria sicurezza [18]. 
Una dichiarazione che rappresenta una minaccia a uno Stato sovrano e, per questa ragione, vìola la Carta delle Nazioni Unite. Del resto, chiunque ha potuto vedere che, negli ultimi sette anni, il pretesto delle armi destinate al Libano ha sempre rappresentato una buona scusa. Per esempio, il 1° novembre Tsahal ha bombardato illegittimamente una zona industriale a Hassyié, col pretesto di distruggere armi destinate a Hezbollah. In realtà, l’obiettivo dell’attacco era una fabbrica che lavora il rame, indispensabile per il ripristino della rete elettrica siriana [19].
La Dichiarazione di Da Nang rappresenta un deciso progresso. Per esempio, stabilisce, per la prima volta, che tutti i siriani avranno diritto a partecipare alle prossime elezioni presidenziali. Ebbene, finora ai siriani in esilio è stato impedito dalla Coalizione Internazionale di votare, violando la Convenzione di Vienna. Da parte sua, la “Coalizione Nazionale delle Forze dell’Opposizione e della Rivoluzione” boicottava le elezioni perché era controllata dai Fratelli Mussulmani, secondo i quali «Il Corano è la nostra Legge», dunque in un regime islamista non c’è posto per elezioni.
Il contrasto tra il progresso dei negoziati Russia-USA sulla Siria, da un lato, e la testardaggine degli Stati Uniti nel volere negare i fatti davanti al Consiglio di Sicurezza, dall’altro, è sorprendente.
È interessante osservare il disagio della stampa europea, sia rispetto al lavoro dei presidenti Putin e Trump, sia nei confronti dell’ostinazione infantile statunitense al Consiglio di Sicurezza. Pressoché nessun media ha parlato del Memorandum di Amman e tutti hanno commentato la Dichiarazione Comune prima che fosse pubblicata, basandosi solo su una nota della Casa Bianca. Quanto alle bambinate dell’ambasciatrice Nikki Haley al Consiglio di sicurezza, i media europei si sono limitati a constatare unanimemente che i due Grandi non avevano trovato un accordo, ignorando le esaustive argomentazioni russe. Non si può non constatare che, mentre il presidente Trump cerca di chiudere con la politica imperialista dei predecessori, i funzionari internazionali pro-USA dell’ONU sono incapaci di adattarsi alla realtà. Dopo sedici anni di menzogne sistematiche non sono più in grado di pensare in funzione dei fatti, ma unicamente delle loro fantasie. Non riescono più a distinguere i propri desideri dalla realtà, tipico comportamento degli imperi in declino.

Traduzione 
Rachele Marmetti
Il Cronista

[1] Referenza: Onu S/2001/946 e S/2001/947.
[2] « Discours de M. Powell au Conseil de sécurité de l’ONU », par Colin L. Powell, Réseau Voltaire, 11 février 2003.
[3] “Colin Powell on Iraq, Race, and Hurricane Relief”, ABC, September 8, 2005.
[4] “La Germania e l’ONU contro la Siria”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist(Italia) , Al-Watan (Siria) , Rete Voltaire, 28 gennaio 2016.
[5Sous nos yeux. Du 11-Septembre à Donald Trump, Thierry Meyssan, Demi-Lune, 2017.
[6] “Perché Trump ha bombardato Sheyrat?”, di Thierry Meyssan, Traduzione Matzu Yagi, Megachip-Globalist(Italia) , Rete Voltaire, 2 maggio 2017.
[7] « Observations émises par le Ministère russe des Affaires étrangères au sujet du dossier chimique syrien », Réseau Voltaire, 23 octobre 2017.
[8] “Il rapporto della CIA sull’incidente di Khan Shaykhun è grossolanamente menzognero”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 18 aprile 2017.
[9] “Londra e Washington hanno fornito armi chimiche agli jihadisti”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 16 agosto 2017.
[10] « Projet de résolution sur le Mécanisme d’enquête conjoint Onu-OIAC (Véto russe) », Réseau Voltaire, 16 novembre 2017.
[11] « Projet de résolution sur le renouvellement du Mécanisme d’enquête conjoint (Veto russe) », « Utilisation d’armes chimiques en Syrie (Veto russe) », Réseau Voltaire, 24 octobre 2017.
[12] « Projet de résolution sur le Mécanisme d’enquête conjoint Onu-OIAC (Véto russe) », Réseau Voltaire, 16 novembre 2017.
[13] « Débat sur l’incident chimique présumé de Khan Cheïkhoun (veto russe) », Réseau Voltaire, 12 avril 2017.
[14] « Évaluation française de l’attaque chimique de Khan Cheikhoun », Réseau Voltaire, 26 avril 2017.
[15] “La Giordania apporta il proprio sostegno alla Siria”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 30 agosto 2017.
[16] « Déclaration commune des présidents russe et états-unien sur la Syrie », Réseau Voltaire, 11 novembre 2017.
[17] “Iran building permanent military base in Syria – claim”, Gordon Corera, BBC, November 10, 2017.
[18] “Israele respinge l’accordo russo-statunitense sulla Siria”, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 15 novembre 2017.
[19] « Israël bombarde une usine de cuivre en Syrie », par Mounzer Mounzer, Réseau Voltaire, 3 novembre 2017.

Fonte : “All’ONU, l’incapacità degli Stati Uniti di ammettere la realtà”, di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 24 novembre 2017, www.voltairenet.org/article198908.html

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