Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 6 novembre 2020
Renzi come Benigni: Denis ti voglio bene!
Le troppe giravolte di Donna Giorgia su virus e lockdown. - Andrea Scanzi
La scorsa settimana, alla Camera, Donna Giorgia Meloni ha detto che i veri negazionisti sono quelli al governo. Per dare ancora più forza a tale granitico assioma, ha pure citato la nota filosofa Angela da Mondello, quella diventata famosa (?) per aver detto d’estate dalla D’Urso che “non ce né Coviddì”. Ascoltiamo Donna Giorgia: “(Gli) Unici negazionisti (li ho) visti al governo. Dicevate ‘non ce n’è coviddi’. Col virus fuori controllo e gli italiani in ginocchio dopo il primo lockdown, ci siamo trovati di fronte a ministri e leader di governo negazionisti. Zingaretti dice che non ce n’è coviddi a Milano, ma poi… giù ad aperitivi. La Azzolina dice che non ce n’è coviddi, perché forse con i banchi a rotelle riesce a scappare”.
Donna Giorgia, qui, si è persino superata. Lei che accusa il governo di negazionismo è come Salvini che accusa Conte di aver sottovalutato la seconda ondata (ah no, questo è accaduto davvero). È per caso la stessa Donna Giorgia che (con Salvini e Tajani) organizzò il 2 giugno un mega assembramento col Paese intero appena uscito dal lockdown? È la stessa alleata col no mask a giorni alterni Salvini? Cosa diceva Donna Giorgia d’estate? Questo: “Non ho scaricato l’app Immuni e invito tutti a non scaricarla” (24 giugno). “Stato di emergenza? Al governo pazzi irresponsabili” (29 luglio). “Non sono negazionista ma in Europa solo noi proroghiamo l’emergenza” (29 luglio). “L’obiettivo del governo è mantenere la paura per mantenere se stesso” (19 agosto). Eccetera. Eppure, una così, ancora parla.
Il passaggio più delirante del suo intervento alla Camera, oltre alla miseria intellettuale di citare Angela da Mondello (?!?) in un luogo istituzionale, è il riferimento all’aperitivo di Zingaretti. Certo, il segretario Pd commise un errore, ma era fine febbraio. E Donna Giorgia si è guardata bene dal ricordare che Zingaretti sbagliò dieci mesi fa e non, come lei, a fine luglio. A fine febbraio quasi tutti sottovalutarono il Covid (io per primo). E la Meloni si comportò come Zingaretti. Negli stessi giorni (anzi un po’ dopo) in cui il leader Pd faceva l’aperitivo a Milano, Donna Giorgia registrava un video in inglese per esortare i turisti a venire in Italia. Eccola: “L’Italia non è la nazione con il più alto numero di contagi, ma quella con il più alto numero di contagi conosciuti, grazie al rigido protocollo che abbiamo deciso di utilizzare. Significa che siamo stati la prima nazione a isolare il virus… Non abbiate paura di venire in Italia, come noi italiani non abbiamo paura a girare su tutto il territorio nazionale, eccetto per una piccola parte della nostra nazione. Non rinunciate alla più bella meta turistica del mondo. Troverete un’Italia sana e felice”. Certo: “Sana e felice”. L’idea che la Meloni abbia ora il coraggio di accusare il governo di negazionismo, è una delle tante storture di questo Paese. Del resto Donna Giorgia è la stessa che, una settimana fa, ha sostenuto che il responsabile della situazione sia “unicamente” Giuseppe Conte. La pandemia, la crisi, le morti: è tutta colpa di Conte. Deve essere una sorta di supercattivo dei fumetti.
Siamo alla follia. Al capovolgimento totale della realtà. Alla corsa (tra Salvini e Meloni) a chi risulta più irresponsabile. Ovviamente senza mai proporre soluzioni alternative concrete. Per dirla grevemente con Filippo Rossi, leader de La Buona Destra: “È incredibile come Giorgia Meloni abbia sempre la soluzione a tutto senza mai proporre un cazzo”. Viviamo tempi orribili. E Donna Giorgia sembra sguazzarci dentro con grande agio. Beata lei.
Il prete che minimizza la pedofilia, il martire Verdini e il gigante Proietti: i post di Scanzi. - Andrea Scanzi
Irresponsabilità da “sgovernatore”
Che pena, certi sgovernatori. Che faccia tosta. Che mancanza totale di rispetto, morale, senso istituzionale. Di alcuni neanche sarebbe il caso di parlare. Tipo il reggente Spirlì, quello che mesi fa si vantava di usare le parole “negri”, “froci” e “zingari”. O Fontana, uno che già solo immaginarlo governatore della Lombardia viene voglia di invadere la Polonia. Questi fenomeni sono i campioni dello scaricabarile: autonomisti quando fa comodo, statalisti quando c’è da scaricare le colpe sul governo centrale. Ecco: questa gente mi ha brasato i coglioni. Me li ha proprio frantumati, glassati e vivisezionati dalle fondamenta. Il loro atteggiamento – dentro una pandemia mondiale! – è scellerato e inaccettabile. Lombardia zona rossa? È il minimo sindacale. E anzi andava fatto tre settimane fa. Idem la Calabria, quella che giorni fa “sbagliava” i dati in terapia intensiva. Mancano Campania e Liguria? Probabile, ma ciò nulla toglie alle vostre responsabilità.
Sicilia zona arancione? Ex camerata mio Musumeci, abbi pazienza, ma tra i 21 protocolli da seguire non ci sono solo il numero di contagi. C’è per esempio la situazione degli ospedali. E c’è per esempio il tracciamento, e quello della Sicilia è così efficiente che in confronto il tracking di Deliveroo pare Cape Canaveral. Siete stati votati (insensatamente) per governare, non per frignare. In questi mesi avete fatto poco, se non niente. E quel poco spesso lo avete pure sbagliato. Avete davvero rotto le palle. Ed è ora di finirla.
Chi paragona Conte all’isis
“Conte ama colpire col favore delle tenebre, non diversamente dai terroristi islamici che hanno funestato l’ultima notte di libertà di Vienna”.Lo ha scritto davvero, Pietro Senaldi. Okay, lo ha scritto stamani (mercoledì) sulla prima pagina di un “giornale” che incarna da sempre il peggio del “giornalismo”, ma lo ha scritto. Davvero siamo arrivati al punto di accettare parallelismi irricevibili tra un presidente del Consiglio e i terroristi islamici? Denunciate questa deriva terrificante e condividete a più non posso questo post. Sono frasi INACCETTABILI!
Fratelli d’Italia: “La discriminazione rientra nell’ambito delle opinioni”
A eccezione di qualche parlamentare di Forza Italia, quel troiaio di destra che ci ritroviamo ha provato in ogni modo ad affossare il meritorio disegno di legge Zan contro l’omotransfobia, che la maggioranza vorrebbe adottare per rafforzare le tutele contro le discriminazioni e le violenze per orientamento sessuale, genere e identità di genere. Il provvedimento è passato alla Camera.I livelli di orrore morale che hanno raggiunto legaioli e Fratelli dei Quasi Fasci sono stati abominevoli. Ne cito uno per citarne tutti. Lui è tal Edmondo Cirielli di Fratelli dei Quasi Fasci. Ha detto quanto segue: “Potete dire quello che volete, ma l’istigazione alla discriminazione e l’atto della discriminazione, per quanto odiosi e deprecabili, rientrano nell’ambito dell’opinione”. Capito? La discriminazione rientra “nell’ambito dell’opinione”. Siamo ormai oltre l’abominio.
A proposito di negazionisti, c’è anche chi muore. Negazionisti, riduzionisti, no mask e fan di quegli imbecilli che in tivù o in Parlamento non credevano alla seconda ondata, minimizzavano e facevano i selfie in piazze piene con i Kapitoni sognando le discoteche aperte e il “liberi tutti”: leggete queste notizie e poi sputatevi in faccia da soli. Avete colpe indelebili e imperdonabili. Quanto dolore. Quanta rabbia. E quanti deficienti senza speranza, che complicano una situazione di per sé difficilissima. Siamo messi davvero male.
Trump-Biden, sfida con un sistema elettorale delirante.
Le elezioni americane hanno confermato due vecchie certezze; gli americani sono cocciutamente insondabili e gli “esperti” non analizzano, ma tifano. I “politologi”, quasi tutti di sinistra, speravano in Biden sulla base di un’unica considerazione: “Trump è irricevibile”. Verissimo, ma questa non è un’analisi: è una speranza. È il credere che tutti gli umani la pensino come te. Se così fosse, i Pink Floyd sarebbero Imperatori della Galassia, Enrico Berlinguer avrebbe fatto il Presidente del Consiglio per secoli e Salvini sculaccerebbe – col naso – i billi della Val di Chiana. La verità è che, come quattro anni fa, molti “tromboni” non hanno capito nulla delle elezioni americane. Tre giorni fa ho telefonato a uno dei miei migliori amici. Si chiama Massimiliano Bertozzi. Vive a New York da più di dieci anni. Fa il cameraman (anche) per Sky e Mediaset. È bravissimo. Gli ho chiesto se fosse vero, come in tanti ripetevano da noi, che il diversamente carismatico Biden avesse già vinto. Lui: “No. La sua rimonta si è fermata da qualche settimana, Trump sta riconquistando tutti e mi gioco ogni cosa che vincerà l’election Day e poi parlerà di brogli sul voto postale. Non solo: qualora arrivasse la vittoria dei Dem per via del voto postale, non riconoscerà l’eventuale vittoria. E ricorrerà alla Corte Suprema, dove ovviamente c’è tutta gente sua”.Esattamente quello che è accaduto. (Non invento nulla: ho la sua nota vocale e ieri ho pure citato quello che ha detto durante la #ScanziLive). Ora: Massi è sicuramente un genio, e lo sapevo già, ma forse molti “esperti” potevano almeno telefonargli prima di sparare cazzate per mesi sui giornali e in tivù. Le elezioni 2020 hanno peraltro evidenziato l’eterna stortura di un sistema elettorale folle, contorto e un po’ ridicolo. E’ vagamente anacronistica la pantomima dei 535 “Grandi Elettori”, che poi votano di fatto a dicembre il Presidente degli Stati Uniti (quella degli USA è un’elezione indiretta). E’ folle la suddivisione del peso elettorale dei vari Stati. E’ folle il “winner takes all”, ovvero chi vince in uno Stato anche solo per un voto in più prende poi TUTTI i grandi elettori in palio (tranne che in Nebraska e Maine, dove vige il proporzionale). È inaccettabile che un presidente possa divenire tale prendendo meno voti dell’altro (è accaduto anche quattro anni fa). Ed è assai contorto questo sistema tripartito andato in scena nelle ultime settimane: c’è stato il voto di ieri, ma pure il voto per posta e il voto anticipato.Questi ultimi due ritarderanno lo spoglio proprio negli Stati in bilico. Infatti l’esito di Wisconsin, Michigan e Pennsylvania lo sapremo domani e venerdì! A tutto questo, aggiungete il fatto che il voto postale è di per sé un disastro perché la posta negli USA fa schifo e molte schede sono arrivate tardi. O addirittura sono andate perdute. Una roba allucinante: siamo nel 2020, non nel far west! Biden, ennesimo candidato sbagliato dei Democratici, può ancora vincere. Per farlo, però, deve trionfare in Georgia e in uno stato tra Michigan e Pennsylvania. Oppure vincere Michigan e Wisconsin. Ma in tutti questi Stati Trump è per ora in vantaggio, lo spoglio è molto avanti e occorrerebbe che Biden stravincesse nel voto postale. Probabile, perché quel voto privilegia da sempre i democratici, ma a quel punto Trump non abbandonerà la Casa Bianca e non riconoscerà la vittoria. E accadrà di tutto. Come aveva anticipato il mio amico. Da tutto questo, sperando che Trump perda (anche un tombino fa meno danni di lui) si imparano tre cose: 1) Gli Stati Uniti sono un paese straordinario, ma di sicuro non possono insegnare a nessuno la democrazia; 2) Certi “esperti” sono affidabili come Balotelli; 3) Ogni volta che dovrò scommettere su qualcuno e qualcosa, d’ora in poi telefonerò al mio amico.(Se volete vi passo il numero).
Verdini in galera, per i “garantisti” è un martire
In uno dei non pochi casi giudiziari che lo riguardano, quest’uomo è stato condannato in Cassazione per il crac del Credito fiorentino: 6 anni e mezzo. La condanna è quindi ora definitiva. Verdini andrà in galera. Si è già costituito a Rebibbia. Nelle prossime ore i garantisti caricaturali che allignano a destra come a (finta) sinistra lo faranno passare per martire. Sarà il solito coro patetico. Null’altro che folclore moralmente colpevole. Non provo pietà nei confronti di quest’uomo un tempo (?) potentissimo e politicamente “ferocissimo”, casomai rabbia. La rabbia per tutti quei politici che, anche a “sinistra”, lo hanno celebrato per decenni come un grande statista, fino ad elevarlo a “padre costituente” in quello schifoso referendum del 4 dicembre 2016 che stava per affossare per sempre questo paese. Le colpe dei renziani per quel tentativo di distruzione della Costituzione resteranno eterne. Ora ho due curiosità. La prima è quanto ci metteranno a toglierlo di galera – con qualche cavillo – prima della scadenza della condanna. La seconda è chi sarà per primo a portargli le arance. Forse il genero Salvini. Forse la collega “costituente” Boschi. O forse l’allievo Renzi. Sia come sia, la sua “politica” ha già fatto più danni della grandine. Auguri all’uomo, magari in carcere imparerà qualcosa, ma politici come lui anche no. Abbiamo già dato. Basta così.
“Meglio la pedofilia dell’aborto”, l’inaccettabile don.
Lui è tal “don” Andrea Leonesi. Dialettica pietosa e italiano che all’asilo lo parlano meglio. E fin qui i suoi pregi. Durante l’omelia del 27 ottobre presso la chiesa dell’Immacolata di Macerata, questo bel giuggiolone ha avuto il coraggio di sostenere che l’aborto sia più grave della pedofilia. Una roba da vomito. E per me una roba anche moralmente criminale. Già che c’era, il fenomeno dall’italiano tragico ha sparato pure boiate sulle coppie omosessuali, sulle femministe che “se spojano ‘n Chiesa” e sulle mogli sottomesse ai mariti. Guardate questo video e poi vomitate. La Chiesa di Papa Francesco ha tutto il mio rispetto. La Chiesa di “preti” così è quanto di più distante dalla mia idea di vita. E mi fa semplicemente schifo che uno così sia prete.
Proietti, la scomparsa di un vulcano di idee e progetti.
La scomparsa di Gigi Proietti mi ha colpito profondamente. Persino più di quanto credessi. E credo sia accaduto a molti tra voi. Se n’è andato un monumento, un gigante, un fenomeno. E una grande persona. L’ultimo vero mattatore di questo paese. Sono molto triste. E pure un po’ svuotato. Sul Fatto, Marco Travaglio ha scritto un ricordo bellissimo. È una delle cose migliori che Marco abbia mai scritto. Ha detto (perfettamente) quello che provo anch’io. Per questo desidero pubblicarlo anche qui. Siamo dannatamente soli. Ed è sempre più dura. “Me so’ fatto fa’ ’na piscinetta… ’st’estate ce devi venì! Io me ne sto bono bono in auto-clausura e aspetto… Ci ho pure tre galline che me fanno l’ovetto fresco…”.Quando chiamava Gigi – e capitava spesso, specie durante il lockdown per ridere un po’ dei virologi da divano che dicevano tutto e il contrario di tutto nella stesso programma, spesso nella stessa frase (“Ma come fanno? Boh”) – stentavi a credere che fosse proprio lui: il più grande mattatore vivente. Ora che questo 2020 di merda ci ha portato via anche lui, proprio mentre un inutile cinquantenne twittava sull’inutilità degli ottantenni, si affollano i ricordi di un’amicizia nata grazie al Fatto. Proietti ci leggeva per primi, poi telefonava per commentare, suggerire, soprattutto sghignazzare (“Chi non sa ridere mi insospettisce”). Ogni tanto ci mandava uno stornello, un sonetto in romanesco (“Se pubblichi, non mi firmare: metti ‘Agro Romano’…”).
Una volta, alla nostra festa all’isola Tiberina, doveva essere un’intervista e invece portò il suo pianista Mario e fece uno spettacolo intero col meglio del suo repertorio (“aggràtise”): da Nun me rompe er ca’ a Pietro Ammicca, dal Cavaliere nero a Toto nella saùna (con l’accento sulla u), dal vecchietto delle favole sconce all’addetto culturale pieno di tic al prof che declama La pioggia nel pineto in barese. Il meglio di A me gli occhi please, poi travasato in Cavalli di battaglia, che doveva andare una sera sola all’Auditorium e diventò un tour infinito, sempre sold out. Frammenti di memoria e lampi di genio si mischiano alle lacrime.Il nasone fin sopra la fila di denti bianchi. Gli occhi che roteano. Il vocione cavernoso da fumatore. La risata aperta e la gioia di strapparne agli altri. Sempre in scena, anche per strada e in trattoria. L’opposto del cliché del grande comico, allegro sul palco e sul set, cupo e depresso in privato: a lui ridere piaceva un sacco, almeno quanto far ridere. Lui nel camerino del Globe Theatre a villa Borghese, qualche estate fa, esausto e zuppo di sudore dopo due ore di Edmund Keane con 30 e passa gradi: “Che fate, annate a cena da Dante? Io nun so se me la sento, stasera avrò perso cinque chili…”.Poi si presenta al ristorante e ci ammazza di barzellette e aneddoti su Gassman, Bene, Fabrizi e Stoppa fino alle tre di notte, lui fresco come una rosa, noi tramortiti. “Questa la sapete senz’altro…”. “Questa è troppo feroce… che faccio, la racconto?”. “Marché, famme fa’ ’n tiro de sigaretta, mentre Sagitta nun guarda. E dammene ’n’artra de frodo, che me la fumo quanno tutti dormono…”. Ancora domenica mattina, in rianimazione, con la compagna di sempre Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna, il manager Alessandro Fioroni, parlava di lavoro.Del film in uscita su Babbo Natale con Giallini. Della stagione appena chiusa al Globe, unico grande teatro aperto in Italia (“Chissenefrega dei soldi, io i fondi del Fus non me li intasco, facciamo lavorare ’sti ragazzi prima che richiudano tutto”).Dei progetti futuri: rivoleva un teatro tutto per sé, dopo lo scippo del Brancaccio a opera di Costanzo&C., progettava con Renato Zero un nuovo teatro tenda come quello degli anni 70-80 (“Renato fa i concerti e io metto in scena tutto Molière, sto convincendo Corrado Guzzanti e Verdone ad alternarsi con me, tu mi fai il teatro-giornale e magari rimetto su la scuola di teatro che la Regione mi ha chiuso”; seguiva imitazione irresistibile del funzionario dell’assessorato che gli comunica, a gesti e a grugniti, le ragioni dello stop). Un anno fa viene a vedere Ball Fiction e alla fine, in camerino, si accorge di aver perso il portafogli. La nostra Amanda si precipita in sala e lo trova sulla sua poltrona. “Vedi, Gigi, i nostri amici sono tutti onesti!”. “Ma va, penzano che nun ci ho ’na lira!”.All’ultima festa del Fatto, in streaming dal giardino della redazione, doveva venire alla serata di apertura: “Magari chiacchieriamo di come nascono le barzellette, che molti considerano umorismo di serie B perché non le sanno raccontare, non hanno i tempi, la faccia. Il mistero umano di come scocca la scintilla della risata è un tema affascinante. Potrebbe nascerne uno spettacolo, ho letto anche dei saggi molto pensosi…”.Perché era coltissimo, come lo sono quelli che lo dissimulano e si fanno beffe dei colleghi engagé (“Natale in casa Latella”) o “di ricerca (“‘Sospendete immediatamente le ricerche!’, diceva Gassman quando li vedeva”). Ma stava già male (“Famo ’st’altr’anno”). Un paio di mesi fa feci una battuta in un pezzo sugli orrori di stampa: “Se tornasse Il Male con un falso giornalone dal titolo ‘Arrestato Gigi Proietti: è il capo dell’Isis’, tutti commenterebbero: embè?”. Ed ecco puntuale il suo sms: “Salam da Rebibbia! Speravo di passare inosservato, poi invece arriva Travaglio. E scusa: il turbante non lo trovo, acc…”. Lo inseguivamo da due settimane per l’intervista degli 80 anni. Silenzio. Poi, sabato sera, l’sms: “Caro Marco, purtroppo al momento non sono in grande forma e l’intervista temo non si possa fare, poi ti racconterò. Ci sentiamo con calma. Ti abbraccio”.Solo a lui poteva venire in mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre. Che per un comico non è niente male. Anche Shakespeare ci era riuscito, ma il 23 aprile, non il giorno dei morti.Si dice che far ridere sia impresa molto più difficile che far piangere. E Gigi ne era la prova vivente.Ma ieri, con quell’uscita di scena, è riuscito nelle due imprese insieme”.
Non è un Paese per vecchi, parola di Toti.
“Le parole di Toti sono terrificanti, fanno semplicemente schifo. Conosco un po’ Toti e mi rifiuto di credere che volesse dire quello che scritto. Il problema è che molti, a destra, pensano quello che ha scritto Toti. Basta sentire quel che ha detto il leghista Borghi alla Camera: c’è gente che ha un’idea ipercapitalista, cinica e mercantile della vita. O lavori e produci, o sei sacrificabile. Questo è terrificante. Proietti aveva 80 anni e magari per Toti o Borghi non era “indispensabile alla produttività”, ma era indispensabile alla nostra bellezza culturale, morale e umana molto più di Toti e Borghi”.(a Otto e mezzo)
Il coordinatore anti-covid ai domiciliari.
Otto persone sono finite agli arresti domiciliari tra cui Antonino Candela, 55 anni, attuale coordinatore della struttura regionale per l’emergenza Covid-19, già commissario straordinario e direttore generale dell’Asp di Palermo. L’operazione “Sorella sanità” ha fatto luce su un vasto sistema di mazzette e appalti pilotati nella sanità, portando a 12 misure cautelari personali, sequestri di imprese e disponibilità finanziarie. “Ricordati che la sanità è un condominio e io sempre capo condominio rimango”, diceva Candela, non sapendo di essere intercettato. Il gip sostiene che Candela “si atteggiava a strenuo paladino della legalità”, ma che è ritenuto a capo di uno dei centri di influenza in grado di condizionare e pilotare gli appalti, intascando mazzette per 260 mila euro.Ne usciremo migliori stocaxzo.
Le capriole di Fontana e degli altri governatori su zone rosse e criteri: prima era “competenza del governo”, ora è “inaccettabile”. - Daniele Fiori
Il presidente della Lombardia, fin dal caso di Alzano e Nembro, ha sempre sostenuto che la scelta sulle zone rosse spetti a Roma. Ora che Palazzo Chigi ha provveduto, la decisione è diventata "inaccettabile". Anche Spirlì in Calabria e Cirio in Piemonte contestano i parametri adottati: eppure sono stati decisi e condivisi insieme alle stesse Regioni, che sono rappresentate anche nella cabina di regia che effettua il monitoraggio. Finché servivano per allentare la stretta, nessuno li aveva criticati. Anzi in quel caso i presidenti di regione chiedevano "autonomia" nelle scelte. Quando invece i numeri sono tornati a salire, è partito il "gioco del cerino".
Una settimana fa il governatore Attilio Fontana ribadiva che “un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo“. Ora Palazzo Chigi ha deciso: la Lombardia è zona rossa. Ma Fontana continua a protestare: parla di decisione “inaccettabile“, contesta i dati “non aggiornati”. Cinque giorni fa il presidente facente funzioni della Calabria, Nino Spirlì, parlava di “necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. Adesso anche per lui la decisione del governo di inserire la sua Regione nella fascia a più alto rischio “è ingiustificabile” e anzi il sistema sanitario calabrese non starebbe riscontrando difficoltà, ma ieri ha modificato – abbassandoli – i dati sulle terapie intensive.
Il “gioco del cerino” – Sono solo due esempi di come alcune Regioni abbiano tenuto un atteggiamento tutt’altro che netto nella lotta alla pandemia. A cominciare dai famosi dati: le giunte regionali sanno quali sono i numeri sul coronavirus, li hanno sempre conosciuti. Molti dei governatori E le Regioni sanno anche quali sono i parametri con cui sono state decise le misure restrittive e ora la suddivisione del Paese in zone rosse, arancioni e gialle. Hanno rivendicato autonomia quando era il momento di allentare la stretta, ma non vogliono assumersi la responsabilità quando arriva – sempre secondo i dati – il momento di chiudere, di tornare in lockdown. Negli ambienti politici viene definito come il “gioco del cerino”, un meccanismo che prescinde dal colore politico. Non lo ha fatto in Campania il dem Vincenzo De Luca, annunciando il lockdown, prima di fare marcia indietro quando i napoletani sono scesi in strada a protestare. Non ha voluto farlo nemmeno Fontana in Lombardia. Evitò di chiudere Alzano e Nembro la scorsa primavera, sostenendo che era il governo a dover intervenire, nonostante la legge 833 del 1978 attribuisca ai governatori la facoltà di emettere “ordinanze di carattere contingibile ed urgente” in materia di sanità pubblica, purché limitate “alla regione o a parte del suo territorio”. Anche adesso ha aspettato che a decidere fosse Roma. Non ancora soddisfatto ha poi ha criticato la decisione del governo centrale.
I dati del governo? Sono le Regioni a inviarli a Roma – “È surreale”, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, “che anziché assumersi la loro parte di responsabilità ci sia chi faccia finta di ignorare la gravità dei dati”. I dati che hanno spinto l’esecutivo a determinare le fasce gialle, arancioni e rosse, infatti, sono le stesse regioni a comunicarle alla cabina di regia: su questa base da maggio viene effettuato il monitoraggio. Nella cabina di regia, inoltre, ci sono tre rappresentanti indicati dai governatori. Lo ha spiegato ieri il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro: “All’interno della cabina di regia ci sono – ha sottolineato – tre colleghi che rappresentano le Regioni del nord, centro e sud“. E non solo, ha aggiunto Brusaferro: “Settimanalmente i dati vengono analizzati, condivisi e validati, con un processo molto preciso, tra Regioni, Iss e ministero e vengono poi assemblati, attraverso 21 indicatori, su cui si esprime un giudizio di pericolosità basso, medio, moderato o alto”. Questi 21 parametri le Regioni li conoscono dalla scorsa primavera. Così come, il 12 ottobre scorso gli assessori regionali alla Sanità hanno ricevuto il dossier che prevede i diversi scenari di rischio in relazione all’andamento della curva epidemica e che prescrive l’adozione di misure via via sempre più stringenti. Esattamente la base su cui si è stabilita la divisione oggettiva dell’Italia nelle varie zone. Forse gli assessori non lo hanno condiviso con i rispettivi governatori, a giudicare dalla reazione delle Regioni quando il presidente del Consiglio si è presentato davanti a loro con in mano il Dpcm che prevedeva le nuove restrizioni.
Quando d’estate chiedevano autonomia – Finché invece si trattava di allentare le misure, i governatori apprezzavano le varie distinzioni regionali e anzi chiedevano a Roma maggiore autonomia. A fine aprile, mentre si avvicinava la cosiddetta Fase 2, quella post-lockdown, le tensioni tra Regioni e governo riguardavano proprio questo punto, con i presidenti che contestavano il calendario delle riaperture dettato dal premier Giuseppe Conte. Il motivo? Inaccettabile, a loro parere, che il governo dettasse regole valide per tutti i territori. Allora bisognava differenziare, insomma, garantire più poteri a Regioni e Comuni, fare aprire per primi quei territori col contagio più basso. Per tutta l’estate i governatori hanno emanato ordinanze autonome. Anche dopo il pasticcio della riapertura delle discoteche, il 22 agosto scorso al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini i presidenti Stefano Bonaccini (Emilia-Romagna), Giovanni Toti (Liguria), Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) e Maurizio Fugatti (Trento) chiedevano sempre la stessa cosa: “Maggiore autonomia“.
Quando in autunno volevano che scegliesse il governo – Un mese più tardi, quando i dati dei contagi già cominciavano a salire, l’aspirazione dei governatori era avere i tifosi alle partite di calcio: il 24 settembre la Conferenza delle Regioni diede il via libera all’apertura degli stadi a un numero di spettatori per una capienza massima del 25% del totale dei posti disponibili. L’iniziativa fu fermata dal Comitato tecnico scientifico, che scelse sulla base dei dati. Una decisione che si è rilevata lungimirante. I contagi infatti hanno cominciato a salire e sono tornate le ordinanze restrittive, così come i nuovi Dpcm. Fino a quando medici ed esperti hanno cominciato a premere per il ritorno alle zone rosse e ai lockdown mirati. A quel punto molti governatori hanno alzato le mani imboccando quella che è una vera e propria inversine a U: Autonomia sulle strette locali? Nossignore, tocca al governo. Palazzo Chigi ha agito, sulla base dei 21 parametri e dei 4 scenari decisi e condivisi con le stesse Regioni. E calcolati tramite i loro dati. Questo, però, non ha evitato l’ennesima giravolta, con polemiche annesse.
LOMBARDIA – Un rimpallo di responsabilità che in Lombardia era cominciato addirittura in primavera, dopo la mancata istituzione della zona rossa nella Bergamasca, ad Alzano e Nembro. “Abbiamo chiesto invano al governo l’istituzione di nuove zone rosse comprendenti quei Comuni“, diceva il 2 aprile Fontana, sostenendo che il Pirellone non potesse agire. Cinque giorni dopo l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera disse che “la legge permetteva alla Regione di istituire la zona rossa”, ma il governatore lo ha sempre smentito, parlando di “un potere che deve essere riservato esclusivamente al governo centrale”. Una posizione che Fontana ha ribadito lo scorso 28 ottobre, parlando a RaiNews: “Un eventuale lockdown è una competenza che spetta al governo e quindi io potrei magari sollecitarla, ma io non posso autonomamente assumerla”. Quattro giorni dopo è cominciata la virata: “Una serie di interventi territorio per territorio, polverizzati e non omogenei, sarebbero probabilmente inefficaci“, ha iniziato a sostenere il leghista. Che però diceva: “Il lockdown è l’unica misura che si è dimostrata efficace“. Passano altri tre giorni e la giravolta è completa: l’istituzione della zona rossa diventa “uno schiaffo in faccia alla Lombardia e a tutti i lombardi”. È la sera del 4 novembre quando Fontana parla: dal 28 ottbre è passata meno di una settimana.
CALABRIA – Un’altra regione in zona rossa è la Calabria e il presidente facente funzioni, il leghista Spirlì, si dice a sua volta incredulo. Era lui stesso, il 23 ottobre scorso, a parlare già di un “momento critico” per la Regione, mentre presentava la nuova ordinanza restrittiva. Lo stesso giorno, in merito all’ipotesi di un lockdown, spiegava anche che “a valutare cosa è necessario fare devono essere i singoli territori“. Una settimana dopo, sempre ad ascoltare le parole di Spirlì, la situazione in Calabria non era migliorata: “Ci auguriamo che, grazie alla nuova ordinanza, nelle prossime due settimane la curva dei contagi possa scendere. Abbiamo la necessità di far decongestionare gli ingressi negli ospedali e di fermare l’aumento dei contagiati”. E nel presentare il suo provvedimento spiegava anche quale fosse il criterio da lui scelto: “Esistono zone fortemente colpite, le zone rosse, altre che sono altamente colpite, le zone arancione, e poi territori che sono tenuti sotto sorveglianza giorno dopo giorno”. Quando ad usare questo metodo è il governo, però, allora è una scelta “ingiustificabile“. Nel frattempo la Regione ha modificato il criterio per calcolare le terapie intensive, facendo calare il dato dei pazienti in rianimazione: non è bastato per evitare l’inserimento nella zona ad alto rischio.
PIEMONTE – “Se si dovranno fare lockdown dovranno essere per aree omogenee. E comunque lavoro e scuola devono essere salvaguardate fino alla fine”. Così parlava invece il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, ai microfoni di Radio Capital il 15 ottobre scorso. Oggi quindi dovrebbe approvare le scelte del governo, invece lo accusa di avere usato “due pesi e due misure per Piemonte e Campania”. In questo caso però il governatore di Forza Italia aveva già chiarito la sua nuova posizione il 2 novembre scorso: “Le misure devono essere necessariamente nazionali, perché dalla Valle d’Aosta alla Calabria il virus c’è ovunque e sta crescendo ovunque”, diceva su Sky TG24, ignorando quindi parametri e scenari che il governo aveva già comunicato alle Regioni da tempo. Cirio poi aggiungeva: “Il Covid è un problema nazionale e servono misure nazionali”. La maggior parte dei suoi colleghi governatori di centrodestra, con Luca Zaia in testa, dicono di pensarla esattamente al contrario. Oltre a Zaia, ad esempio, c’è anche Giovanni Toti in Liguria: “Come presidente di Regione riterrei opportuno che il governo lasci alle Regioni la facoltà di emanare ordinanze proprie, sia migliorative sia restrittive, e non ponga limitazioni al potere delle Regioni”, diceva il 5 ottobre scorso.
CAMPANIA – Se nemmeno tra governatori dello stesso centrodestra c’è accordo su quale criterio debba essere utilizzato per decidere le restrizioni, il premio per la giravolta più rapida spetta a un governatore del centrosinistra: Vincenzo De Luca in Campania. Il 23 ottobre il presidente di Regione chiese al Governo un lockdown nazionale e specificò che in ogni caso “la Campania si muoverà in questa direzione a brevissimo“. La serrata sembrava imminente, già pronta a essere firmata il giorno successivo. Poi però ci fu la durissima protesta a Napoli, con gli esercenti in piazza e gli scontri tra alcuni manifestanti e la polizia. Meno di 24 ore dopo De Luca ritirò tutto: “In assenza di una misura restrittiva generale non ha senso adottare norme che mettono in ginocchio intere categorie”, spiegò ufficialmente il governatore. Che poi, il 30 ottobre, è comunque tornato ad attaccare il governo, accusandolo di “fortissimi ritardi nelle decisioni”.
ALTO ADIGE – Chi ha a lungo snobbato il governo, per poi fare più volte retromarcia, è stata anche la Provincia di Bolzano a guida Svp. “Non servono”, disse il presidente Arno Kompatscher riferendosi alle misure decise da Roma il 14 ottobre scorso, salvo poi cambiare idea in pochi giorni e introdurre praticamente le stesse restrizioni con un proprio provvedimento. Poi l’Alto Adige decise di far da sé anche sulla chiusura dei locali, posticipandola alle 22. Il preludio a un’altra retromarcia decisa questa volta il 29 ottobre: “Ci muoviamo in linea con la Germania e l’Austria“, aveva detto allora Kompatscher per giustificarsi. In due settimane un cambio di linea completo, fino all’ultima decisione di inizio novembre: un semi-lockdown per tutta la Provincia, con la chiusura di bar, ristoranti e pure negozi, oltre al coprifuoco dalle 20 alle 5. Kompatscher però ha almeno ammesso che esistono dei criteri oggettivi stabiliti dal governo: “Il provvedimento che abbiamo approvato – ha spiegato il 2 novembre – è in linea con il documento nazionale dell’8 ottobre che aveva previsto diversi scenari. Ci siamo orientati su questo documento”. Il presidente della Provincia, orgoglioso autonomista, ha ricordato anche un altro concetto: “Autonomia significa proprio questo, assumersi delle responsabilità“. Nel suo caso sia quando tentava di aprire tutto sia quando, al contrario, ha virato verso il lockdown.