lunedì 10 agosto 2020

Emergenza Ponte infinita: tesoretto elettorale di Toti. - Paolo Frosina

Emergenza Ponte infinita: tesoretto elettorale di Toti

Il governatore-commissario incassa la proroga, così potrà rinnovare 316 contratti in scadenza e spendere 13 milioni.
“Il governo chiarisca subito il significato della proroga. Se qualcuno pensasse di utilizzare una legge speciale per rinviare le elezioni, o peggio ancora per chiudere in casa gli italiani, questo avrebbe un solo nome: golpe!”. Si indignava così Giovanni Toti, il 12 luglio scorso, all’idea di un prolungamento dello stato di emergenza per il Covid. “Conte e Speranza farebbero bene a evitare equivoci pericolosi per la nostra democrazia”, tuonava il governatore ligure.
È lo stesso Toti che nemmeno un mese dopo chiede e ottiene – per un anno intero – la proroga di un’altra emergenza, quella per il crollo del ponte Morandi di Genova. Che al contrario dell’emergenza sanitaria, dopo due anni dal disastro è quasi impalpabile: il nuovo viadotto è stato appena inaugurato e gli strascichi sulla vita quotidiana dei genovesi, ormai, del tutto scomparsi. Ma c’è un dato decisivo: il commissario delegato all’emergenza ponte è proprio Toti, che grazie alla proroga, nei prossimi mesi, spera di intestarsi nuove elargizioni alle imprese e persino il rinnovo di centinaia di posti di lavoro. Un asso nella manica che potrà tornare utile in vista della campagna elettorale.
A sentire il governatore, il prolungamento serve “a concludere degli iter già avviati, come gli ultimi risarcimenti per l’autotrasporto che per l’anno in corso partiranno nel 2021”. Poi “siamo in attesa di capire se le nostre richieste per impiegare i fondi residui (13 milioni e 710 mila euro sui 30 complessivi di aiuti alle imprese non utilizzati, ndr) saranno accettate dal Governo”.
E infine, “potranno essere rinnovati anche i contratti del personale assunto per far fronte allo stato d’emergenza”. Partiamo da qui. All’articolo 2 il decreto Genova ha previsto un piano di assunzioni straordinarie, a tempo determinato, in enti locali e società controllate, per tamponare una serie di urgenze post-crollo. Operatori ecologici a rimuovere i detriti, vigili urbani a gestire la viabilità, funzionari pubblici a evadere le pratiche per gli indennizzi.
Sono 316 i contratti di questo tipo, in scadenza a fine 2020. Le assunzioni vanno approvate dal commissario straordinario e Toti ha appena lanciato un messaggio preciso: saranno rinnovati. Anche se quelle esigenze non sussistono più: la viabilità in Valpolcevera è tornata regolare, i resti del vecchio Morandi smaltiti da tempo e gli aiuti economici distribuiti alle imprese, almeno fin dove permesso dalle contraddittorie scelte della stessa Giunta.
E qui veniamo all’altro tesoretto che Toti spera di distribuire: quei 13 milioni e passa di fondi per la ripresa ancora inutilizzati, su cui la Corte dei Conti ligure ha espresso preoccupazione. Si tratta di una parte dei 30 milioni stanziati dall’articolo 4-ter del decreto Genova per le indennità “una tantum” a imprenditori e autonomi (15 mila euro) e per la cassa integrazione in deroga.
Di questi 30 milioni, Toti ne dedica 15 alle “una tantum”, altri 15 alla cassa. Ma a quest’ultima aderiscono in pochissimi: da qui i 13 milioni avanzati e mai reinvestiti, nemmeno quando, a febbraio, il decreto Milleproroghe ne destina 5 all’area di crisi industriale in Valpolcevera. “Toti avrebbe potuto fare di tutto con quei soldi, a partire da nuovi bandi per i contributi una tantum. Invece ha scelto di tenerli fermi”, denuncia Giovanni Lunardon, capogruppo Pd in Regione Liguria.
Ora però promette che darà battaglia per destinarli alle Srl, la categoria di imprese i cui soci sono stati esclusi dalle indennità. “È il governo che deve autorizzarci”, dice. Ma, come ricorda Lunardon, “l’esclusione delle Srl è il frutto di un’interpretazione incomprensibile data dagli uffici della stessa Regione, senza nemmeno consultare l’Avvocatura di Stato.
Al solito Toti cerca di scaricare su altri i propri insuccessi. È facile, ora che siamo in campagna elettorale, accusare il Governo per nascondere la propria inerzia: un presidente di Regione serio avrebbe trovato da mesi il modo di sbloccare quei fondi, anche sbattendo i pugni sul tavolo a Roma, se necessario”. Ma per quello non serve uno stato d’emergenza.

I furbastri del Covid: politici, star tv e ricchi. - Patrizia De Rubertis

I furbastri del Covid: politici, star tv e ricchi

Sono tre leghisti, un Cinque Stelle e un renziano di Italia Viva i 5 deputati furbastri che nei mesi scorsi hanno chiesto e incassato dall’Inps il bonus da 600 e 1.000 euro erogato a partite Iva, co.co.co, liberi professionisti e lavoratori stagionali in difficoltà a causa dell’emergenza Covid. Lo stipendio netto da 12.439 euro e tutti i benefit e privilegi di cui già godono non sono stati ritenuti sufficienti dai politici, i cui nomi restano coperti dalla legge sulla privacy. E, soprattutto, dal loro stesso velo di omertà nel non autodenunciarsi.
A segnalare le vergognose richieste è stata la struttura antifrode, anticorruzione e trasparenza dell’Inps creata dal presidente Pasquale Tridico. Così, nei momenti di massima emergenza sanitaria, all’assalto dei furbetti delle aziende ad accaparrarsi gli ammortizzatori sociali senza aver registrato cali di fatturato, ora si aggiunge anche quest’altro caso che sta incendiando il Parlamento appena chiuso per ferie. Sebbene non rientri in nessun illecito (la richiesta del bonus non prevedeva requisiti di reddito, bastava solo il numero della partita Iva e l’indicazione della propria posizione professionale), la notizia ha scosso e indignato un Paese in cui ci sono lavoratori che ancora aspettano di ricevere gli ammortizzatori sociali.
Immediato il diluvio di reazioni politiche e non, tra richieste di scuse, di dimissioni e di restituzione dei soldi. Mentre su Twitter è diventato trend topic l’hashtag #Fuoriinomi con l’invocazione di rendere noti i nomi dei deputati coinvolti. In ogni caso, anche se venissero chieste ufficialmente le identità, l’Inps non è tenuta a rivelarle. Sono prestazioni legittime e non c’è alcun motivo di richiesta istituzionale che comporti un obbligo di risposta.
Resta aperta la questione morale che abbraccia tutti gli schieramenti. I 5 deputati non sono gli unici ad aver richiesto il bonus previsto dai decreti Cura Italia e Rilancio. Sono 2.000 i politici coinvolti tra governatori di Regione, sindaci, consiglieri e assessori sia regionali che comunali. Un elenco sterminato in cui rientra anche la peggiore società civile. Oltre al conduttore tv già rivelato ieri da Repubblica, nella lista dei furbastri compaiono altri volti noti del piccolo e grande schermo e una marea di riccastri professionisti, tra notai, avvocati e commercialisti che hanno goduto di un sostegno economico pur senza averne effettivamente bisogno.
Il presidente della Camera Roberto Fico ha definito la faccenda “una vergogna” chiedendo ai 5 di restituire quanto percepito, “è una questione di dignità e di opportunità”. I capigruppo a Montecitorio hanno iniziato presto ieri mattina a compulsare i deputati nelle chat di Whatsapp, chiedendo di accertarsi dai propri commercialisti di non essere tra i colpevoli.
E non manca chi ha parlato di “un sistema bonus sbagliato”, perché ha permesso di richiedere e ricevere un sussidio anche a chi non ne aveva assolutamente necessità. “Avremmo dovuto varare un provvedimento ad hoc per escludere parlamentari e consiglieri regionali, per esempio. Si sarebbe evitato tutto questo”, hanno fatto trapelare dalle segreterie. Dal Cinque Stelle Vito Crimi al dem Nicola Zingaretti, passando per il leghista Matteo Salvini, Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia e la forzista Maria Stella Gelmini, tutti i leader hanno chiesto di cacciare i 5 dal Parlamento, ma nessuna conferma sugli indiziati. Ora la paura per i leader è tanta, soprattutto a un mese dal referendum sul taglio dei parlamentari del 20 settembre voluto fortemente dal M5S. Intanto la caccia ai furbetti continua.

domenica 9 agosto 2020

Come semplificare? Con 2.750 emendamenti. - Gia.Sal

Frasi, citazioni e aforismi sulla truffa e l'imbroglio ...

Il nome dovrebbe dire tutto: decreto legge Semplificazioni. 
Il contenuto pure: una norma scritta apposta per sbloccare le opere pubbliche con gare di appalto semplificate, eliminare lacci e lacciuoli della burocrazia e velocizzare i tempi delle autorizzazioni della Pubblica amministrazione. 
Una norma approvata il 7 luglio ed esaltata da tutte le forze di maggioranza, da Matteo Renzi (“Adesso apriamo i cantieri”) al Pd (“Può risolvere la malattia endemica della burocrazia”, Andrea Marcucci) fino al M5S. 
Con un obiettivo: fare da “trampolino di lancio per la ripartenza del Paese” (Giuseppe Conte). 

Peccato che i giallorosa di semplificare non hanno alcuna voglia, nonostante il nome del decreto. Ieri nelle Commissioni Affari costituzionali e Lavori pubblici del Senato sono stati depositati gli emendamenti in vista della conversione in legge: in tutto sono 2.750, di cui la metà delle forze di maggioranza. Ben 397 sono targati M5S, 360 del Pd, mentre Italia Viva e LeU si spartiscono 288 e 242 emendamenti a testa. I restanti 1.300 sono firmati dall’opposizione che però, va detto, fa il suo mestiere. Ai limiti del tafazziano, invece, la scelta della maggioranza. L’unica speranza, per il governo, è che il 23 agosto molti emendamenti vengano dichiarati inammissibili. In caso contrario, dal 24 agosto sarà Vietnam parlamentare. E un decreto approvato per semplificare potrebbe finire sepolto sotto una montagna di complicazioni.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/08/07/come-semplificare-con-2-750-emendamenti/5892532/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=commenti&utm_term=2020-08-07

Volevate la prova che di semplificare non c'è voglia? - Eccovela! - Le semplificazioni, infatti, non giovano a chi vuole mantenere tutto in sospeso, incomprensibile... Vi chiedete: perchè? Perchè le complicazioni giovano alla disonestà mentale di chi vuole, con arguzia e furbizia, poter sguazzare nel marasma dell'interpretazione personalizzata, di chi vuole, quindi, aggirare le leggi a proprio piacimento, senza dover incorrere nelle maglie della giustizia...

Superbonus: Agenzia delle Entrate, cessione del credito dal 15 ottobre.

Superbonus: Ag.Entrate,ok anche a familiari e conviventi ©

Accessibile anche a familiari e conviventi del possessore dell'immobile.

La cessione del credito sul superbonus al 110% potrà essere utilizzata dal prossimo 15 ottobre. E' quanto previsto nel modello di comunicazione approvato col provvedimento di oggi del Direttore dell'Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini. La comunicazione per fruire dello sconto sul corrispettivo o della cessione potrà quindi essere inviata all'Agenzia a partire dal 15 ottobre 2020 ed entro il 16 marzo dell'anno successivo a quello in cui si sostiene la spesa, utilizzando il modello approvato esclusivamente in via telematica.
Anche i familiari e i conviventi del possessore o detentore dell'immobile che sostengono la spesa per i lavori effettuati sugli immobili a loro disposizione possono accedere al superbonus per le ristrutturazioni al 110%. Così come imprenditori e autonomi sulle unità immobiliari all'interno di condomini per i lavori sulle parti comuni. Rientrano inoltre nel plafond agevolabile i costi per i materiali, la progettazione e le spese professionali connesse (perizie e sopralluoghi, spese preliminari di progettazione e ispezione e prospezione). Sono solo alcuni dei chiarimenti interpretativi contenuti nella circolare dell'Agenzia delle Entrate sull'incentivo introdotto con il dl Rilancio.
Al Superbonus del 110% possono accedere dunque anche i familiari e i conviventi di fatto del possessore o del detentore dell'immobile, sempre che siano loro a sostenere le spese per i lavori. La circolare specifica che tali soggetti possono usufruirne se sono conviventi alla data di inizio dei lavori o, se antecedente, al momento del sostenimento delle spese. L'incentivo vale anche per gli interventi su un immobile diverso da quello destinato ad abitazione principale, nel quale può svolgersi la convivenza, mentre non spetta al familiare su immobili locati o concessi in comodato. Ha diritto alla detrazione, specifica l'Agenzia, anche il promissario acquirente dell'immobile oggetto di intervento immesso nel possesso, a condizione che sia stato stipulato un contratto preliminare di vendita dell'immobile regolarmente registrato. Per quanto riguarda le partite Iva e i condomini, via libera anche per le persone che svolgono attività di impresa o arti e professioni per i lavori sulle parti comuni degli edifici deliberate dalle assemblee condominiali. Se i lavori invece interessano singole unità immobiliari, allora il bonus è riconosciuto limitatamente agli immobili estranei all'attività esercitata, appartenenti quindi solo alla sfera "privata" della vita dei contribuenti. La detrazione del 110% si allarga fino a comprendere anche alcune spese accessorie agli interventi che beneficiano del Superbonus, purché effettivamente realizzati. Si tratta, ad esempio, dei costi per i materiali, la progettazione e le altre spese professionali connesse (perizie e sopralluoghi, spese preliminari di progettazione e ispezione e prospezione).

Lega: altre operazioni sospette Dodici bonifici a “The King”. - Stefano Vergine

Lega: altre operazioni sospette Dodici bonifici a “The King”

Soldi usciti dalle casse della Lega Nord e finiti sui conti di un fornitore. Lo stesso fornitore grazie al quale, proprio in quel periodo, il commercialista salviniano Alberto Di Rubba ha realizzato una plusvalenza da oltre 1 milione di euro. È questo, in estrema sintesi, il contenuto di un documento della Uif (Unità di informazione finanziaria) di Banca d’Italia. Le carte raccontano un nuovo capitolo delle trame finanziarie leghiste, e per la prima volta collegano il partito a un importante imprenditore: Marzio Carrara, l’uomo che i giornali di settore descrivono come “the king of print”, colui che sta trasformando Bergamo nella capitale italiana della stampa su carta. “Le mie aziende non sono riconducibili, né direttamente né indirettamente, ad alcuna organizzazione politica”, tiene a precisare al Fatto Carrara.
Partiamo dalla fine della storia. È il 6 Settembre 2018. Il Tribunale del Riesame di Genova quel giorno conferma il sequestro dei 49 milioni di euro della Lega. Secondo i giudici, il denaro è sequestrabile in “tutti i conti correnti riconducibili” al partito. È il game over definitivo per Salvini, che solo in seguito otterrà l’ok dalla Procura di Genova per la rateizzazione del debito in quasi 80 anni. Il documento di Banca d’Italia racconta cosa è successo alle finanze leghiste da settembre 2017 ad agosto 2018. Cioè pochi giorni prima della sentenza del Riesame.
In quell’anno i detective della Uif ricevono parecchie segnalazioni di operazioni sospette. Denaro che dai conti della Lega finisce su quelli di un’azienda bergamasca. Si chiama Cpz e fa capo a Carrara, 45 anni, erede di una storica famiglia di stampatori. In meno di un anno, la Lega effettua dodici bonifici sui conti della Cpz, per un totale di 837mila euro. Quei bonifici, spiega Carrara, si riferiscono ai servizi di stampa forniti alla Lega per le elezioni politiche e regionali del marzo 2018. Gli investigatori, però, considerano le operazioni sospette per via di un altro giro di denaro che nello stesso periodo corre parallelo. Perché se da una parte Carrara incassa soldi dalla Lega, dall’altra paga una cifra molto simile a uno dei commercialisti più importanti del partito.
Il 10 maggio 2018 Di Rubba – oggi indagato dalla Procura di Milano per peculato nella vicenda della Lombardia Film Commission – riceve infatti sul suo conto due bonifici da Carrara, per un totale di 1,1 milioni di euro. Motivo? “Pagamento per la cessione delle quote di Dirfin Srl”.
La faccenda è complicata, bisogna stare attenti a nomi e date. Dirfin è una società di consulenza fondata nel novembre del 2017 e posseduta interamente da Di Rubba, già allora professionista con incarichi di spicco nella Lega. Poco dopo essere stata costituita, Dirfin sarà protagonista di un colpaccio finanziario. L’affare va sotto il nome di Arti Group Holding, società fondata a Bergamo nel dicembre del 2017 con tre azionisti. C’è Carrara, proprietario del 45 per cento delle quote attraverso la finanziaria Cafin. C’è il manager Alessandro Bulfon, titolare del 49 per cento delle azioni tramite la Advancy Holding Srl. E infine Di Rubba, che detiene il restante 6 per cento via Dirfin.
Un mese dopo essere stata fondata, a gennaio del 2018, Arti Group Holding compra NIIAG, una grande società che stampa libri e cataloghi. La acquista dal Fondo Bavaria per 5 milioni di euro. E solo quattro mesi dopo, a maggio, la rivende alla Elocograf del gruppo Pozzoni, altri imprenditori del settore, per 29 milioni di euro. Insomma, una plusvalenza di 24 milioni.
Il documento di Banca d’Italia fa notare cosa succede subito dopo la vendita di NIIAG. Sì, perché una volta terminata l’operazione, finanziata interamente da Carrara, lo stesso fornitore della Lega liquida i suoi soci della Arti Group Holding. Per il suo 6 per cento, che aveva pagato 10 mila euro, Di Rubba incassa da Carrara 1,1 milioni di euro.
Niente di strano, spiega l’imprenditore, che descrive Di Rubba come un professionista di sua “assoluta fiducia”, della cui consulenza si è servito per alcune operazioni di ristrutturazione aziendale: “Al fine di dividere gli utili realizzati senza dover attendere la chiusura del bilancio, decisi di acquistare le partecipazioni degli altri due soci”. Dunque, il milione incassato da Di Rubba è il profitto che il commercialista della Lega avrebbe comunque ottenuto come azionista della Arti Group Holding. Tutto regolare, è insomma la tesi di Carrara. Che annuncia però di voler tagliare i ponti con la Lega e con tutti gli altri partiti con cui finora ha lavorato: “Tenuto anche conto del particolare contesto di crisi che stiamo affrontando e delle negative ripercussioni mediatiche che l’attività di stampa in favore di partiti politici sta avendo, abbiamo deciso di non offrire più i nostri servizi di stampa a nessun partito politico”.

Lo stipendio da 12mila euro a loro non basta: cinque deputati incassano il bonus da 600 euro per partite Iva durante l’emergenza Covid.

Lo stipendio da 12mila euro a loro non basta: cinque deputati incassano il bonus da 600 euro per partite Iva durante l’emergenza Covid

Ad accorgersene è stato l'ufficio dell'Inps che si occupa di individuare anomalie e frodi. Nella mossa dei cinque parlamentari non c'è nulla di illegale, tuttavia migliaia di italiani hanno rinunciato al bonus perché ritenevano di non averne bisogno.

Lo stipendio netto da 12.439 euro, evidentemente, non era sufficiente. No, lo volevano arrotondare col bonus che il governo, in piena emergenza Covid, ha voluto introdurre soprattutto per chi, nei mesi di marzo e aprile, non ha fatturato alcunché. E così hanno fatto richiesta all’Inps per ottenere i 600 euro. Sono cinque virtuosi – si fa per dire – deputati della Repubblica italiana che, oltre al salario mensile, come si sa godono anche di svariati benefit: dai trasporti gratis ai 3mila euro per le spese telefoniche fino all’assistenza sanitaria.

A scoprire il magheggio (che, va detto, è senz’altro inopportuno ma non illegale) è stata la Direzione centrale Antifrode, Anticorruzione e Trasparenza del principale istituto di previdenza. E stando a quanto scrive Repubblica, i deputati che con una mano approvavano la manovra col relativo scostamento di Bilancio e con l’altra facevano richiesta del bonus sarebbero, in totale, cinque. I 600 euro, previsti dai decreti Cura Italia e Rilancio, erano destinati alle partite Iva e ad alcune specifiche categorie di autonomi. Vista l’emergenza in corso, senza alcuna distinzione di reddito tra i lavoratori. Tuttavia sono state migliaia le persone che, pur avendo diritto all’indennità, hanno scelto di non riceverla in considerazione della propria situazione patrimoniale. Non è stato così per i nostri cinque parlamentari. Che nonostante il lauto stipendio hanno incassato il bonus, alla faccia di chi, in quei mesi, ne aveva realmente bisogno.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/08/09/lo-stipendio-da-12mila-euro-a-loro-non-basta-cinque-deputati-incassano-il-bonus-da-600-euro-per-partite-iva-durante-lemergenza-covid/5894531/?utm_medium=Social&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR3iH-yiP6Z0SQHgu3tYc08N5IJ_ucJrdYAZGObBBbzbOlQ1Z-J4yLvnRvo#Echobox=1596960687

“È una riforma coraggiosa che stronca le spartizioni”. - Luca De Carolis

“È una riforma coraggiosa che stronca le spartizioni”

Giustizia - Le nuove regole per il Csm dopo lo scandalo Palamara: “Basta girarsi dall’altra parte, ora nuovo sistema di voto e sorteggio”.
Le agenzie battono al ritmo delle critiche, quelle delle associazioni della magistratura alla riforma del Csm. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede fa una pausa e risponde: “Ogni opinione è legittima, ma io chiedo a tutti di non girarsi dall’altra parte. Il cambiamento non si può più rinviare”.
Si aspettava queste reazioni?
In queste settimane ho letto e ascoltato tutte le proposte, con attenzione. Quando le ritenevo meritevoli le trasmettevo al mio ufficio legislativo. Ma a un certo punto bisogna fare sintesi. e questa è una riforma coraggiosa. Andava fatta, perché la magistratura deve recuperare credibilità agli occhi dei cittadini.
In diversi obiettano che il nuovo sistema di elezione a doppio turno, ripartito in 19 collegi, porterà comunque ad accordi tra correnti. Possibile, no?
Coloro che lo sostengono non lo motivano. Tutti chiedevano che l’elezione dei membri del Consiglio andasse circoscritta nei territori, e noi lo abbiamo fatto, cosicché i magistrati apprezzati a livello locale possano essere votati. In un voto nazionale, chi non apparteneva a correnti non aveva possibilità.
Ma gli scambi tra correnti si potranno sempre fare….
Con il nuovo sistema di voto è praticamente impossibile prevedere l’esito delle votazioni. Saranno possibili fino a quattro preferenze, con obbligo di alternanza di genere e valore ponderato applicato al voto. Così si stroncano i metodi spartitori.
Meglio il sorteggio integrale, dicono alcuni. Di certo più semplice, no?
Chi lo afferma non vuole che la riforma vada avanti. Per istituire l’elezione solo tramite sorteggio servirebbe una riforma della Costituzione, ed è evidente che non ci siano le condizioni per farla in Parlamento.
Una forma di sorteggio peraltro ci sarà, ma per l’Anm è incostituzionale.
La riforma prevede che il numero minimo di candidati debba essere di 10 in ogni collegio, con alternanza di genere. Abbiamo previsto il sorteggio per arrivare a questa quota in caso qualcuno abbia premura di far scarseggiare candidati in base a vecchie logiche.
Sempre l’Anm la esorta a evitare “la negazione del vitale pluralismo culturale e della identità politico-amministrativa che la Costituzione assegna al Csm”.
Il pluralismo culturale è andato a farsi benedire con il correntismo. Rispetto le associazioni dei magistrati, leggo gli atti dei loro convegni e le consulto. Ma le associazioni non possono comportarsi nel Csm come i partiti si comportano in Parlamento. Nel Consiglio superiore della magistratura non si fa politica.
Per l’Unione Camere penali però il testo consegnerà il Csm ai pubblici ministeri. Perché lei ha fatto saltare la quota di quattro pm dentro il Consiglio?
Sa in quanti si sono presentati per quei quattro posti nella precedente elezione? Quattro, in tutta Italia. Saranno i magistrati a decidere per chi votare.
C’è lo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura. Se eletti, non si potrà più fare il giudice o il pm. Quanti malumori ha suscitato nella maggioranza?
È stato uno dei punti più semplici della riforma, uno dei più condivisi. Di questa norma sento parlare da quando andavo al liceo…
L’ha fatta in solitudine?
Ho fatto 10 o 12 riunioni di maggioranza sul testo. E mi sono avvalso della collaborazione di alcuni studiosi, i professori Renato Balduzzi, Roberto Romboli e Daniela Piana. Ho recepito molti dei loro suggerimenti e voglio ringraziarli.
Il caso Palamara le ha permesso di avviare questa riforma. Senza non avrebbe mai potuto, no?
Il caso Palamara ha impedito di rinviare tutto a chi avrebbe avuto voglia di farlo. Non è stato più possibile buttare la palla in tribuna.
L’ex presidente dell’Anm ha indicato come testi a sua difesa magistrati e politici. Non crede che potrà creare problemi al governo?
Assolutamente no. Non entro nel merito, perché io sono titolare del potere disciplinare. Ma le dinamiche politiche vanno distinte da quelle della magistratura.
La riforma prevede che per accedere a incarichi direttivi si debba essere in ruolo da almeno due anni. Ma non si applica a coloro già fuori ruolo. È un favore?
No, è una scelta di politica legislativa. Per tutti i casi di incompatibilità si applicheranno norme transitorie, cioè la riforma varrà per il futuro.