martedì 12 marzo 2019

Chi prende il reddito di cittadinanza è un parassita, dice la Cei. Così la Chiesa tocca il fondo. - Angelo Cannatà

Chi prende il reddito di cittadinanza è un parassita, dice la Cei. Così la Chiesa tocca il fondo

A tutto c’è un limite e si fatica a capire davvero dove stia andando Santa Romana Chiesa: si è toccato il fondo.
Sapevamo della corruzione nei sacri palazzi, fa parte della storia della Chiesa e non ci si scandalizza quasi più.
Sapevamo che in essa albergano preti pedofili, è cronaca quotidiana e tocca le diocesi d’Italia e di tutto il mondo.
Sapevamo che la Chiesa ha conosciuto guerre di religione, vendita d’indulgenze e papi atei (Savonarola definiva Alessandro VI: “Papa simoniaco e sacrilego”).
Sapevamo che la Chiesa ha stretto patti coi regimi totalitari.
Sapevamo che lo Ior (Istituto per le Opere di Religione), con Marcinkus e non solo, trafficò col Banco Ambrosiano e Michele Sindona (membro della P2 in stretto contatto con la mafia).
Sapevamo d’affari recenti e per niente trasparenti – Vatileaks, ma non solo – e di congiure di Palazzo all’interno del Vaticano.
Sapevamo di pressioni e ricatti politici della Chiesa (i fedeli votano), e della “sacra” ingerenza sull’Italia per non pagare l’Ici.
Sapevamo dello scandalo maleodorante legato alla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Sapevamo di un criminale sepolto (quanto durerà ancora questo scandalo?) dentro una storica chiesa romana.
Sapevamo della “confusione che regna nel cuore della Chiesa”, tesa a gestire – dimentica del Vangelo – beneficenze, potere e affari.
Sapevamo della sete di denaro in Vaticano (dalla lettera di un teologo a Benedetto XVI: “Perché il denaro gioca un ruolo centrale? Dov’è la forza per combattere nella curia la tentazione del potere? Dov’è l’umiltà e la libertà donata dallo spirito?”).
Sapevamo questo e molto altro.
Ma ora sappiamo anche che Santa Romana Chiesa non sta più (nemmeno formalmente) dalla parte degli ultimi perché definisce "parassiti" i poveri che attendono un reddito di cittadinanza. Attenzione: non un parroco schizzato di campagna, ma la Cei parla di “cittadinanza parassitaria”. Non c’è nulla di peggio di questo insulto al Vangelo: i poveri equiparati a parassiti (che ne è di “chiedete e vi sarà dato”?). Anche il valore della Caritas perde senso di fronte alle parole della Cei. Siamo all’indicibile. Peggio dell’ateismo di Alessandro VI, peggio degli intrallazzi di Marcinkus: qui si tocca davvero il fondo, si tradisce il cuore del Vangelo, “gli ultimi saranno i primi”, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Se può, se glielo consentono, se non lo mettono a tacere, intervenga Papa Francesco a correggere e mettere fine a quest’obbrobrio.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/11/chi-prende-il-reddito-di-cittadinanza-e-un-parassita-dice-la-cei-cosi-la-chiesa-tocca-il-fondo/5024376/

La Chiesa cattolica, che pretende di essere l'unica ancora di salvezza per i poveri, ma solo a parole, con il reddito di cittadinanza si sente defraudata del merito ed attacca chi, per gli indigenti, qualcosa di concreto la fa davvero. 
Invece di blaterare, quelli della CEI potrebbero rivolgere le loro attenzioni a tutti gli indigenti del mondo, compresi i bambini che "usano" invece di "nutrire"...
by cetta.

Termini Imerese, domiciliari per i vertici Blutec: “16 dei 21 milioni di fondi statali per riconversione usati in altri impianti”.

Termini Imerese, domiciliari per i vertici Blutec: “16 dei 21 milioni di fondi statali per riconversione usati in altri impianti”

A Roberto Ginatta e Cosimo di Cursi, rispettivamente presidente e ad, è contestato il reato di malversazione ai danni dello Stato. Cuore dell'inchiesta i soldi pubblici, ottenuti attraverso Invitalia, per far ripartire lo stabilimento, dove la società avrebbe dovuto produrre auto elettriche. I finanzieri stanno mettendo i sigilli agli impianti della fabbrica di Rivoli nel Torinese.

Almeno 16 dei 21 milioni di euro di soldi pubblici versati alla Blutec, l’azienda che avrebbe dovuto gestire il rilancio dello stabilimento ex Fiat di Termini Imerese sono stati invece impiegati in altri impianti per l’acquisto di beni, come ad esempio un software. A questa conclusione sono giunte le indagini della guardia di finanza di Palermo che hanno portato agli arresti domiciliari per Roberto Ginatta e Cosimo di Cursi, rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato proprio della Blutec. Le Fiamme gialle, oltre a dare esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare, hanno infatti sequestrato preventivamente proprio 16 milioni e 516 mila euro. Anche lo stabilimento di Rivoli (Torino) della Blutec è stato messo sotto sequestro.
Era ottobre quando la procura di Termini Imerese aveva aperto l’inchiesta su Blutec, la società che ha rilevato l’ex stabilimento siciliano della Fiat. In fabbrica erano arrivati gli uomini del nucleo di polizia economico-finanziaria per sequestrare documenti e file utili sull’azienda. Obiettivo del procuratore Ambrogio Cartosio era far luce sull’utilizzazione del finanziamento pubblico da circa 21 milioni di fondi regionali vincolati a precisi investimenti industriali mai realizzati come aveva raccontato a gennaio ilfattoquotidiano.it. “Gli arresti del management della Bluetec di Termini Imerese confermano alcune perplessità delle parti sui piani d’investimento. Non abbandoniamo i lavoratori che sono le vittime di questa storia”, dice il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maiomentre alcune operai già si stanno radunando per protestare fuori dallo stabilimento siciliano. I finanzieri sono arrivati anche lì, oltre che in tutte le altre unità locali dell’azienda.
I riscontri finanziari, le perquisizioni, una consulenza tecnica e l’assunzione di informazioni nei confronti di dipendenti e fornitori della Blutec hanno fatto emergere come i finanziamenti statali, attraverso Invitalia, per la riconversione di Termini Imerese non siano in realtà, questa l’accusa, mai stati impiegati per i fini progettuali previsti, né restituiti a scadenza delle condizioni imposte per la realizzazione del progetto (31 dicembre 2016, termine poi prorogato fino al 30 giugno 2018). A tutt’oggi, nonostante la revoca del finanziamento intervenuta a aprile del 2018, le procedure di restituzione non sono state ancora avviate.
I soldi statali incassati per riaprire lo stabilimento. Oggi gli investigatori delle Fiamme Gialle sono tornati in azione per eseguire un’ordinanza di custodia cautelare e così Roberto Ginatta e Cosimo di Cursi, rispettivamente presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della Blutec, sono finiti agli arresti domiciliari con l’accusa di malversazione ai danni dello Stato. I finanzieri hanno anche notificato un decreto di sequestro preventivo dell’intero complesso aziendale e delle relative quote sociali, nonché delle disponibilità finanziarie, immobiliari e mobiliari riconducibili agli indagati fino all’importo di 16 milioni e 516 mila euro. Cuore dell’inchiesta i fondi statali per riaprire lo stabilimento dove Blutec avrebbe dovuto produrre auto elettriche. A Ginatta e Di Cursi è stata notificata anche una misura interdittiva, per la durata di 12 mesi, che riguarda il divieto di esercitare imprese e uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. I finanzieri stanno mettendo i sigilli agli impianti della fabbrica su disposizione dell’autorità giudiziaria sotto lo sguardo degli operai. I lavoratori stanno assistendo sotto choc al sequestro da parte dei finanzieri che si trovano negli uffici amministrativi.
Il piano di rilancio che prevedeva di reintegrare l’intera forza lavoro: mai attuato. I fondi pubblici – come scritto dal fattoquotidiano.it – erano stati erogati nel 2016 attraverso Invitalia per rilanciare l’impianto era stato fermato nel dicembre 2011. Blutec se li era aggiudicati dopo che gli altri pretendenti alla successione di Fca erano caduti uno via l’altro in scia alle inchieste giudiziarie. E con l’impegno di riaprire l’impianto riassorbendo una parte del personale della fabbrica anche grazie alle commesse per produrre settemila motocicli elettrici di Poste Italiane e per elettrificare 7200 Doblò Fca in quattro anni. L’azienda aveva infatti presentato un piano di rilancio che prevedeva di reintegrare l’intera forza lavoro (694 persone) dell’impianto entro la fine di quest’anno, riportando in fabbrica 400 lavoratori già nel 2017. In realtà poi le cose sono andate diversamente. Dopo aver incassato i soldi pubblici, Blutec si è progressivamente rimangiata buona parte delle promesse fatte mandando avanti a singhiozzo il piano per assumere il personale e rilanciare il sito industriale.
Il ruolo del Mise da Calenda a Di Maio. Della questione era ben cosciente il ministero dello Sviluppo economico che, ai tempi dell’ex ministro Carlo Calenda che pure aveva ereditato lo spinoso caso dalle passate gestioni, aveva scelto di fare buon viso a cattivo gioco rimandando il caso Termini Imerese a dopo il voto e passando così la patata bollente al governo gialloverde. A metà luglio 2018, in un incontro al ministero dello Sviluppo economico, ormai sotto la guida del vicepremier, Luigi Di Maio, Blutec riferiva che i lavoratori occupati erano solo 135, cui si sarebbero aggiunte “con la commessa dei 6800 Doblò di FCA, altre 120 persone nei prossimi tre anni”, come si leggeva nel verbale della riunione ministeriale. “La piena occupazione verrà quindi assicurata solo nel momento in cui gli accordi commerciali citati avranno concreta realizzazione”, proseguiva il documento. A novembre c’era stato un nuovo tavolo al Mise in cui la Fiom aveva chiesto di garantire la continuità occupazionale.
Lo scorso 23 febbraio Di Maio aveva annunciato, al tavolo al Comune di Termini Imerese con sindaci e sindacati sulla Blutec un emendamento al Decretone in esame al Senato “per assicurare sei mesi di ammortizzatori sociali”.. Il timore di una mancata proroga della cassa integrazione, scaduta il 31 dicembre scorso, aveva portato le tute blu dello stabilimento ex Fiat a organizzare giorni di proteste, occupando simbolicamente la sede del Comune e poi tenendo un sit-in davanti al ministero dello Sviluppo economico a Roma per chiedere proprio che il faccia a faccia con Di Maio fosse anticipato a questo sabato. “La Blutec deve rispettare gli impegni che ha preso”, aveva detto il vicepremier incontrando i giornalisti al termine dell’incontro. “E allo stesso tempo Fiat, cioè Fca, deve fare la sua parte, perché è vero che ha deciso di andare via ma si è impegnata a garantire la transizione”. Oggi gli arresti e il sequestro della fabbrica.

Fiumi di coca per la Palermo bene, 32 arresti. -



Gli arrestati sono accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsioni aggravate dal metodo mafioso, favoreggiamento reale aggravato, trasferimento fraudolento di valori. 

Trentadue arresti a Palermo nell’ambito dell’operazione Atena eseguiti dai carabinieri del comando provinciale su delega della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano. Gli arrestati sono accusati di associazione per delinquere di stampo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsioni aggravate dal metodo mafioso, favoreggiamento reale aggravato, trasferimento fraudolento di valori, sleale concorrenza aggravata dalle finalita' mafiose, spaccio di sostanze stupefacenti e detenzione illecita di armi.      
Dall'operazione è anche emerso come il mandamento mafioso di Porta Nuova avesse organizzato funzionali piazze di spaccio di sostanze stupefacenti, che continua a costituire la principale fonte di reddito di Cosa nostra. Un sistema organizzatissimo in grado di soddisfare tutti giorni ed a ogni ora le richieste soprattutto di cocaina da parte della Palermo bene. Una domanda, sottolineano gli inquirenti, diretta conseguenza della domanda che non accenna a decrescere, anzi sembra in continua crescita: sono state registrate, nel corso delle indagini, numerose richieste di acquisto di droga per uso personale anche da parte di una nutrita schiera di imprenditori, avvocati e liberi professionisti della citta'.   

Individuate anche due diverse attività, una imprenditoriale e l'altra commerciale, ubicate a Palermo e riconducibili agli esponenti di vertice di Cosa nostra, ma intestate a prestanome e quindi sottoposte a sequestro preventivo. Contestato il reato di illecita concorrenza aggravata dal metodo mafioso per avere imposto la fornitura di caffe' a bar del territorio. Un investimento in grande stile, come quello per il turismo, con i servizi di trasporto assicurati con bus turistici. Individuati gli autori di 5 estorsioni nei confronti di imprenditori e commercianti costretti al versamento a cosa nostra di somme di denaro.

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/spaccio-coca-cosa-nostra-palermo-arresti-4e38dad0-9a53-4c47-9e06-533f3f9a4574.html

Chi tocca i Renzis muore. - Marco Travaglio


L’altro giorno il Csm ha assolto il pm Henry John Woodcock dalle accuse più gravi e gli ha inflitto la sanzione disciplinare della censura (bloccandogli la carriera) per la più lieve. 
Ha stabilito che la sua condotta – e quella della collega Celeste Carrano – nell’inchiesta Consip fu ineccepibile: sia quando decise di non inquisire il renziano Vannoni e dunque di interrogarlo come testimone (con l’obbligo di dire la verità), anziché come indagato (con la facoltà di mentire), perché queste sono scelte insindacabili del pm; sia quando lo interrogò senz’alcun tipo di pressione (Vannoni sosteneva che invece le sue accuse a Lotti gli fossero state estorte con minacce e il Pg della Cassazione aveva preso per buona la sua parola, peraltro smentita da tutti i testimoni e rivelatasi una balla). Dunque tutte le accuse di complotto lanciate per due anni da Renzi e dai suoi sottopancia finiscono definitivamente nel cesso. La censura riguarda un aspetto che con le indagini Consip non c’entra. Quando i pm di Roma indagano il cap. Gianpaolo Scafarto del Noe di vari falsi dolosi per alcuni errori nel rapporto investigativo su Consip, Woodcock riceve una telefonata da Liana Milella di Repubblica.
I due si conoscono da tempo e, come spesso accade fra cronisti giudiziari e magistrati (o avvocati), parlano off record, con l’intesa che nulla sarà pubblicato. Woodcock, che non ha mai rilasciato interviste, non le svela alcun segreto d’indagine: si limita a dirle che a suo avviso il capitano ha commesso sbagli in buona fede, e non per incastrare i Renzis. È la stessa conclusione a cui giungerà la Cassazione, che farà a pezzi le accuse di falso a Scafarto. 

La Milella conferma di aver tradito il patto di sangue stretto con Woodcock per l’ansia dello scoop e le pressioni del suo direttore Calabresi: inserì alcune sue frasi con la formula usata dai retroscenisti (“dice Woodcock ai suoi colleghi”). Quel mattino Woodcock va da Fragliasso per dirgli che la Milella non ha parlato con i “colleghi”, ma con lui in un colloquio che doveva restare riservato. Il che dovrebbe bastare a dimostrare la sua buona fede. 
Fragliasso, invece, denuncia Woodcock, in base alle sue stesse parole, al Pg della Cassazione. Il quale avvia l’azione disciplinare non solo sulle accuse di Vannoni, ma pure su 4 rilievi relativi alla non-intervista: il pm non doveva interferire con l’indagine romana; non doveva parlare con la giornalista; doveva avvertire subito il suo capo; e non doveva ingannarlo consigliandogli di parlare con la Milella per ribadire la regolarità dell’indagine, quasi a volersi coprire le spalle.Ora il Csm ha stabilito che Woodcock non interferì nell’indagine romana e poteva parlare con la giornalista senz’avvertire il capo (sennò sarebbero guai per quasi tutti i magistrati). Ma l’ha censurato per il presunto inganno. La sua difesa ricorrerà in Cassazione per fargli cancellare pure quella macchiolina (molto pesante ai fini della carriera). Noi siamo ammirati da cotanto zelo contro un pm che da vent’anni indaga su destra, centro e sinistra, senza la protezione di alcuna corrente, sempre assolto in 17 procedimenti disciplinari nati quando a Potenza scoperchiava i malaffari del centrosinistra, quando a Napoli incastrava B. per la compravendita di senatori e apriva il fascicolo che avrebbe portato a Milano e Genova alle condanne dei vertici della Lega per i 49 milioni rubati. 

Poi, per sua sventura, s’imbatté nel nome Renzi: indagando sull’imprenditore Romeo, scoprì che parlava di babbo Tiziano col faccendiere toscano Carlo Russo; poi il renziano Luigi Marroni gli confessò di aver strappato le microspie dagli uffici Consip su soffiata di Lotti, Vannoni, Del Sette, Saltalamacchia. E, al 18° procedimento disciplinare, s’è beccato la censura per le conseguenze di un’intervista mai rilasciata.
Ora attendiamo con ansia notizie dal Pg della Cassazione su un altro pm incappato in guai simili, anzi per aver detto a una giornalista cose ben più pesanti. È il romano Mario Palazzi, che ereditò con Ielo l’inchiesta Consip, poi indagò e infine archiviò Woodcock e Federica Sciarelli, accusati di una criminale triangolazione di fughe di notizie col nostro Marco Lillo. Il 22 febbraio 2018 Annalisa Chirico pubblica sul Foglio queste frasi di Palazzi (mai smentite) sull’inchiesta appena archiviata su Woodcock-Sciarelli: “Non vedo l’ora di tornare a occuparmi degli Spada a Ostia. So’ più semplici perché in quel caso sai chiaramente chi sono i buoni e chi i cattivi. Qui invece è un verminaio senza fine. Abbiamo acquisito una valanga di materiale probatorio, stiamo lavorando con il pettine fino… Abbiamo riscontrato la triangolazione delle utenze telefoniche tra Woodcock, Federica Sciarelli e Marco Lillo, abbiamo battuto questa pista ma senza individuare elementi sufficienti”. Diversamente da Woodcock, il pm romano parla di una sua inchiesta violando il doveroso riserbo. Poi dice cose non vere: non esiste alcuna triangolazione Woodcock-Sciarelli-Lillo, ma solo una telefonata di Lillo alla Sciarelli per sapere se Woodcock fosse a Roma, senza che poi la Sciarelli chiamasse Woodcock e richiamasse Lillo (il famoso triangolo con due lati). 
Infine parla di “verminaio senza fine”, roba da rimpiangere quei bei criminali del clan mafioso Spada, a proposito di due innocenti, Woodcock e Sciarelli, archiviati con tante scuse perché non hanno fatto nulla (ma per lui è solo perché la “valanga di materiale probatorio” non è “sufficiente”). Ora, siccome l’azione disciplinare è obbligatoria, siamo certi che il Pg della Cassazione l’abbia avviata o stia per avviarla anche per le dichiarazioni di Palazzi alla Chirico. Sennò Woodcock e la Milella potrebbero credersi più importanti e montarsi la testa.

https://infosannio.wordpress.com/2019/03/09/chi-tocca-i-renzis-muore/

Leggi anche l'art. de "ilfattoquotidiano" risalente al febbraio del 2014:

lunedì 11 marzo 2019

Scoperta una stella misteriosa che riaccende l'ipotesi degli alieni.

Scoperta una stella misteriosa che riaccende l'ipotesi degli alieni

Cambi di luminosità fanno sognare, e c’è anche chi ipotizza la presenza di strutture aliene. Si chiama “Epic 204376071” si trova a 440 anni luce dalla Terra e ha una storia molto simile a quella della “stella di Tabby”.


Scoperta una sorella ancora più anomala della famosa Tabby Star, che aveva acceso la fantasia perché le oscillazioni della sua luminosità avevano suggerito la presenza di strutture aliene nella sua orbita, ma la nuova stella, Epic 204376071, mostra oscillazioni molto più marcate che fanno rispuntare l'ipotesi degli alieni. La scoperta, pubblicata sulla rivista della Royal Astronomical Society e, frutto di una ricerca guidata dal Massachusetts Institute of Technology (Mit), promette di far discutere gli astronomi. "La stella in realtà è molto diversa da quella di Tabby, si tratta di una stella di classe M, quindi molto più piccola e fredda", spiega Isabella Pagano, dell'Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) di Catania. "Mentre per la Tabby Star la percentuale di stella occultata era del 22%, in questo caso è addirittura dell'80%, perciò si tratta di un fenomeno molto più importante".

Gli scienziati brancolano nel buio.

"Purtroppo, nonostante il corpo celeste sia stato osservato per 160 giorni, l'evento è stato visto una sola volta", continua Pagano. "Quindi se il colpevole è un pianeta o un'altra stella che ruota intorno alla compagna, si tratta di un oggetto estremamente piccolo che non riusciamo a vedere e che non avrebbe potuto causare una variazione di luminosità così grande. Per questo motivo - aggiunge - gli autori dello studio ipotizzano che si possa trattare di dischi di polveri compatti associati a un ipotetico pianeta o una stella, ma anche in questo caso il fenomeno avrebbe dovuto ripetersi in meno di 80 giorni".

Ipotesi sulle strutture aliene resta in piedi.

"Tuttavia, dal momento che si tratta di una 'baby-stella' molto giovane, di circa 10 milioni di anni, potrebbe anche trattarsi di una caduta di materiale verso la superficie. Un evento  - spiega ancora la ricercatrice - che si verifica durante la formazione. In ogni caso, finché non si troverà una spiegazione tutte le ipotesi restano in campo, compresa quella di strutture aliene: la tendenza dell'uomo a fantasticare è sempre una cosa positiva".

La Banda del Buco: ditte fallite, i soliti noti di Tangentopoli. - Gianni Barbacetto e Andrea Giambartolomei

Tav

I lavori per 1,4 miliardi. Da Cmc a Condotte a Gavio, fino ai piccoli appalti coinvolti dalle inchieste per corruzione e mafia: a chi sono finiti i soldi.

Lavorare per il Tav non porta benissimo, si racconta in Valle di Susa. Tutte e tre le aziende locali impegnate nella Torino-Lione sono fallite: la Geomont di Bussoleno, la Martina e la Lazzaro di Susa. Anche le imprese più grandi che hanno partecipato ai primi appalti non sono messe benissimo: la Cmc, Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, ha chiesto il concordato preventivo. Condotte è in amministrazione straordinaria. Sta meglio il gruppo Gavio, che controlla il 36,5 per cento di Sitaf (al 51 per cento di Anas) che ha lavorato per lo svincolo di Chiomonte (88 milioni di euro) e altre commesse (per un totale di 93 milioni). Sitaf – ironia della sorte – è la diretta concorrente del tunnel ferroviario, visto che gestisce il traforo autostradale del Fréjus.
L’impresa Pizzarotti di Parma (già tra i protagonisti di Tangentopoli, come Gavio, Cmc e Condotte) era nei consorzi che hanno realizzato le discenderie di Saint-Martin-la-Porte e di Villarodin-Bourget/Modane, in territorio francese. In quest’ultima, Pizzarotti ha sostituito Condotte, che aveva fatto una parte dei lavori. Cmc, con altre imprese, ha scavato invece le gallerie geognostiche di Saint-Martin-la-Porte, in alleanza con Cogeis, che ha poi lavorato anche alla discenderia di La Praz. Sul versante italiano, Cmc e Cogeis, insieme a Geotecna, hanno realizzato la galleria di La Maddalena, a Chiomonte, un lavoro da 126 milioni di euro. In totale, finora sono stati fatti lavori per 1,4 miliardi: 211 milioni per studi e indagini, il resto per le tre discenderie e la galleria geognostica sul lato francese (totale: 16 chilometri). Sul lato italiano, la galleria della Maddalena (7 chilometri). Dei soldi usciti finora, ben 789 milioni sono stati dati in concessione a Sncf, la società delle ferrovie francesi, per la realizzazione del tratto ferroviario all’aperto in Francia, che però è lungo meno di 4 chilometri. Infatti Sncf di quei 789 milioni ne ha spesi finora solo 2. A impegnare i soldi è stata Telt, la società dei governi italiano e francese.
Lunedì, se Telt darà il via ai bandi, ci sarà la vera partenza del Tav: saranno lanciate le due gare per l’intero tratto francese del tunnel di base, 45 dei 57,5 chilometri totali, del valore di 2,3 miliardi. Una bella fetta dei 9,6 miliardi di euro che è il costo totale del supertunnel.
I lavori della Torino-Lione eseguiti finora sono solo una piccolissima parte di quelli necessari per completare l’opera. Eppure sono riusciti ad attirare più volte l’attenzione della Procura di Torino. Indagini per fatti di corruzione e qualche infiltrazione mafiosa. Nel 2011 sono stati condannati per turbativa d’asta, in primo grado, Paolo Comastri, l’ex direttore generale della Lyon-Turin Ferroviaire (Ltf, la società poi sostituita dalla Telt), e l’allora responsabile della direzione costruzioni, Walter Benedetto. Insieme a loro era stata coinvolta anche Maria Rosaria Campitelli, di Mm Metropolitana milanese. La turbativa d’asta riguardava il tunnel che doveva essere scavato a Venaus (poi non realizzato). A scoprire gli interessi illeciti intorno allo scavo del tunnel geognostico italiano è poi arrivata l’inchiesta “San Michele” del Ros carabinieri e della Direzione distrettuale antimafia di Torino. Tra i tanti fatti emersi, l’estorsione ai danni dei proprietari di una cava a Sant’Antonino di Susa commessa da Gregorio Sisca, condannato in via definitiva per mafia, per conto di Giovanni Toro, imprenditore condannato per concorso esterno mafioso, che aveva preso in affitto la cava e voleva mantenerne il controllo: “Noi dobbiamo stare lì perché è lì dentro che nei prossimi dieci anni arrivano 200 milioni di euro di lavoro”, diceva Toro, intercettato. “La torta non me la mangio da solo. Me la divido con te e ricordati queste parole, che ce la mangiamo io e te la torta dell’alta velocità”.
Toro, preoccupato per le proteste dei No Tav, nella primavera 2011 diceva al telefono: “Se arrivano i No Tav, con l’escavatore ci giriamo e ne becchiamo qualcuno… E col rullo gli vado add… cioè salgo io sul rullo e accelero. Se non ti togli ti schiaccio”. Toro era in rapporti anche con un imprenditore di Susa, Ferdinando Lazzaro, a cui diceva, sui lavori nel cantiere di Chiomonte: “Prendiamo tutto noi”.
Lazzaro, titolare della Italcoge e della Italcostruzioni, ha poi patteggiato una pena per bancarotta fraudolenta ed è stato condannato (in primo grado) a 1 anno e mezzo per turbativa d’asta: fallita la sua Italcoge, per continuare a svolgere i lavori preliminari del cantiere di Chiomonte aveva fatto un accordo col curatore fallimentare e aveva presentato un’offerta per aggiudicarsi l’affitto di un ramo della sua azienda. Dall’inchiesta del Ros erano emersi anche i suoi contatti con la politica e con i Sì Tav. In un’informativa del 2012 si legge: “Sono emerse aderenze di Lazzaro con personaggi politici e della pubblica amministrazione”, a cui chiedeva aiuto per licenze e autorizzazioni. Tra questi, Antonio Ferrentino, consigliere regionale del Pd, ex sindaco No Tav passato al fronte dei favorevoli.
Il 17 settembre 2012, Lazzaro contatta addirittura Paolo Foietta, oggi commissario straordinario del governo per l’asse ferroviario Torino-Lione e allora dirigente dell’area territorio e trasporti della Provincia di Torino. Secondo i carabinieri, Foietta avrebbe garantito “il suo interessamento per addivenire a una soluzione della vicenda” che riguardava la ditta di Lazzaro: “Allora mi faccia una mail”, diceva Foietta a Lazzaro, “se mi mette anche il nome specifico del funzionario con cui avete avuto rapporti mi è più utile, così vedo di evitare giri”. Lazzaro ha replicato di aver sempre operato lecitamente: “Le gare del Tav le ho vinte regolarmente e senza alcun aiuto, tantomeno quello di Esposito o Rettighieri”. Si riferiva a Stefano Esposito, ex senatore del Pd, e Marco Rettighieri, ex direttore generale di Ltf.
Ci sono state anche quattro interdittive antimafia. Tra queste, una per i gestori del bar Gritty di Bardonecchia, che forniva la colazione agli operai del cantiere Tav: un bar con una storia, perché apparteneva alla sorella e ai nipoti di Rocco Lo Presti, il boss della ’ndrangheta le cui attività portarono al commissariamento del Comune nel 1995, prima amministrazione del nord sciolta per infiltrazioni mafiose. Lo Presti “utilizzava il bar Gritty per incontrare i propri interlocutori”. Interdittive anche alla Romea di Bologna, fornitore di carburante, in cui aveva lavorato un nipote di Totò Riina. E alla Torino Trasporti, il cui titolare è parente di un personaggio condannato nel processo antimafia “Minotauro”.
https://ilfastidioso.myblog.it/2019/03/09/la-banda-del-buco-ditte-fallite-i-soliti-noti-di-tangentopoli-fino-alle-inchieste-per-corruzione-e-mafia-ecco-a-voi-la-tav/

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari. - Maria Elena Vincenzi

I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari

Case e ville comprate per poco e rivendute a prezzi da capogiro. Così un gruppo di toghe in Sardegna lucrava sulle gare e sulle speculazioni edilizie.


I magistrati furbetti che fanno milioni con le aste immobiliari 
Magistrati proprietari di ville “vista mare” da milioni di euro o che comprano immobili da capogiro ai prezzi ribassati dell’asta e poi li rivendono al valore di mercato, intascandosi la differenza. In barba alla legge che prevede che le toghe non possano partecipare alle aste giudiziarie, per ovvi motivi di conflitti di interessi.

Invece a Tempio Pausania, in Sardegna, c’erano giudici che facevano speculazioni edilizie facendo vincere le gare ad amici i quali poi li nominavano come aggiudicatari. E a quel punto, i magistrati rivendevano quegli immobili al triplo del prezzo.

Un giro di affari smascherato da altri magistrati, quelli di Roma, in particolare il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pubblico ministero Stefano Fava, che hanno iniziato a indagare nel 2016 su una villa affacciata sul mare di Baia Sardinia.

L’immobile, appartenuto a un noto imprenditore della zona finito male, venne messo all’asta e aggiudicato, complice il giudice fallimentare Alessandro Di Giacomo, a un avvocato «per persona da nominare». Le persone che poi sono state indicate erano Chiara Mazzaroppi, figlia dell’ex presidente del tribunale di Tempio Pausania, Francesco, e il di lei compagno, Andrea Schirra, anche loro magistrati in servizio (presso il tribunale di Cagliari). La villa, grazie alle «gravi falsità» contenute nella perizia, per usare le parole del gip di Roma Giulia Proto, è stata pagata 440 mila euro. Un ribasso ottenuto con «vizi macroscopici nella procedura di vendita»: tra l’altro si certificava la presenza in casa del comodatario che in realtà era morto qualche mese prima. A nulla erano valse segnalazioni e proteste dei creditori: il giudice ha deciso di ignorarle. Per garantire alla figlia del suo ex capo, o forse direttamente a lui, un affare immobiliare non da poco: l’intenzione era di ristrutturare il complesso e di rivenderlo a 2 milioni di euro. Ovvero con una plusvalenza di 1,6 milioni.

Insomma, un affare niente male. Per il quale, poco prima di Natale, il giudice Alessandro Di Giacomo è stato punito con l’interdizione a un anno dalla professione. I Mazzaroppi, padre e figlia, e Schirra sono indagati.

L’indagine ha svelato anche una serie di affari simili per i quali, però, non è possibile procedere: i reati sono già prescritti. Dalle carte depositate dalla procura di Roma, infatti, si scopre che gli affari immobiliari di Francesco Mazzaroppi hanno origini ben più lontane. Correva l’anno 1999 quando il giudice Di Giacomo, ancora lui, assegnò a un’avvocatessa, Tomasina Amadori (moglie del suo collega Giuliano Frau), il complesso alberghiero “Il Pellicano” di Olbia, una struttura da 34 camere. Amadori, a quel punto, indicò come aggiudicataria la Hotel della Spiaggia Srl, società riconducibile al commercialista Antonio Lambiase. Il prezzo dell’operazione era poco più di un miliardo di lire. Un anno dopo, “Il Pellicano” venne venduto da Lambiase, vicino a Mazzaroppi padre, a 2,3 miliardi: più del doppio del prezzo di acquisto. Scrive il pm di Roma Stefano Fava: «Risultano agli atti gli stretti rapporti economici intercorrenti tra Antonio Lambiase e Francesco Mazzaroppi. Lambiase ha infatti acquistato un terreno in località Pittolongu di Olbia cedendone poi metà a Rita Del Duca, moglie di Mazzaroppi.

Su tale terreno Lambiase e Mazzaroppi hanno edificato due ville», nelle quali vivono tuttora. Chiosa il pm: «Le evidenziate analogie, oggettive e soggettive, con la vicenda relativa all’aggiudicazione dell’immobile di Baia Sardinia, nonché la perfetta sovrapponibilità delle condotte dimostrano come anche la vendita a prezzo vile dell’albergo “Il Pellicano” sia conseguente a condotte illecite, non più perseguibili penalmente perché prescritte».

A corredo di tutto ciò, la procura di Roma ha raccolto anche una serie di testimonianze tra le quali quella dell’allora presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Grazia Corradini, che non usa mezzi termini: «In relazione all’acquisto del terreno su cui Francesco Mazzaroppi aveva edificato la sua villa c’erano state in passato delle segnalazioni relative a rapporti poco limpidi con i locali commercialisti e in particolare con Lambiase, consulente del Consorzio Costa Smeralda, insieme al quale avrebbe acquistato più di dieci anni fa il terreno su cui era stata realizzata la villa».

La Corradini racconta poi di come a queste segnalazioni fossero seguite due indagini, una penale e una predisciplinare senza alcun esito.

Poi Corradini parla anche della villa a Baia Sardinia: «La vicenda indubbiamente appare poco limpida se si considera il prezzo di vendita di una villa assai prestigiosa che si affaccia su Baia Sardinia, il cui prezzo di mercato si può immaginare pari ad almeno alcuni milioni di euro». Una questione su cui «ha relazionato il presidente del Tribunale di Tempio, la cui relazione allego unitamente ai documenti acquisiti che sembrerebbero confermare una “regolarità formale” nelle procedure di vendita, come ci si poteva attendere visto che eventuali interferenze è difficile che risultino dagli atti della procedura».

Il presidente del tribunale di Tempio chiamato in causa era Gemma Cucca, che ora è presidente della Corte d’Appello di Cagliari, dove è succeduta proprio alla Corradini. Anche lei è indagata dalla procura di Roma.

Ce ne sarebbe abbastanza, ma il torbido al tribunale di Tempio Pausania continua con le rivelazioni di segreto d’ufficio, ingrediente indispensabile in un sistema che si reggeva su favori e amicizie. Sempre nel corso delle indagini sulla villa di Baia Sardinia, infatti, gli inquirenti hanno sentito due indagati parlare tra di loro del fatto che il gip Elisabetta Carta, che aveva firmato il 1 giugno 2016 un decreto d’urgenza per intercettarli, li avesse prima avvisati. Scrive il giudice di Roma: «La vicenda è particolarmente grave: il gip che ha autorizzato una intercettazione informa gli indagati che sono sotto intercettazione dicendo loro di “stare attenti”, il tutto mentre le intercettazioni sono ancora in corso».

Elisabetta Carta si è difesa negando le accuse a suo carico e ammettendo solo di avere avuto con la coppia buoni rapporti lavorativi. Per lei è già stata disposta l’interdizione per un anno.

Non è finita: di quelle intercettazioni, chissà come, venne informato anche Francesco Mazzaroppi, all’epoca presidente della Corte d’Appello di Cagliari e - come detto - padre dell’acquirente Chiara Mazzaroppi.
Tutto questo sembrava normale, nel tribunale di Tempio Pausania, dove i magistrati erano preoccupati soltanto di fare affari immobiliari.